Nell’era delle diseguaglianze globali di Giacomo Russo Spena

L’ultimo tradimento, in ordine cronologico, è quello dei socialisti spagnoli che hanno deciso di dare appoggio esterno al governo conservatore di Mariano Rajoy. La conferma di come le socialdemocrazie europee abbiano abbandonato le ragioni della sinistra – sposando spesso e volentieri le larghe intese – da quando si è assunto il paradigma della ‘terza via’ di Tony Blair, Bill Clinton e dei tanti emuli i quali hanno utilizzato la parola “riformismo” per sostenere guerre umanitarie, privatizzazioni, deregulation e precarizzazione della vita dei cittadini.

Una mutazione antropologica, quella dei socialdemocratici, dovuta, sia ad errori soggettivi (la riaffermazione del primato dell’economia e del mercato assoluto sulla politica di trasformazione, la subalternità alla concezione delle liberalizzazioni e della privatizzazioni rispetto alla pubblica programmazione e pianificazione, salario ed occupazione come variabili dipendenti dai moderni processi di valorizzazione del capitale) che alla insufficiente analisi e comprensione nel “mare in subbuglio di quel capitalismo in via di mutazione”, per parafrasare lo storico Eric Hobsbawm.

Le socialdemocrazie hanno, in massima parte, esaltato le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione liberista rimuovendo il contesto di nascita e di pervasività di un capitale finanziario predatorio che sempre più assumeva una dimensione biopolitica, di coinvolgimento violento delle vite stesse dei cittadini. Impossibile da gestire e dominare.

Sono stati i primi a precarizzare il mondo del lavoro o a contrapporre detenzioni agli esodi massicci ed inarrestabili di migranti, i socialdemocratici hanno scelto, e scelgono ancora, la via dei Cpt (Centri di permanenza temporanea) e dei Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Lager mascherati. Così, in moltissimi campi, con il pretesto delle “riforme” hanno intrapreso un percorso poi proseguito dalle destre. Come dimenticarsi del pacchetto Treu, della Turco-Napolitano o delle guerre “umanitarie”?

La ‘terza via’ blairiana è figlia di un passato banale, conservatore, impossibile, arretrato analiticamente. L’ex primo ministro inglese, tra l’altro, è colui che ha confessato anni dopo di aver mentito al parlamento inventando le prove sull’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam, scatenando una guerra e facendo 500/600 mila di morti, innumerevoli feriti e creando fino a 5 milioni di profughi.

Forse, infatti, la genesi della crisi delle socialdemocrazie è nel fallimento – e, insieme, nell’impossibilità strutturale e sociale – di quelle che sono state nominate come “liberismi temperati”. Un ossimoro nei fatti.

Così dopo l’avanzamento sociale, nel trentennio glorioso legato al modello europeo, nel 2000 sono proprio i socialisti ad attaccare, e smantellare, per primi i diversi sistemi di Welfare State. La destra ha continuato su un terreno già ben concimato. La crisi economica, e le conseguenti politiche di austerity, hanno acutizzato il processo di declino delle nostre democrazie: in Europa ormai vige il pensiero unico. A comandare sono il Mercato, la finanza, le agenzie di rating. I governi – sia di destra che di sinistra – sono subalterni. Nessuno mette in discussione i vincoli dell’austerity.

Un altro grande fallimento delle socialdemocrazie, con devastanti effetti perfino di spaesamento, è la subalternità rispetto alla frattura evidente che si è prodotta tra capitale finanziario e democrazia costituzionale come si è palesato in Italia con il tentativo (poi sventato col referendum del 4 dicembre) di riformare la nostra Carta: la socialdemocrazia scompare rispetto a quelle involuzioni dirigistiche, oligarchiche, autoritarie che configurano una vera e propria “fuga dalla democrazia”.

Pensiamo allo strapotere di organismi incontrollati, e persino ademocratici, come la BCE (non a caso Mario Draghi ha, con acume, parlato di “pilota automatico”) che alludono alla supremazia delle istituzioni oligarchiche europee anche rispetto a governi e sovranità nazionali, come vediamo quotidianamente nella bancarotta anche politica dell’UE nei confronti della drammatica ed emblematica situazione greca, nei meccanismi istituzionali del Fiscal Compact, nel nostro nuovo art. 81 (pareggio di Bilancio) della Costituzione, nell’egemonia della finanza e nel ricatto del debito pubblico.

La socialdemocrazia muore quando, di fronte alla crisi della globalizzazione liberista, con la situazione magmatica che si è creata, è subalterna – e, spesso, addirittura gestisce – i due volti complementari della attuale accumulazione del capitale. Da un lato, il poderoso comando dell’offensiva oligarchica, sempre più incontrastata, contro i diritti sociali ed economici (il sociologo Luciano Gallino efficacemente l’ha definita “lotta di classe dall’alto”); dall’altro, la moltiplicazione dei dispositivi securitari diretti contro i diritti civili, politici, costituzionali e la repressione di ogni forma di dissenso e conflitto sociale. Per ultimo il bavaglio di internet con la scusa delle fake news.

Dove fallisce la socialdemocrazia? Nell’essere subalterna al carattere sistemico della struttura globale neoliberale: oligarchia contro democrazia. E’ un caso che, dopo la Brexit, dopo l’esito di ripoliticizzazione costituzionale del referendum in Italia, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano metta addirittura in discussione l’opportunità del voto popolare perché dominato “dal populismo” e altri sponsor della liberaldemocrazia giungano a porsi, con angoscia, la non opportunità di un suffragio universale in cui le persone votano “di pancia”?

Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, non un estremista né un pericoloso bolscevico, è arrivato a criticare il governo per il progetto di censura sul web: “Da quando gli elettori disobbediscono regolarmente agli establishment, questi cercano scuse per giustificare le proprie sconfitte e per mettere le mani sull’unico medium che ancora non controllano: la Rete. Si sentono voci autorevoli domandare: ma non vorremo mica far votare gli ignoranti, anzi i “populisti”? Se lo chiedeva già Gramsci: è giusto che il voto di Benedetto Croce valga quanto quello di un pastore transumante del Gennargentu? La risposta, di Gramsci ieri e di ogni democratico oggi, è semplice: se il pastore vota senza consapevolezze, è colpa di chi l’ha lasciato nell’ignoranza; e se tanta gente vota a casaccio, è perché la politica non gli ha fornito motivazioni adeguate. Questi signori pensino a come hanno ridotto la scuola, la cultura e l’informazione: altro che il Web!”

Quando i governi di centrosinistra europei tentano di sostituire le Costituzioni con la “lex mercatoria”, quando i governi diventano agenti diretti del capitalismo finanziario, quando l’economia diventa un gigantesco esproprio delle risorse nazionali e popolari, le socialdemocrazie, nella loro bancarotta, spingono, inconsapevolmente, il malessere, lo spaesamento, la criticità di massa verso la irrappresentabilità politica (e molto spesso, verso esiti catastrofici di guerre tra poveri, di ricerca del “capro espiatorio” nel migrante, se pensiamo al nuovo piano Minniti sul terrorismo). A tal proposito significativa la riflessione dell’economista Emiliano Brancaccio secondo cui “per uscire dalle secche di un dibattito sterile che sta montando a sinistra, tra i vecchi retori di un acritico europeismo e i nuovi apologeti di un ingenuo sovranismo nazionalista occorre cambiare radicalmente il campo di riflessione e sperimentazione”. La proposta – per Brancaccio – verte sull’introduzione di controlli sui movimenti di capitali da e verso quei Paesi che, con le loro politiche di dumping sociale alimentano gli squilibri commerciali: “Arrestiamo non i migranti ma i capitali che, con le loro scorrerie internazionali permanenti, alimentano la gara al ribasso dei salari e dei diritti e scatenano il caos macroeconomico”.

Occorrerebbe insomma mettere in discussione il principio di libera circolazione dei capitali; per costruire un sistema di relazioni internazionali votato allo sviluppo della ricchezza e dei diritti sociali.

In definitiva, socialdemocrazia e liberaldemocrazia hanno finito con il guidare il feticismo della stabilità monetaria e il paradigma dell’austerity. Il capitale finanziario, insomma, per sopravvivere sfascia la democrazia costituzionale.

Dal blairismo in poi, conservatori e socialisti sono andati a braccetto, spesso e volentieri in regimi di larghe intese. Lo stesso Martin Schulz, ex presidente del Parlamento Europeo, era stato nominato con il placet del Pp. Una simbiosi che non è sfuggita agli elettori che, in qualche Paese, ha punito seriamente il tradimento dalle ragioni della sinistra come avvenuto in Grecia dove il Pasok è stato del tutto polverizzato da Syriza. I socialisti greci, negli anni dei memorandum imposti dalla Troika, sono riusciti a passare dal quasi 30% al 5. Un disastro prevedibile nel momento in cui non hanno rappresentato più una reale alternativa agli occhi dei degli elettori affamati di giustizia sociale e stritolati dalla crisi economica.

Adesso è forte il rischio di pasokizzazione del Psoe in Spagna, dove Podemos ha ormai il monopolio dell’opposizione al governo conservatore.

Un elemento di somiglianza tra i socialisti spagnoli e greci è anche l’argomento secondo il quale i politici “responsabili” abbiano il dovere patriottico di fare tutto ciò è necessario per evitare che i governi provvisori. Il PSOE 2016, dice lo stesso del Pasok nel 2011: che il suo Paese non può permettersi un’altra elezione e ulteriori ritardi nella formazione di un governo “adeguato” in grado di prendere decisioni chiave in materia di budget e le “riforme” ispirato dalla Troika (anche se si tratta di un governo che i cittadini non hanno votato).

A parte due anomalie europee – in Portogallo i socialisti di António Costa hanno scelto di governare con i due partiti della sinistra più radicale e in Gran Bretagna Jeremy Corbyn prova, con mezzo partito contro, a far svoltare a sinistra il Labour Party – il Psoe ha seguito i recenti principi socialisti scegliendo di appoggiare un Pp, travolto tra l’altro da clamorosi scandali di corruzione.

Nell’elezione per il presidente dell’Europarlamento la rottura con la vittoria Antonio Tajani e la sconfitta del socialista italiano Gianni Pittella: 351 voti a 282 nel ballottaggio.

Non sufficiente, forse, per parlare di cambiamento per la socialdemocrazia e di nuova fase. Le radici, come abbiamo visto, sono più profonde.

Blair ha rifondato il partito sia dal punto di vista organizzativo che ideologico e in Italia è stato preso come un modello prima da Massimo D’Alema poi da Walter Veltroni e infine da Matteo Renzi.

In un’intervista alla Stampa del 22 aprile 2016, lo stesso Renzi dichiarava dopo un incontro con l’ex premier inglese: “Blair è stato una pietra miliare per la sinistra europea. Le critiche sul suo operato che sono venute dopo non possono cancellare il fatto che è un punto di riferimento straordinario. Adoro una sua frase: ‘Amo tutte le tradizioni del mio partito, tranne una: quella di perdere le elezioni’. Lo ammiro, è un modello per me anche perché non ha avuto paura di sfidare i suoi capi”. Finché non si farà autocritica con questa idea di “sinistra moderna” che poi va ad equipararsi con la destra liberista, difficilmente il Pse potrà rompere con l’establishment vigente e rappresentare un voto di rottura.

Pablo Iglesias, leader di Podemos, lo va ripetendo in Spagna: “Avere un programma, nei tempi dell’austerity, è un atto rivoluzionario”. Nell’era delle diseguaglianze globali – e dello scontro tra élite vs popolo – il Pse ha scelto in Europa di stare dalla parte dell’establishment. Ogni forma di ripensamento è centrale ma senza una capillare critica al blairismo, non sarà mai possibile un cambio di rotta.

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