Francia e Unione Europea al tempo di Macron di Antonio Lettieri*

 

  1. Questa volta non si sono verificati imprevisti, com’era accaduto con Trump e con la Brexit. Nel primo turno delle elezioni in Francia le previsioni sono state rispettate con una precisione quasi millimetrica. Macron è arrivato primo con quasi due giunti di distacco da Marine Le Pen che oggi gli contenderà (senza speranza, secondo i sondaggi, la presidenza della Repubblica. Il giovane Emmanuel Macron, mai eletto ad alcuna carica pubblica, neppure di una circoscrizione rionale, sarà l’ottavo presidente della Quinta repubblica, successore, tra gli altri di Charles de Gaulle e François Mitterrand, per citare un conservatore e un socialista, sicuri protagonisti della storia europea (e non solo) della seconda metà del XX secolo.

Dunque, nel rispetto delle previsioni, nulla di nuovo sotto il cielo primaverile di Parigi? No, questo non si può dire. E’ vero il contrario. Una potente scossa sismica ha dissestato le fondamenta della V Repubblica. I due partiti che ne hanno segnato la storia escono entrambi pesantemente sconfitti. La destra di Fillon con meno di un quinto dei voti è stata scavalcata dalla destra radicale di Marine Le Pen. Il Partito socialista, che fu di Mitterrand, Delors e Jospin esce praticamente dalla scena col suo umiliante 6 per cento. La maggioranza dei vecchi socialisti ha votato Macron che si è orgogliosamente proclamato “né di destra, né di sinistra”, e un’altra parte ha votato la sinistra radicale di Mélenchon, che col 18 per cento guadagna il triplo dei voti di Benoît Hamon, vincitore del congresso socialista.

  1. Ciò che è certo è che la Francia che ci ha consegnato il primo turno delle elezioni francesi non è quella che a metà del secolo scorso gettò le basi dell’unificazione europea. Quando la nuova storia europea iniziò all’insegna di Maurice e Jean Monnet che “inventarono” la CECA, la comunità del carbone e dell’acciaio, progenitrice della comunità economica europea. L’iniziativa francese sembrò allora dettata da puri interessi economici, avendo la Francia bisogno del carbone della Ruhr per riprendere la via dello sviluppo. Mentre pochi anni dopo,nel 1957 la Ceca era seguita dal mercato comune europeo che per gli stessi sei paesi fondatori doveva essere il moltiplicatore della crescita economica nell’Europa devastata del secondo dopo guerra. Un’interpretazione puramente economica di quegli eventi sarebbe, tuttavia, fuorviante.
    La dimensione politica dell’iniziativa francese divenne evidente con Charles de Gaulle, padre della V Repubblica. La Francia era uno dei cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU insieme con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Russia e la Cina, ed era diventata la quarta potenza nucleare del pianeta. Ma questo non bastava a de Gaulle. Nel suo disegno, la grandeur della Francia passava attraverso un ambizioso progetto politico continentale. Immaginava un’Europa pienamente affrancata dall’egemonia americana (non caso il progetto comunitario escludeva la Gran Bretagna, considerata un’appendice della politica di potenza americana). La comunità europea avrebbe inoltre dovuto gestire in piena autonomia i rapporti con l’URSS, intrecciando, secondo le circostanze, un’attitudine conflittuale con una collaborativa. Non a caso, nel disegno coltivato dal generale, un giorno, la comunità europea si sarebbe estesa dall’Atlantico agli Urali. Un disegno a suo modo utopico. Eppure centrato su una visione storicamente concreta: la nuova Europa doveva passare attraverso un rapporto speciale tra la Francia e la Germania. La coppia franco-tedesca doveva essere il motore che avrebbe guidato oil progetto europeo.

Fu in questo quadro che il rapporto speciale con la Germana assunse i colori di un rapporto personale fra i capi di stato dei due paesi. Non era un caso che l’austero de Gaulle invitasse, come ospite, il vecchio cancelliere tedesco Konrad Adenauer, come ospite quasi familiare nella sua casa privata di Colombey-les-Deux-Églises, lontano dalle luci e dai riti diplomatici dell’Eliseo. Si apriva un nuovo capitolo della storia europea dopo le due guerre mondiali che avevano sconvolto il mondo con la Francia e la Germania stabilmente su fronti opposti. La nuova Europa aveva alla sua guida la Francia, e questa sceglieva come co-pilota la Germania.

Non si sarebbe trattato di un modello di rapporti occasionale, frutto dell’immaginazione storica di de Gaulle. Recensente Giscard d’Estaing ha ricordato (L’Espresso), come fosse diventata consuetudine incontrarsi sistematicamente con Helmut Schmidt, successore di Willy Brandt alla cancelleria tedesca, prima delle riunioni del Consiglio europeo dei capi di stato e di governo, per discuterne l’odg e tracciarne le conclusioni. La politica francese, al pari dei quella tedesca, fu segnata nel corso dei decenni dall’alternanza fra i due maggiori partiti. Ma l’alternanza non interferì mai con la specialità dei rapporti che legava i due paesi. Quando, negli anni Ottanta lo scettro passò in Francia al socialista François Mitterrand, l’iniziativa francese tornò audacemente in campo. Spettò al socialista Jacques Delors, il più prestigioso tra tutti i presidenti della Commissione europea, non solo ridefinire le strutture portanti della comunità, ma promuoverne il grande balzo in aventi della moneta unica.

  1. L’iniziativa appartenne ancora una volta alla Francia. Ma questa volta il mondo era cambiato col collasso dell’Unione sovietica. L’unificazione tedesca prese tutti di sorpresa compresi gli Stati Uniti. Ma soprattutto era destinata a cambiare i rapporti all’interno della coppia franco-tedesca. La Germania unificata non era più una contea di confine dell’Europa occidentale, ma improvvisamente il ribaltamento della storia europea la collocava al centro del continente.

La nascita dell’euro con la conferenza di Maastricht nel 1992 fu il prezzo che la Francia impose alla Germania in cambio dell’unificazione della Germania – unificazione che Kohl volle accelerare, al di là di ogni previsione, creando inizialmente sconcerto all’Eliseo, oltre che in molte capitali europee, e perfino a Washington. Il passaggio alla moneta unica, sotto la guida di Mitterrand e Delors. sancirà ancora una volta un successo francese. Ma era destinato a rivelarsi un successo fatale. Una parte dell’élite economica e politica tedesca, con alla testa la Bundesbank, era contraria all’abbandono del marco. Dopo la catastrofe monetaria del 1922-23 quando la moneta tedesca era stata polverizzata dall’iperinflazione, il DM era diventato la seconda bandiera della Germania.

La moneta unica appariva a una parte della classe dirigente tedesca una forzatura politica. E, in effetti, era un espediente che mascherava una profonda asimmetria economica tra la Germania e la maggioranza degli Stati membri dell’UE. La Germania era diventata la seconda potenza economica occidentale e la quarta a livello planetario dopo il gli stati Uniti, il Giappone e la Cina. Al contrario, la Francia non riusciva a tener il passo nemmeno del cambio semifisso,che governava lo Sme, il sistema monetario europeo.

Nel 1992 tutto il sistema era andato in crisi: dalla sterlina inglese alla lira italiana alla peseta spagnola. La Francia aveva salvato a stento il franco solo in virtù del sostegno tedesco. La moneta unica, imposta dalla Francia, nasceva da una coppia unita ormai più dall’etichetta europea che non dalla sostanza dei rapporti economici e politici.

L’egemonia francese era finita. Con l’euro, in effetti, un travestimento del marco, il motore europeo era definitivamente passato nelle mani della Germania. La finzione della coppia franco-tedesca alla guida dell’Unione europea durò ancora nei primi anni del nuovo secolo. Ma con la crisi del 2008 in America che aveva contagiato rapidamente l’Unione europea, il re fu definitivamente nudo. Berlino decideva le sorti dell’euro col suo doppio bastone dell’austerità e delle riforme strutturali, sotto l’opaca copertura di Bruxelles.

Ma la coppia franco-tedesca ricompariva puntualmente quando bisognava assumere decisioni cruciali. La Francia era indebolita dalla crisi, ma Nicolas Sarkozy amava presentarsi come un severo controllore dei comportamenti degli stati membri. Gli incontri separati della coppia franco–tedesca erano sempre continuati nonostante, proprio per essere così scoperti, irritassero i partner europei, come nel caso del summit bilaterale Merkel-Sarkozy a Deauville nell’autunno del 2010, alla vigilia di un importante Consiglio europeo.

Il punto di svolta, nel mezzo della crisi greca fu costituito dall’incontro a Cannes di Sarkozy con Angela Merkel e con la partecipazione di Barroso, presidente della Commissione europea. Papandreou, alla testa del governo greco, aveva indetto un referendum popolare con il quesito se accettare o no le condizioni poste dalle autorità europee per un nuovo bailout. La decisione era stata assunta anche per temperare l’ondata di proteste popolari che agitava la Grecia e per provare a ottenere un mandato per trattare con le autorità dell’eurozona le condizioni del prestito.

Nella riunione di Cannes Sarkozy e Merkel imbastirono una sorta di processo a carico di Papandreou. Gli chiesero di ritirare il referendum, o trasformarlo in qualcosa di diverso. In termini che non ammettevano titubanze dissero a Papandreou che o accettava le condizioni poste dalle autorità europee o sarebbe dovuto uscire dall’eurozona.

Papandreou fu messo con le spalle al muro, incalzato contemporaneamente dal Partito popolare di Samaras all’interno e dal ricatto franco-tedesco. Una settimana dopo si dimise. Francia e Germania avevano già individuato il nuovo capo del governo in Lucas Papademos, ex vice presidente della BCE. Come sappiamo, la crisi greca non solo non fu risolta, ma le condizone strangolatorie imposte aggravarono la crisi che continua a imperversare sei anni dopo Cannes.

In effetti, la Grecia ebbe una doppia sfortuna. Per un verso, era troppo debole per opporre resistenza. Per l’altro, era stata assunta come una cavia che doveva servire da esempio ad altri paesi: in primo luogo, l’Italia e poi la Spagna. José Luis Zapatero non poté portare a termine il terzo mandato come capo del governo spagnolo e, sotto la pressione delle autorità europee, si dimise un mese dopo Papandreou per lasciare campo aperto a Mariano Rajoy del Partito popolare, che vinse facilmente le elezioni, assistito dal consenso che gli proveniva da Berlino, Parigi e Bruxelles.

Il caso italiano era scoppiato in anticipo con la famosa lettera inviata (segretamente, ma fu diffusa su tutta la stampa italiana) firmata da Jean-Claude Trichet, il presidente francese in uscita della BCE, e Mario Draghi, designato alla successione. La lettera, com’è noto, indicava un dettagliato programma di governo di stampo ultraconservatore che nessun normale governo, democraticamente responsabile di fronte al Parlamento e al paese, avrebbe potuto realizzare. I mercati finanziari non avevano tardato a capirlo, e avevano fatto esplodere lo spread (la differenza del tasso d’interesse pagato sulle emissioni di bond a dieci anni). Il governo Berlusconi fu costretto a gettare la spugna. A governare la provincia italiana fu designato Mario Monti, che godendo della fiducia di Berlino e del sostegno di Giorgio Napolitano: formò un governo di tecnici sostenuto da tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale.

Nel giro di due mesi, Germania e Francia, con la complicità della Commissione europea e della BCE, non solo avevano deciso la politica economica e sociale dei due maggiori paesi dell’eurozona, dopo la Germania e la Francia, ma ne avevano anche deciso i governi.

  1. La maschera è definitivamente caduta insieme con la disfatta di François Hollande, l’unico presidente della storia della Quinta Repubblica costretto a non potersi candidare per un secondo mandato per eccesso di impopolarità. La svolta storica non poteva essere più clamorosa. Abbiamo visto De Gaulle incontrare Adenauer e Giscard d’Estaing Helmut Schmidt. E poi lo stretto rapporto fra Mitterrand e Kohl, personaggi che hanno segnato la storia europea del XX secolo. Dopo il secondo turno elettorale di oggi, come le previsioni (rivelatesi finora rigorosamente precise) lasciano ritenere, Emmanuel Macron s’insedierà all’Eliseo.

Il giovane Macron è indubbiamente dotato di un brillante talento di scalatore. In un breve giro di anni è passato da funzionario della banca d’affari Rothschild prima a consigliere economico e poi a ministro per l’economia di Holland. Un incarico prontamente abbandonato, quando la barca andava alla deriva per fondare En Marche!, il proprio movimento personale “né di destra, né di sinistra”.

Per salire all’Eliseo Macron  avrà bisogno al secondo turno di ciò che resta del Partito socialista che, secondo i sondaggisti gli darà i due terzi dei suoi voti, vale a dire un misero 4 per cento del voto complessivamente espresso. Otterrà, secondo le previsioni, circa la metà dei voti della sinistra radicale di Mélenchon. Ma nemmeno questo potrebbe bastare, senza un sostanziale sostegno della destra ultraconservatrice di Fillon. Considerato che almeno il 15 per cento degli elettori si asterrà, potrà alla fine scavalcare Marine Le Pen. Così dice l’oracolo. E tutto lascia ritenere che si avvererà.

Una volta all’Eliseo, diventerà interlocutore di Angela Merkel. La cancelliera che non ha fondato un partito personale ma che, con i suoi tre mandati, ha già eguagliato la durata della cancelleria di Adenauer e Kohl. E che, secondo i più recenti sondaggi d’opinione, si candida con grandi probabilità di successo a ricevere il quarto mandato, raggiungendo un primato che non ha precedenti se non Bismarck nella seconda metà dell’Ottocento.

  1. Dei partiti che hanno tessuto la storia della V repubblica (e dell’’Unione europea) non rimane nulla se non per default, una disperata mancanza di alternative alla vittoria di Marine Le Pen, con l’unione sacra di frammenti politici di destra e di sinistra con ascendenze e programmi contrastanti. A Berlino e a Bruxelles sembrano tutti fiduciosamente rasserenati. Ma della vecchia coppia franco-tedesca non rimane che la finzione sbiadita che ha accompagnato alla deriva la presidenza socialista di Hollande.

In ogni caso, l’eurozona è salva, e il dominio della Germania non ha più la maschera consunta della vecchia coppia franco-tedesca. Un’eurozona che, quasi dieci anni dopo il suo inizio, non è ancora uscita dalla crisi. Un’eurozona che continua grottescamente a battere il ritmo della crescita in termini di decimali, con una disoccupazione media del 10 per cento, che è la più alta della storia comunitaria e che oscilla intorno al doppio in Grecia, Spagna e … nel Mezzogiorno.

La domanda che meriterebbe di essere posta è: per quanto tempo ancora? Ma l’etichetta europea vuole che la domanda non sia nemmeno adombrata. Chi osa alzare la voce è un populista, non importa se di destra o di sinistra: Le Pen, Pablo Iglesias, Grillo o Salvini.

La clessidra della storia deve fermarsi perché l’establishment possa continuare a governare il declino del pianeta Europa. Con la notevole eccezione della Germania che rimane la quarta potenza economica del pianeta, alla testa di una Europa lacerata, senza bussola. E senza meta. La domanda torna con impertinenza: per quanto ancora.

  • Presidente del CISS – Center for International Social Studies (Roma)

 

  • Pubblicato il 28 aprile 2017 · nel sito di Egualianza & Libertà, rivista di critica sociale

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