Teoría y práctica del Caballero Andante según Don Quijote di Arturo Lorenzo

Prima di tutto, persa la ragione a causa delle tante letture insensate, “… le pareció convenible y necesario… hacerse caballero andante y irse por el mundo”, col proposito di praticare ciò che facevano i cavalieri erranti come aveva letto: porre rimedio agli oltraggi e affrontare i pericoli per, una volta superati, conquistare “eterno nombre y fama”. Ma, questo sì, senza dimenticare un certo riconoscimento materiali: prima di intraprendere le sue imprese, Don Chisciotte si immaginava già imperatore di Trevisonda “por el valor de su brazo”.

Ossia, in alcune breve righe Don Chisciotte/Cervantes ci espone l’obiettivo della propria metamorfosi da modesto nobiluomo (hidalgo) mancego a famoso cavaliere errante. E come si produce questa trasformazione? Molto semplice: la prima cosa è procurarsi le armi, segno dell’identità propria dei cavalieri. In secondo luogo, bisogna dare nome alle cose, cioè, bisogna dotare identità propria gli attributi e gli elementi principali che accompagnano il cavaliere, non può essere un nome comune, come dire: ho un levriere. Se fosse il caso, anche il cane di Don Chisciotte avrebbe un nome. Si ricordi che il levriere dell’hidaldo mancego da cui nascerà l’ingegnoso cavaliere, aveva un attributo: corridore. Ma non aveva un nome.

“Y lo primero que hizo fue limpiar unas armas que haban sido de sus bisabuelos”.

In questo primo capitolo il paragrafo sulle armi non ha niente di superfluo. Cervantes tratta la figura dell’hidalgo con una freschezza tale da permetterci di intuire la personalità che si verrà sviluppando in Don Chisciotte. E’ già curioso che non faccia pulire le armi, cosa che per esempio avrebbe potuto fare al “mozo de campo y plaza”. Da buon militare non gli fa schifo la cura delle sue armi né il lavoro manuale, per lo meno per ciò che si riferisce all’armamento. E ancor più, per la prima e l’ultima volta in tutto il libro, l’hidalgo ci si rivela uomo sufficientemente industrioso e con doti tecniche da azzardare di comporre, o ricomporre, le proprie armi protettrici.

Dice il narratore, forse Cervantes o chi si nasconde dietro questo nome, che il nostro hidalgo passa una settimana ricomponendo la sua corazza e che nel provarne la sua resistenza rimase distrutta da una coltellata. Ne costruisce un’altra – non specifica in quanto tempo – apparentemente più solida, “de tal manera que el quedó satisfecho de su fortaleza, y sin querer hacer nueva experiencia della, la diputó y tuvo por celada de finismo encaje.”

Don Chisciotte era pazzo, ma non al punto di passare i giorni provando se le armi che costruiva avessero sufficiente capacità di resistenza alle possibili future coltellate nemiche.

E’ impossibile sapere se Cervantes iniziò a scrivere il libro dal principio, cioè, da questo primo capitolo, né dove né quando esattamente lo scrisse. Si è speculato molto sulla sua prigionia nel carcere di Sevilla… questo sarebbe l’apporto più romantico della critica: Cervantes scrisse delle pagine da ridere a crepapelle nelle prigioni sotterranee andaluse. Se non è vero, è ben trovato.

 Il lettore di oggi, come quello di allora, si imbatte in un libro in cui, nelle prime due pagine, l’autore gli ha già dato motivo di cadere dalla sedia per le risate. Il Don Chisciotte è un libro che ci fa ridere. Bisogna perdere il timore alla sacralità dei classici. Ma, caro amico, la risata non è mai stata ben vista dai classici. Al contrario molto malvista. Cervantes pagò l’azzardo del suo geniale umorismo con lo scarso apprezzamento dei suoi contemporanei. Era un autore minore, uno che si dedicava a cose di scherzo e burla. E così fu visto anche dalla grande Italia del barocco, del neoclassicismo. Nemmeno col romanticismo giunse in Italia. Dovette attendete fino al già avanzato al secolo XX per essere considerato seriamente. Che impertinenza nel fare dell’eroe un buffone avranno commentato i tardo rinascimentali italiani? In quale poetica si è mai vista una cosa simile? Per fortuna in Francia, Inghilterra e, più tardi, in Germania, capirono che il Chisciotte apriva spazi di creazione e libertà fino allora impensabili nella letteratura occidentale.Ma ci eravamo proposti di parlare di ciò che significa essere un cavaliere errante secondo Don Chisciotte. E, dunque dobbiamo tornarvi.

Recuperate e fatte le armi che crede sufficienti per la sua professione di cavaliere errante, inizia il difficile compito di porre nome alle cose. “Fue luego a ver a su rocín… Cuatro dmas se le pasaron en inaginar qué nombre le pondría”. Chiaro, il complemento delle armi, per il cavaliere, è il cavallo, sebbene sia solo un magro ronzino. E gli pose Rocinante, “nombre, a su parecer, alto, sonoro y significativo.

Sembra strano che Don Chisciotte cerchi il nome al suo cavallo prima che a se stesso. Il cavallo, nella mentalità cavalleresca, è in realtà un’arma. Inoltre, è l’arma in sostanza che distingue il cavaliere dal plebeo. Dunque aggiustate le armi e battezzato l’animale, Don Chisciotte intraprende il sovraumano compito di cercare un nome a se stesso. “Y en este pensamiento duró otros ocho díaz.

Non è il caso di concentrarsi su ciò che significa ‘chisciotte’ dato che il nostro intento era scoprire usi e costumi del cavaliere errante. Già ne abbiamo visto alcuni, e possiamo dire che il cavaliere ha obiettivi/progetti (rendere il mondo migliore), conquistare fama attraverso di essi e crearsi un piccolo impero (Trevisonda), costruire le proprie armi, cavallo incluso, e porre nome a tutte le sue modeste pertinenze. Bene. Ha già tutto questo. Lo realizza in alcune interminabili settimane nella sua modesta fattoria de La Mancia. Ma gli manca una cosa fondamentale. Dove si è mai visto un cavaliere che non abbia una dama alla quale offrire i suoi trionfi e l’umiliazione dei suoi nemici?

E qui Cervantes torna a sorprenderci con un’uscita che a poco a poco diverrà tratto di identità di tutta la sua opera: il valore e il ruolo della donna nella società. La donna di Don Chisciotte non è una bambola da vetrina né una donna frivola che abbandona il suo eroe per altre braccia. Don Chisciotte vuole che i giganti da lui vinti si presentino alla sua dama affinché “la vuestra grandeza disponga de mi a su talante.”

Come direbbe Unamuno di questo primo capitolo, Don Chisciotte ebbe la grandezza e la disgrazia di credere che la bellezza dei suoi pensieri fosse la verità del mondo.

 

(Milano, 23 marzo 2016)

 

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