Vent’anni di Ariette di Raffaella Ilari

Il Teatro delle Ariette ha sede al podere Le Ariette (Castello di Serravalle), in provincia di Bologna, dove Paola Berselli e Stefano Pasquini, conducono l’omonima azienda agricola e dove, in mezzo ai campi, hanno costruito il Deposito Attrezzi, edificio rurale per il teatro, che presto diventerà sala teatrale.

Per chi ancora non la conosce, la compagnia bolognese, composta anche da Maurizio Ferraresi, porta avanti una ricerca in cui coincidono e convivono in modo unico teatro e vita, nella profonda condivisione tra attori e spettatori.

Un ‘teatro di terra’ fatto con le mani, un ‘teatro da mangiare’ – per citare il titolo di uno dei lavori storici che da oltre 15 anni ha realizzato 900 repliche in giro per l’Italia e l’Europa – un teatro di mattarelli e farina, di pensieri e sguardi, un affondo nell’umano attraverso un lavoro minuzioso e tenace che conduce gli spettatori nella profondità dei sentimenti. Durante gli spettacoli succede qualcosa che non si è in grado di spiegare. Spesso attorno ad un tavolo, attori e spettatori, condividono nel tempo di un pranzo o di una cena, un rito disarmante e profondamente umano, senza mediazioni, che è quello della verità delle nostre vite alle quali spesso non prestiamo ascolto.

Le loro produzioni, che profumano di vita quotidiana nei suoi aspetti più intimi e più crudeli, sono una sorta di autoritratti, delle confessioni autobiografiche pubbliche. È un teatro umano, quello delle Ariette, che si prende cura delle relazioni, delle persone, della comunità. Che prende per mano il suo pubblico, lo guarda negli occhi, lo nutre nel cuore e nel corpo. E chi li incontra – come capitò a me tanti anni fa, doppiamente fortunata ora nel seguirli anche per lavoro – difficilmente potrà più farne a meno.

Le Ariette hanno da poco compiuto vent’anni che saranno raccolti nel libro “La vita attorno a un tavolo”, a cura di Massimo Marino (ed. Titivillus), di prossima uscita. In questi vent’anni hanno portato il teatro fuori dal teatro, nei luoghi di vita, di lavoro, nelle case, nei forni, nelle piazze, in mezzo alle campagne, hanno organizzato festival (A teatro nelle case), hanno cucito territori attraverso progetti di promozione che mirano proprio a ricreare tessuti sociali là dove si presentano meno occasioni di incontro culturali, sono stati ospitati nei maggiori teatri e festival nazionali ed internazionali.

Il loro ultimo spettacolo, “Tutto quello che so del grano”, ha debuttato proprio a Parma nel mese di novembre al Teatro delle Briciole. E da qui inizia la nostra conversazione con Stefano Pasquini.

Cosa rappresenta “Tutto quello che so del grano”? E cosa sapete voi del grano?

Il lavoro ha rappresentato un momento importante di riflessione sulla nostra vita, sul nostro percorso sia artistico che umano. “Tutto quello che so del grano” è in fondo un modo per domandarci tutto quello che sappiamo della nostra vita. Dopo 20 anni l’impressione è che sappiamo sempre poco. Più ci sembra di sapere e più siamo ignoranti ma ci sono alcuni punti fermi che abbiamo scoperto e che sono diventati la nostra anima: l’importanza della relazione con l’altro, dell’amore, del rispetto, ecco, queste sono le piccole cose che abbiamo scoperto.

 

Il vostro teatro sembra tendere sempre di più all’umano: è una scelta o risponde ad una richiesta, ad un bisogno sociale che nasce all’esterno?

Pensiamo al teatro come espressione dell’umano, un’espressione non fine a se stessa ma volta al miglioramento della condizione esistenziale. Attraverso il teatro riflettiamo su noi stessi per vivere meglio, per vivere appieno, per vivere più coscientemente. Ed è per questo che se il teatro, almeno per noi, non parla dell’umano, diventa semplicemente un esercizio di stile. Affrontiamo l’umano perché l’umano per noi è l’essenza del teatro, quello di cui il teatro si occupa.

 

Recentemente, i primi giorni dell’anno, siete stati ospitati con “Teatro Naturale? Io, il couscous e Albert Camus” al Centro Islamico di Parigi. Che esperienza è stata?

L’esperienza è stata bellissima anche perché ci ha fatto molto piacere poter portare il nostro contributo alla riflessione su un mondo immaginato senza frontiere, un mondo dove gli esseri umani possano incontrarsi, scambiarsi le culture, confrontarsi. E’ in fondo la storia che raccontiamo. L’incontro con la comunità islamica è stato molto parziale perché, purtroppo, il teatro, è la sua natura, coinvolge soltanto una porzione di gente. E poi i nostri spettacoli hanno una piccola capienza. Ma le persone che abbiamo incontrato sono state molto belle, molto aperte e ricettive a questo dialogo. Speriamo che il dialogo corrisponda a tutta la comunità.

 

Può essere definito teatro politico il vostro teatro, nel prendersi cura dell’altro, della comunità, della relazione?

Credo che tutto il teatro sia inevitabilmente politico perché si occupa della polis, del vivere comune, del vivere della società o perlomeno dell’individuo dentro la società. Non politico nel senso che, purtroppo, spesso si attribuisce a questo termine. Come se il teatro politico fosse il teatro militante che prende una posizione rispetto agli accadimenti politici, questo per me è quello più lontano da un’idea di teatro vero e quindi politico, che io riconosco invece in tutto il buon teatro. Tutto il buon teatro è fortemente politico perché la politica è la condizione sociale dell’umano.

 

Nei vostri spettacoli è sempre presente la memoria, quella personale e quella collettiva. Che valore ha per voi anche in rapporto alle nuove generazioni?

Quando si pensa alla memoria si pensa sempre al passato. Io non credo assolutamente che la memoria riguardi il passato, la memoria è il presente, è qualcosa che vive nel presente. La memoria è un elemento costitutivo della nostra identità contemporanea. Tutto ciò che dimentichiamo, nel bene e nel male, si perde, si cancella. Non siamo un computer, non conserviamo tutte le informazioni che riceviamo. Quindi la memoria è importante per capire noi stessi e per capire il nostro presente.

Il teatro è lo spazio della memoria perché è il dialogo tra il nostro presente e la storia che ci ha preceduto e che ci costituisce.

 

Nei prossimi mesi il Deposito Attrezzi sarà riconosciuto con un’inaugurazione come sala teatrale. Cosa significa fare teatro in campagna?

Fare teatro in campagna – dove noi viviamo da 30 anni – significa fare il teatro sotto casa propria, dove si vive, nel luogo della propria quotidianità. Se sei su un monte lo fai su un monte, se sei in città lo fai in città. Nel nostro caso siamo alle Ariette e tra le altre cose importanti della nostra vita c’è il teatro. E forse, un po’ coraggiosamente, abbiamo pensato tanti anni fa che fosse bello che il teatro fosse un pezzo della nostra vita quotidiana e che quindi fosse là dove viviamo.

Il teatro è il luogo dell’incontro, tra il pensiero e le azioni degli attori, il pensiero degli autori e degli spettatori e questo incontro può avvenire ovunque ma non in tutti i luoghi. Avviene dove c’è vita e qui c’è vita. C’è la nostra vita.

 

Per saperne di più:   www.teatrodelleariette.it

 

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