“DUE GIOVANI NELLA TRAGEDIA DELLA GUERRA CIVILE”. Quella rossa primavera del 1945. di Augusto Gughi Vegezzi

 

UN CAPITOLO DEL ROMANZO: “DUE GIOVANI NELLA TRAGEDIA DELLA GUERRA CIVILE”

Dare un senso all’assurdo
Un canto che s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco già similmente mi stringeva il core.” Giacomo Leopardi

Mi dissero che un signore alla porta chiedeva di parlarmi. Incuriosito e perplesso, lo raggiunsi. Era il padre di Umberto, il mio più caro amico prima di Orlando, sparito da anni. Un attimo di esultanza, che subito si dissolse quando notai l’espressione devastata dell’uomo. Umberto stava male. Era all’ospedale e voleva vedermi. Quando? Meglio presto, meglio subito. Un’ora dopo entrai nella stanza dell’ammalato, smunto e pallido, irriconoscibile. Un‘ombra dell’atletico centravanti di un tempo. Respirava a fatica. Il viso divorato da occhi grandissimi, smarriti nel vuoto.
Fuori uno splendido sole infiammava il crepuscolo. Il gelo di gennaio mordeva nel profondo il respiro. Un sudore freddo imperlava la fronte di Umberto; lacrime gli velavano le gote. Chissà perché mi ricordai: Stiff the upper lip, l’esorcismo inglese della paura, che non funzionò.
Sul letto l’amico perduto o disperazione. Stringi i denti. Ma e ora ritrovato ansimava, gemeva, rantolava. Emaciato, evanescente, con una rada peluria sul cranio, le labbra secche, gli occhi nel vuoto, gemeva flebile, come un cucciolo inerme. Un devastante tumore aveva invaso la sua bocca: gonfiori, pustole, piaghe, emorragie. Non riusciva più a mangiare, nemmeno a bere. Anche la saliva si trasformava in dolore. Da settimane giaceva nel grande letto. Un magro fuocherello attenuava il freddo della stanza. Ma il gelo nell’animo non aveva rimedio.
Non mi davo pace. Ero arrivato tardi. Tornai ogni giorno. Niente. Solo dolore e ancora dolore. Seduto al capezzale, mi sentivo ogni volta più amico e più disperato. Più inutile. Che fare? Mi dicevo ogni volta: “Oggi mi riconoscerà”. Dal poveretto provenivano gemiti, singhiozzi, suoni inarticolati. In poche settimane aveva perso un terzo del suo peso. Non c’erano cure, soccorsi, interventi, sollievi, evasioni. Uno strazio insensato. Non c’era nulla da fare. Il medico, lo specialista, il professore, il primario, tutti avevano allargato le braccia, con diverse inflessioni e sensibilità, tutti si erano arresi. Questione di settimane. Forse di mesi.
Ogni giorno la stessa scena, la stessa tragedia: i singhiozzi, i gemiti e quello sguardo sbarrato nel vuoto. Nel vuoto, ma non vuoto. Uno sguardo che non vedeva, ma parlava, urlava. Nel fondo dell’animo sentivo il messaggio e l’urlo forti come il tuono. Nessuno rispondeva. Nessuno se ne faceva carico. Nessuno. Niente. Piangevo senza lacrime, volevo essere lontano, assumermi quello strazio, farmi del male, morire. Non era giusto. Non aveva senso.
Passarono settimane. Umberto soffriva e gemeva. Respirava e rantolava, rantolava e respirava. Un disco ossessivo, scandaloso. Finché un giorno in cui ero di nuovo là, seduto in un angolo, mi sentii guardato. Quei bellissimi occhi chiari mi fissavano, uno sguardo che mi feriva come una condanna. Il povero Umberto mi guardava e rantolava. Mi guardava… e guardava la finestra. Avrei voluto fuggire. Mi guardava e guardava la finestra. Avrei voluto non essere nato, essere incosciente, sparire. La finestra… Forse Umberto lanciava un messaggio? Cosa voleva comunicare? “Non mi vede”, mi dicevo. “E’ incosciente. Non percepisce, non guarda, non vede. Una pagina bianca.”
Eppure mi sentivo guardato. Ascoltavo il lamento sempre più fioco, che ora si alzava, ora si perdeva, ora riprendeva. Certo che mi vedeva., che mi riconosceva, che mi chiedeva qualcosa: “Fa qualcosa, René”. No, non aveva detto niente, non avevo udito niente. Avevo solo immaginato.
Gli occhi chiari sbarrati nei miei, una serie di gemiti, di rantoli. Di nuovo la finestra: “Fa qualcosa. Fallo!”
Allora mi alzai, aprii la finestra e inspirai a pieni polmoni. Provai un piacere intenso. Poi il gelo quasi mi bloccò il respiro. Chiusi la finestra. Chissà perché mormorai: «Non resta che la finestra».
Questa idea esplose dalla mia mente, lasciandomi sconcertato.
Quando, dove avevo sentito queste parole? Mi ricordai. Eravamo andati da lontani parenti, una famiglia di agricoltori. Il patriarca era in coma da mesi. Senza speranze. La cugina Ersilia aveva sussurrato: «Non resta che la finestra».
La prozia l’aveva redarguita «Sta zitta. E’ fuori questione». Ersilia non sembrava convinta. Appena usciti, avevo interrogato Lea: «Non ho capito l’accenno alla finestra».
Lei, con l’espressione candida e affettata che assumeva quando mentiva: «Finestra? Non so di che parli».
Un episodio analogo era accaduto prima che il vecchio fattore morisse. Qualcuno disse: «Aspatùm ch’al dutùr al vèra la finéstra». Aspettiamo che il dottore apra la finestra.
Quante volte l’avevo sentita, questa frase enigmatica, che ora capivo come unica rassegnata, inevitabile via d’uscita.
Decisi di fare quello che dovevo. Aprii la finestra. La radio aveva parlato di venti gradi sotto zero. Gli occhi persi nel nulla, il cuore spezzato, guardavo nel vuoto, non vedevo niente, non pensavo niente. Senza volerlo, automaticamente accostai le ante e girai la maniglia per chiudere. Questa volta non udii nessun clic. L’ingranaggio, difettoso, non aveva fatto presa. Nonostante la mia distrazione, la finestra restava aperta. Sconcertato, riflettevo: “Il caso prevale! Se tutto è caso e decide il caso oppure se tutto è provvidenza e decide la provvidenza.
Chi sono io per interpormi, correggere o alterare il corso delle cose?” Un turbine di pensieri inquietanti e di emozioni esasperate si cristallizzò nella scelta di non interferire negli eventi: What is done, is done.
«Tutto normale, René?». Dalla soglia il dottor Angelo M. mi scrutava con occhi interrogativi.
«Tutto orribile, dottore».
«Appunto. Esattamente questo volevo dire».
«Dottore, non ce la faccio più. Il mio amico soffre in modo orribile senza colpa, consapevolezza, scopo. Per niente! E tutti restiamo a guardare. Uno spettacolo atroce. Nessuno se ne prende carico. Nessun medico, nessun uomo, nessuna donna, nessun dio. Lo abbandoniamo al caso. Dov’è finito il senso di responsabilità?»
«Cominciamo col cambiare quest’aria viziata». Il dottore aprì la finestra e, respirando con forza, riprese a parlare: «Che meraviglia questo cielo, che pace in queste stelle pulsanti. Caro giovane filosofo, la morte è la nostra unica certezza. E la vita è continua lotta per ostacolarla, ritardarla, rimandarla. Una lotta sempre persa. Tutto ciò che nasce, subito comincia a morire. Così la Storia è un tragico tritacarne che ingoia tutti. Una generazione dopo l’altra. Quante dall’Homo sapiens a noi? Panta rei. Tutto scorre. Questa è l’assurda e spietata nostra realtà, forse da oltre due-trecentomila anni.
Chi ha costruito questa trappola? Questa mostruosità? Il caso, la natura, l’evoluzione, la creazione intelligente, gli dei, un dio? Chissà. Il responsabile non dovrebbe esserne orgoglioso. Vivere, se ha un senso, è quello di non arrendersi alla fatalità della morte ma cercare sempre felicità, bellezza e amore contro la distruzione, il caos, il caso. Ricorda: abbiamo solo quest’unica vita. Null’altro».
Il dottore chiuse la finestra, poi continuò: «Noi medici siamo impegnati a favore degli uomini, a guarire malattie e lenire sofferenze. Con il nostro povero sapere, come meglio riusciamo. C’è una staffetta tra generazioni, una corsa a turni verso l’abisso. Il testimone è nelle nostre mani. Passerà nelle vostre, poi lo lascerete ad altri. Un’inesplicabile staffetta di disgraziati. Notte, caro».
«Buona notte».
Sotto un cielo terso dove milioni di stelle pulsavano stupende, camminavo furibondo e frustrato. Mi agitavo, pensavo, prendevo a calci un muro. Stavo per arrendermi alla trappola soffocante del labirinto. Resistetti. Ripercorsi mentalmente il monologo del dottore, rigoroso, sconcertante e sibillino. Quante cose importanti e sconvolgenti sulla vita. Chissà se lui aveva capito la mia decisione di farla finita?Il tempo scorreva inflessibile. Quanti minuti erano passati? Un’ora? Due ore? Chissà. All’improvviso, una ventata possente piegò fin quasi a spezzarle le cime dei larici e subito uno spaventoso fragore di vicine esplosioni ruppe il silenzio. Vetri infranti tintinnarono, frantumandosi sul suolo. Come speravo, i ribelli delle SAP avevano colpito anche quella notte. “Occasione sprecata.” pensai. “Comunque non mi arrendo.”
Quasi congelato, ricapitolavo: “Se un ragazzo è condannato innocente a uno strazio senza fine né senso e nessuno fa nulla, nessun uomo o nessun dio fa quel che può e deve fare, allora non c’è ordine, civiltà, giustizia. Né umanità né divinità. Il cosmo s’infrange in mille frammenti in conflitto, si rivela assurdo, caos o casuale, caso. Quanto tremenda e icastica la filosofia della storia del dottore. Quella concertante metafora del tritacarne! Nulla è dato, garantito, sicuro. Ma è la responsabilità di noi uomini contenere e ridurre il caos, il caso, la morte; costruire l’ordine, la giustizia, la bellezza, la felicità. Homo faber fortunae suae …et mundi sui.”
Così riflettendo con l’animo straziato, decisi che sarei tornato all’ospedale e avrei finalmente fatto quel che dovevo. Dieci minuti dopo, risoluto, rientrai nella camera. Umberto non rantolava e non respirava. Era livido, rigido, immoto. “Ha cessato di soffrire.” In lacrime ripetei più volte, senza alcun conforto. Mi sentii pervadere da un’atroce sensazione di gelo. Con sconcerto scoprii che la finestra era spalancata e il fuocherello spento. Baciai Umberto sulla fronte ghiacciata, chiusi la finestra, assicurandomi che fosse ben agganciata, e uscii nella notte. La tragedia si era conclusa. Forse la ragione aveva vinto. Eppure per me non c’era nessuna consolazione. Nessuna catarsi. Le stelle nel cielo limpido non pulsavano più, quasi anch’esse fossero ghiacciate. Mi sentii naufragare nelle tenebre. Mi feci coraggio. In fondo l’umanità e la ragione,avevano prevalso. Missione compiuta.

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