I robot al posto delle api? di G.B. Zorzoli

 

Il verso “Sic vos non vobis mellificatis apes” (così voi, ma non per voi, producete il miele, api), attribuito a Virgilio, che peraltro nel libro quarto delle Georgiche esalta a lungo le doti di questi insetti, in realtà ne descrive in modo estremamente riduttivo le funzioni che svolgono all’interno del mondo dei viventi.

Molte colture faticherebbero a sopravvivere senza l’impollinazione delle api. Solo prodotti come mais, grano e riso si autoimpollinano. I nostri pasti, però, sarebbero molto più grigi e soprattutto molto meno nutrienti, senza mirtilli, ciliegie, angurie, lattuga e tante altre piante, che difficilmente troveremmo in commercio senza l’impollinazione delle api. Ad esempio, prugne, susine e angurie ne dipendono al 65%; sedano, cetrioli e ciliegie all’80%; cipolle, mirtilli, broccoli, avocadi, asparagi e mele al 90%, le mandorle al 100%. Ancora più a rischio sarebbero le piante selvatiche, la cui impollinazione è dovuta in larga misura ai bombi, insetti che appartengono alla stessa famiglia delle api.

Oltre a produrre miele, le api sono le operaie oscure e non retribuite di gran parte del sistema agricolo: negli Stati Uniti creano un valore aggiunto di oltre 15 miliardi di dollari all’anno.

Eppure, nella disattenzione dei più, le popolazioni di api e i bombi stanno sensibilmente diminuendo. I principali responsabili della maggiore mortalità delle api sembrano essere i neonicotinoidi, pesticidi che entrano nel sistema vascolare delle piante, nel nettare e nel polline, una fonte primaria per l’alimentazione delle api. Anche i bombi sono soggetti al medesimo rischio, come è accaduto a giugno del 2013 in Oregon, dove ne sono morti 50.000, quando un’impresa di architettura del paesaggio ha spruzzato dell’insetticida sugli alberi di una foresta.

Non sono solo gli insetticidi a rendere l’ambiente più ostile. Per sopravvivere, le api hanno bisogno di fiori e spazi dove procurarsi il cibo, ma l’industrializzazione del sistema agricolo ha trasformato la campagna in un susseguirsi di monocolture: campi di mais o di soia che, per le api affamate di polline e di nettare, rappresentano l’equivalente di un deserto.

Analogo effetto ha la deforestazione per i bombi. Con una differenza, a loro sfavore. Gli apicoltori cercano di adeguarsi alle nuove criticità, ad esempio sostituendo nell’alimentazione delle api il miele con lo zucchero o lo sciroppo di mais (scelta che può compromettere la capacità delle api di combattere le infezioni). A differenza dell’ape domestica, il bombo non può contare sull’aiuto e sulle cure di una comunità umana tuttora molto in sintonia col proprio lavoro, dove, come descrive con efficacia Barbara Bonomi Romagnoli in Bee Happy (edizione Derive Approdi), con i prodotti dell’alveare si intrecciano i saperi e le conoscenze di una nuova generazione di apicoltori, spesso nata e cresciuta in ambienti urbani, che ha scelto di tornare in campagna, capace di guardare alla tradizione e, contemporaneamente, di tradirla con nuove culture e nuove pratiche.

A togliere di mezzo il problema hanno pensato per primi alcuni ricercatori all’università di Harvard, mettendo a punto minuscole api robotiche, con l’obiettivo di istruirle a impollinare al posto delle api.

Anche la Intellectual Ventures, una start-up guidata da Nathan Myhrvold, ex di Microsoft, ha presentato nel 2015 un brevetto per degli impollinatori volanti, il cui percorso all’interno di una fattoria verrebbe guidato da un itinerario di volo computerizzato. L’anno scorso, un team di scienziati polacchi ha prodotto alcuni video di un drone, in grado di solleticare dei fiori di plastica con una spazzola.

A riprova che la moneta cattiva scaccia la buona, come ci informa la Technology Review del MIT, l’ultimo di questi sforzi è stato sviluppato in Giappone, dove alcuni ricercatori del National Institute of Advanced Industrial Science, a Tsukuba, hanno utilizzato un minuscolo drone radiocomandato, la cui superficie era stata tratta in modo da rilasciare su comando il polline, per colpire le parti maschili e femminili di alcuni gigli bianchi e rosa. È la prima volta che un drone impollina un fiore, ha commentato con orgoglio il capo del progetto, Eijiro Miyako, senza peraltro nascondere le difficoltà incontrate nel tentativo di colpire il bersaglio, malgrado quello del giglio sia il più semplice da centrare in tutto il regno delle piante. Inoltre, malgrado l’ottimismo di Eijiro Miyako – «l’impollinazione di piante in spazi aperti con dei droni “sarà assolutamente fattibile”, con l’aggiunta di videocamere ad alta risoluzione e, probabilmente, di intelligenza artificiale» – secondo gli esperti di apicoltura, si tratta di un esperimento che non potrà sostituire api e bombi.

Per rendersene conto, basta un dato: in California, per l’impollinazione dei tre trilioni di fiori presenti nei 900.000 acri di alberi di mandorle (quanti ne richiede la sola industria di trasformazione del frutto), occorrono circa 1,8 milioni di alveari –cioè grosso modo 35 miliardi di api.

Ciò nonostante, pur di non rimettere in discussione il modello produttivo dominante in agricoltura, si continua a finanziare ricerche che hanno l’unico scopo di creare specchietti per le allodole.

(pubblicato in alfa+più, 10/03/2017)

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