LE NOTTI BIANCHE di Cesare Molinari

Recentemente il gruppo Repubblica-Espresso ha pubblicato in dvd un vecchio film di Luchino Visconti: Le notti bianche. è stata per me l’occasione di rivedere quest’opera dimenticata, che avevo visto al festival di Venezia dove fu presentata nel 1957 e di cui avevo solo un ricordo tanto vago che mi sono stupito di trovarmi di fronte a quello che mi è parso un capolavoro assolutamente emozionante, come eccezionale nel contesto della produzione viscontiana.

Più o meno la metà dei film di Visconti nascono come trasposizione cinematografica di opere narrative: così i precedenti Ossessione (da Il postino suona sempre due volte di James Cain), La terra trema (dai verghiani Malavoglia), Senso (dal racconto di Camillo Boito), come i successivi Il gattopardo (da Tomasi di Lampedusa), Lo Straniero (da Camus) La Morte a Venezia (da Thomas Mann) fino a L’innocente (da D’Annunzio). Con l’eccezione proprio di Ossessione, dove la serrata e intensa trama, per così dire poliziesca di James Cain viene diluita nel lungo peregrinare del protagonista nel contesto della desolata Italia degli ultimi anni Trenta (?), gli altri film citati non si discostano, almeno per quanto riguarda l’ambientazione, dai testi di partenza: in La Morte a Venezia le indicazioni del romanzo appaiono seguite addirittura alla lettera – l’Hotel des Bains al Lido e la Venezia morente (“die versunkene Königin” di Mann).

Al contrario, in Le notti bianche la Pietroburgo del breve romanzo di Dostojevski,  che peraltro la descrive in termini molto approssimativi, con pochissimi toponimi, a parte il classico Nevskij Prospekt, diventa nel film una città fantastica che ‘ufficialmente’ dovrebbe essere Livorno, ma che, di fatto, sembra piuttosto ispirata da una parte a Matera, dove la città antica, fatta di piccole case contadine irregolarmente disposte in una struttura urbanistica quasi casuale, confina, ma senza sfumare in essa, con quella moderna dove non mancano grandi costruzioni in marmo; ma dall’altra a una Venezia spogliata dei suoi monumenti, ma con i suoi ponti, i suoi canali, le sue calli, però qui mai rettilinee, e perfino delle piccole ‘fondamenta’ dove si raccolgono frammenti dell’umanità più misera. Una Venezia peraltro stranamente deformata e minacciosa, di sapore fortemente espressionista.

L’impianto narrativo del racconto rimane sostanzialmente intatto: dal casuale incontro del protagonista (Mario nel film, ma definito soltanto come “il sognatore” nel romanzo) con la donna piangente (Nasten’ka, italianizzato in Natalia nel film), che egli tenta di consolare e che pian piano gli confida la storia del suo grande amore con “l’Inquilino” di cui aspetta il ritorno, che avviene proprio nel momento in cui la fanciulla sta per cedere all’amore di Mario; fino alle parole che egli mormora quando è rimasto solo, quasi esattamente le stesse con cui si conclude il racconto: “grazie per l’istante di felicità che mi hai donato, che non è poco nemmeno per tutta una vita”, e che sono soltanto una delle numerose precise citazioni del romanzo di Dostojevski.

Dove però la storia si sviluppa essenzialmente nei lunghi discorsi dei due protagonisti – quasi una successione di monologhi – mentre nel film parla quasi esclusivamente Mario, la fanciulla rispondendogli soprattutto con lunghi sguardi, sorridenti o tristi, anche perché la storia del suo amore viene visualizzata in un lungo flash-back, che trasferisce l’azione dalle strade della città all’interno della grande casa di lei, diventata uno strano atelier per il restauro dei tappeti, tanto irreale e fantastico, quanto ‘verista’ è la camera in affitto dove Mario si rivolta nel letto disfatto.

Ma si tratta sostanzialmente di parentesi, anche se essenziali, nel primo caso, per sostituire il racconto della fanciulla, dandogli la sostanza di una verità sognata; e, nel secondo, per dare concretezza alla misera solitudine della vita reale del sognatore.

Parentesi essenziali dunque, almeno dal punto di vista narrativo, ma comunque non sufficienti per far dimenticare il fatto che i lunghi discorsi del romanzo vengono sostanzialmente sostituiti, nel film, dall’inesausto girovagare dei due protagonisti, che esalta il ruolo della città, trasformata da puro ambiente quasi in un terzo personaggio, altrettanto e forse più complesso di quelli umani. Una complessità che prende corpo non solo nel continuo variare dei percorsi, in verità sempre sostanzialmente gli stessi, ma anche nell’improvviso e ingiustificato trasferirsi dell’azione dalla città antica ed espressionisticamente minacciosa in quella moderna, geometrica, ma solo apparentemente serena. Non per nulla il lungo episodio che vi si svolge è del tutto assente nel romanzo e si trasferisce rapidamente dalla passeggiata sotto il luminoso portico marmoreo nell’interno di un piccolo ristorante che presto si rivela essere una balera dove trionfano balli rock e boogie-woogie, nei quali Mario e Natalia si lasciano gioiosamente coinvolgere, ma solo per venirne alla fine travolti e quasi risucchiati, tant’è vero che l’episodio si conclude con un’inquadratura dall’alto che li lascia scorgere come annegati in un vortice – eppure sorridenti.

Ciò che pone un problema di fondo, anch’esso del tutto assente nel testo di Dostojevski: qual’è la vita reale, questa che si lascia coinvolgere in una massa gioiosamente indistinta e fisicamente frenetica, o quell’altra in cui il lento camminare nelle minacciose strade di una città favolosa costringe a trasferire la speranza nel rincorrersi e nel confliggere dei desideri in una dimensione puramente sentimentale?

Veramente, quella vita fisicamente intensa e violenta penetra a tratti anche all’interno della città misteriosamente antica o, piuttosto, fuori del tempo: ve la portano il piccolo gruppo di ragazzacci in motocicletta che importunano Natalia, dando occasione a Mario di ergersi a suo eroico difensore. Così come, per un breve momento, vi si apre un ambiente interno, un bar, dove staziona una prostituta, che cerca di avvicinare Mario, ma quasi soltanto con uno sguardo che esce da un viso immobilmente fissato in un malinconico sorriso che non ha bisogno di variazioni mimiche per dire il suo desiderio e la sua disperazione. Quando usciranno, la donna rivelerà una figura alta ed elegante e diventerà più fisicamente attiva nel trascinare Mario nella piccola fondamenta già occupata da un ammucchiato gruppo di miserabili, nero anch’esso, dove vorrebbe fare l’amore con lui: la sua camera da letto! Ma ciò non toglie che tutta la sua personalità rimanga concentrata in quel volto tanto immobile quanto espressivo: è come se Clara Calamai, che ricordiamo straordinaria e mobilissima interprete di Giovanna Bragana in Ossessione, avesse voluto\dovuto trasformare quella grande varietà di atteggiamenti e di mimica nella fissità di un volto doloroso, come assorbendo e rovesciando la superba imperturbabilità di Greta Garbo. Non lo è, ma il personaggio della Calamai potrebbe essere considerato episodico, o di contorno. In verità, esso, rovesciando i termini del desiderio d’amore, sembra essere piuttosto il simbolo assoluto dell’impossibilità di sconfiggere la condanna a una solitudine ancora più definitiva di quella del sognatore Mario.

Dall’altra parte, anche il personaggio dell’Inquilino amato da Natalia potrebbe essere considerato marginale a causa della rarità delle sue apparizioni, confinate nel flash-back fino alla scena finale. In verità egli è IL protagonista, o, almeno, il protagonista passivo in quanto oggetto del desiderio e quindi motore immobile dell’intera vicenda. Ma qui interessa notare come, forse proprio a causa di tale sua funzione, egli appaia altrettanto privo di variazioni mimico-gestuali quanto la prostituta, senza che l’identica fissità del suo viso lasci trasparire l’intensità di una tempesta interiore in qualche modo avvicinabile a quella di lei. Simbolo insuperato della bellezza e del fascino maschili, Jean Marais (attore amato anche eroticamente da Visconti come da Jean Cocteau che lo aveva lanciato – et pour cause! – con Orphée nel 1949) recita qui, in sostanza, la parte di una statua di Policleto, l’incarnazione della bellezza an sich. Così, sono i due personaggi marginali a rappresentare i due poli del destino umano – una polarizzazione che non si ritrova in Dostojevski, dove il personaggio della prostituta infelice non compare affatto.

Abbiamo visto come nel romanzo i due protagonisti siano quasi egualmente loquaci, le loro conversazioni risolvendosi in lunghi monologhi. Nella sceneggiatura di Suso Cecchi D’Amico, invece, a parlare è quasi esclusivamente Mario, mentre Natalia, anche in forza del fatto che il suo racconto è visualizzato cinematograficamente, risponde soltanto con brevi battute e, il più delle volte con il solo sorriso, il sorriso dolcissimo e vagamente infantile di Maria Schell, a sua volta icona della tenerezza e della dolcezza femminili, e quindi profondamente diversa dalla Nasten’ka dostojevskiana, descritta come una bellezza bruna e aggressiva, che sa argomentare e replicare anche con decisione, se non con durezza. Per quanto la sua mimica sia molto più varia e intensa, trascorrendo dal riso al pianto, dall’allegria alla più profonda tristezza, che è però soprattutto rimpianto, anche Natalia rimane sostanzialmente un personaggio monocorde. Al contrario, Marcello Mastroianni costruisce un personaggio estremamente mobile, non solo perché possiamo vederlo nella sua vita privata, da scapolo alle prese con le cure non gradite della sua padrona di casa e imbacuccato fra le coperte in preda a un brutto raffreddore, ma anche e principalmente perché, nei suoi tentativi prima di consolare e poi di conquistare Natalia, trapassa da atteggiamenti suadenti ad altri di autoritaria durezza, alla supplica dell’innamorato senza speranza e infine alla felicità del creduto successo; e ancora perché, nel breve rapporto con la prostituta, mostra come anche l’infelice possa essere incurante dell’altrui dolore: Mario dapprima cerca di sfuggirle, poi sembra cedere e, alla fine, la respinge violentemente, disgustato all’idea di poter fare l’amore in quel luogo così degradato, in presenza di quel miserabile avanzo di umanità, che comunque, certamente non li avrebbe guardati. Ciò che riporta in primo piano la città, con i suoi abitanti, tra i quali, in fondo, sono possibili soltanto fugaci incontri, magari conflittuali, come con i motociclisti, o di reciproca indifferenza, come nel breve episodio dell’uomo che si rifugia accanto a Mario e Natalia per sfuggire alla pioggia improvvisamente scatenatasi e che dice soltanto qualche parola, ma senza rivolgersi a loro. Un breve episodio in cui la città apparentemente scompare, come per risolversi nella pioggia. Mentre è sempre presente, molto di più che come sfondo, anche quando Mario è solo nel suo girovagare e, in particolare, nel momento in cui strappa la lettera di Natalia, che avrebbe dovuto consegnare agli ospiti dell’Inquilino, sulla balaustra dello stesso ponte in cui aveva visto la ragazza per la prima volta. Ciò che spiega anche come i primissimi piani siano relativamente rari e quasi sempre riservati ai momenti di maggiore tenerezza fra i due protagonisti, come per dare risalto soprattutto al sorriso luminosamente triste di Maria Schell – e varrà la pena di notare quanta sia la distanza fra il cinema di oggi, che dei primi piani abusa fino alla nausea, e quello di Visconti, in cui il primo piano (che Béla Balázs considerava il sale del linguaggio cinematografico) conserva il suo valore di esaltazione del significato di un volto proprio in forza della sua eccezionalità.

Ma succede anche il contrario, nel senso che sono rare anche le visioni in piani lunghissimi, che allontanerebbero la città facendone una sorta di panorama. Anzi, in un caso soltanto: l’ultima scena, in cui Natalia corre dall’amante dall’amato nelle cui braccia si rifugia in primo piano, uscendo finalmente con lui dall’inquadratura che ora mostra soltanto non Mario, ma la sua ombra che si staglia sul fondo di una visione nebbiosa che non è più nemmeno la città.

All’osservatore superficiale che fonda il suo giudizio sull’intreccio, il film di Luchino Visconti potrà sembrare la più banale delle tristi storie d’amore in cui l’innamorato vero esce fatalmente sconfitto proprio nel momento in cui credeva di aver realizzato il suo sogno, mentre invece la sostanza del film consiste piuttosto in questo che l’impari contesa fra l’amore e la fascinazione, fra un uomo di carne e un inattingibile simbolo non è mai diretta, né lo potrebbe perché non si svolge nel recinto di un torneo, ma nella vaga indeterminazione di una città concretamente favolosa e miserabile, alla quale tocca di decidere i destini.

P.S.: Questo articolo non ha alcuna pretesa di avere un fondamento ‘scientifico’, neppure nel senso lato che questa parola assume in riferimento alla critica letteraria: non ho compulsato la bibliografia, né ho potuto leggere l’originale del romanzo di Dostojevski. Intendevo solo richiamare l’attenzione su un’opera cinematografica ingiustamente dimenticata.

 

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