Il declino di una sinistra che chiude gli occhi di Antonio Lettieri

 

I fallimenti dell’euro hanno imposto un duro prezzo alla maggior parte dei paesi dell’eurozona in termini di crescita, di disoccupazione, di esplosione delle diseguaglianze. E hanno, al tempo stesso, messo in crisi, quando non eliminato dalla scena, la vecchia sinistra di governo. Su questo dovrebbe concentrarsi il dibattito, ma la sinistra italiana non lo fa.

1 – A metà  del secolo scorso, la Francia, che sedeva tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, decise di promuovere un accordo con la Germania che avrebbe cambiato il senso tragico della storia dei conflitti franco – tedeschi che avevano dominato la prima parte del secolo. Il protagonista politico della svolta fu Robert Schuman. L’occasione fu data dall’accordo sull’uso congiunto del carbone della Ruhr di cui la Francia, impegnata nella pianificazione economica diretta da Jean Monnet, aveva assoluto bisogno.

Nacque così, per iniziativa francese, la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo accordo transnazionale nell’Europa contemporanea. La seconda tappa fu qualche anno dopo, nel 1957, l’istituzione del Mercato comune che, al pari della CECA, come prendeva, oltre a Francia e Germania, l’Italia e i paesi del Benelux. Gli effetti furono pari alle aspettative. Il miracolo economico tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta si estese dalla Germania all’Italia. L’Europa dei sei paesi fondatori della CEE, la Comunità economica europea, cresceva a vista d’occhio in un clima di tendenziale piena occupazione.

Con l’avvento di Charles de Gaulle, la Francia, dopo oltre un decennio, uscì finalmente dal vicolo cieco dei conflitti coloniali in Vietnam e in Algeria, e poté rilanciare l’impegno per la costruzione europea, ribadendo e rafforzando la partnership franco-tedesca. Per de Gaulle, la Comunità doveva consolidarsi ed estendersi fino a coprire, un giorno, l’intero continente dall’Atlantico agli Urali. Un’ambizione certamente audace, riflesso dell’idea di grandeur, tipica della sua visione della storia. Ma, in effetti, de Gaulle aveva avuto vista lunga, se consideriamo che, nel giro di una ventina d’anni, l’Unione sovietica giungeva alla sua crisi finale, e la CEE avrebbe acquisito un’effettiva dimensione continentale.

De Gaulle era, a sua volta, convinto dell’importanza fondamentale dell’asse franco-tedesco, alla guida della Comunità  europea, come base dello sviluppo economico necessario per liberare l’Europa occidentale dall’egemonia Americana. Animato da questo disegno, de Gaulle si oppose senza esitazioni all’ingresso nella Comunità della Gran Bretagna che considerava un’appendice del dominio americano. La Germania aveva colto con entusiasmo la straordinaria occasione della partnership speciale che vincolava i due paesi.

Tuttavia, la dimensione economica e i vantaggi che derivavano dal Mercato comune erano per Adenauer importanti, ma molto di più importante era la dimensione politica dell’alleanza storica con la Francia che, d’altra parte, non nascondeva il suo ambizioso disegno egemonico nella realizzazione della Comunità  europea, ambizione sostenuta dal suo ruolo internazionale, dall’ingresso nell’allora ristretto club delle potenze nucleari e dall’appartenenza al gruppo dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU a fianco di Stati Uniti, Gran Bretagna, URRS e Cina.

2 – Nei decenni successivi, la partnership franco-tedesca rimase la leva del consolidamento e dello sviluppo della costruzione europea, passando attraverso le cancellerie di Willy Brandt e Helmut Schmidt in Germania e le presidenze di Giscard d’Estaing e Fransois Mitterrand in Francia. Ma la partnership, per quanto formalmente stabile, veniva cambiando al suo interno i pesi ed la rilevanza dei due paesi. Nel corso di 40 anni, dal tempo della CECA, il peso economico della Germania era enormemente cresciuto, come lo era il ruolo del marco nei rapporti monetari europei e a livello globale.

Il mondo capitalistico aveva sofferto la crisi monetaria seguita al collasso degli accodi di Bretton Woods e allo sganciamento del dollaro dall’oro da parte di Nixon. La Francia aveva subito, con ripetute svalutazioni del franco, le conseguenze della turbolenza dei mercati finanziari degli anni settanta, che si erano sommati alla doppia crisi petrolifera. Le difficoltà erano emerse con particolare intensità nei primi anni della presidenza Mitterrand col fallimento della politica d’impronta socialista, il rallentamento della crescita e ancora la svalutazione del franco.

Per la Francia di Mitterrand e per Jacques Delors, ministro delle Finanze, non a caso destinato alla presidenza della Commissione europea, bisognava non solo far compiere passi avanti alla CEE obiettivo realizzato con l’Atto Unico a metà  degli anni ’80 – ma individuare una terapia radicale: abbattere le frontiere monetarie, dotare la Comunità  di una moneta unificata. In definitiva, fare del marco tedesco la moneta di tutti i paesi comunitari propensi alla realizzazione di una zona monetaria unica.

L’idea sembra geniale. Tutti i paesi della comunità  avrebbero avuto lo stesso abito, riconosciuto e rispettato nel resto del mondo. Ma era come vestire con lo stesso abito persone con un fisico profondamente diseguale. La stessa valuta, in effetti, una trasfigurazione del marco, espressione dell’economia della Germania, seconda potenza economica occidentale dopo gli Usa assegnata alla Grecia e al Portogallo, per fare due esempi di paesi minori, senza dimenticare che la Francia e l’Italia avevano una storia monetaria connotata da una costante fluttuazione dei cambi, accompagnata da una altrettanto significativa tendenza inflazionistica. Ora la Francia proponeva di rendere definitivamente fisso il cambio. Come dire, di far proprio il marco, senza avere alle spalle la potenza economica ed esportatrice della Germania.

3 – Conosciamo il seguito. La decisione di predisporre il passaggio alla moneta unica del 1989. Lo stesso anno che, negli ultimi giorni, segna l’improvvisa svolta della storia europea con l’abbattimento del Muro di Berlino e l’avvio dell’unificazione tedesca. La Germania non aveva alcuna ragione per coniugare il passaggio all’unificazione con la rimozione del marco, divenuto dopo la crisi catastrofica degli anni Venti che ne aveva polverizzato il valore, un punto fermo dell’identità politica tedesca. Ma la Francia si era convinta che la stabilità e lo sviluppo della sua economia aveva bisogno della saldatura col marco tedesco, risolvendo una volta per tutte il problema del cambio e delle ricorrenti svalutazioni nei confronti della valuta tedesca. Era, mutatis mutandis, la questione che si era posta con il carbone della Ruhr quarant’anni prima.

Helmut Kohl era destinato a passare alla storia come il cancelliere dell’unificazione tedesca, e questa valeva bene l’abbandono del marco, un segno sostituibile con un altro, assecondando la Francia, e ottenendone l’appoggio per l’unificazione della Germania. La Bundesbank, ma non solo, ne fu il principale oppositore. Per la Germania la liquidazione del marco era una sconfitta in tempo di pace. Dieci anni dopo, Kohl, non più cancelliere, ammise che la sua scelta contrastava con l’opinione della grande maggioranza dei suoi concittadini (vedi E.L. Macron-Merkel. Ascesa e declino) dell’Eurozona).

L’Unione europea, erede del Mercato comune e della Comunità  economica, fu consacrata dall’unificazione monetaria alla fine del decennio. Nel 1999, superati tutti i dubbi sui paesi che vi avrebbero partecipato, dubbi di parte europea che coinvolgevano principalmente l’Italia, fu deciso il passaggio all’euro, entrato definitivamente in vigore nel 2002. La Francia aveva vinto la sua battaglia per dotarsi di una moneta forte, stabile, rispettata nel mondo. L’Italia, che era stata sull’orlo dell’esclusione fino alla decisione finale, ne fu particolarmente soddisfatta. Ma la fede nelle virtù salvifiche della moneta unica comincia rapidamente a vacillare. La moneta unica, secondo gli auspici, avrebbe dovuto sostenere la crescita dei paesi aderenti, significativamente elevata alla fine del millennio. Al contrario, i primi vagiti dell’euro corrisposero a un periodo di deflazione proprio in Germania e Francia, seguito da anni di crescita deludente.

Il momento della verità venne, comunque, con la crisi globale del 2007-09. L’eurozona, privata dei normali strumenti monetari e fiscali di reazione alla crisi la BCE aveva come unico obiettivo il controllo dell’inflazione, mentre la politica di bilancio degli Stati membri era vincolata agli obblighi di riduzione del disavanzo pubblico – entra in un tunnel dal quale stenta ancora oggi a uscire. La politica imposta dalle autorità dell’eurozona fu simmetricamente il rovescio di quella praticata negli Stati Uniti dalla Federal Reserve e dalla nuova amministrazione Obama nel 2008-09. I risultati non lasciano spazio a dubbi: i paesi dell’eurozona hanno sperimentato prima una lunga recessione, poi una fase di sostanziale ristagno. L’eurozona, dopo una crisi che per durata e profondità paragonabile solo a quella degli anni Trenta in America, vede solo ora un barlume di crescita che, in Italia, dopo essere stata calcolata per molti anni in termini di decimali, rimane la più bassa nell’area della moneta unica.

4 – Quando la Francia aveva inaugurato la nuova politica europea del dopoguerra, il carbone tedesco, diventato patrimonio comune, aveva agito come catalizzatore della Comunità economica, destinata a sfociare nell’Unione europea. Ma il marco non era come il carbone sovrabbondante della Ruhr. Strappare il marco alla Germania per farne una moneta unica di paesi, peraltro profondamente diversi tra loro e distanti dalla tradizione di rigore monetario tedesco, fu come lacerare un suo fondamentale vessillo nazionale.

La Francia aveva preteso troppo, confondendo il marco col carbone – e con i vantaggi tratti dalla politica di protezione della propria agricoltura, la PAC, imposta alla Germana nella fase nascente della CEE. Il risultato non poteva essere più deludente sotto il profilo degli equilibri interni all’eurozona. Non ostante i primi effetti negativi della crisi, la Germania ha consolidato il suo ruolo di potenza a livello europeo e mondiale. La Francia rimasta indietro con una crescita stabilmente più bassa e una disoccupazione più che doppia. Il terzo paese più importante dell’area, l’Italia, ha fatto ancora peggio: la sua condizione in termini di crescita e debito pubblico la peggiore dell’intera Unione europea, se si esclude la Grecia, ridotta al livello di un paese del Terzo mondo.

Gli esiti sotto gli occhi di tutti. A meno di non bendarli. L’euro, metamorfosi artificiale del marco, una volta entrato in corpi estranei, si è dimostrato un virus in grado di corrompere il tessuto non solo economico ma anche politico dei paesi coinvolti nell’avventura della moneta unica. Il fallimento dell’euro come strumento di efficienza economica e progresso sociale sta alla fine proiettando la sua ombra sugli assetti democratici.

Lo schieramento di destra in tutta l’eurozona occupa sempre di più lo spazio politico, dividendosi al suo interno fra i fautori dell’euro e in suoi oppositori. La sinistra che della moneta unica fu il più convinto assertore la vittima sacrificale. A ogni tornata elettorale in Europa registra una sconfitta. La più clamorosa quella del Partito socialista francese, sostanzialmente sparito dalla scena, dopo essere stato con Mitterand, Delors e Jospin, il motore decisivo del passaggio alla moneta unica. La Francia di Schuman e de Gaulle ridotta a esibire lo scarnificato europeismo di Macron, orgogliosamente né di destra, né di sinistra.

Nel 2017, annus horribilis per la vecchia sinistra europea, abbiamo assistito alla polverizzazione dei partiti socialdemocratici nei Paesi Bassi e recentemente nella Repubblica ceca, per non dire del PSOE, il partito che più a lungo ha governato la Spagna post-franchista, ridotto a fare da stampella al governo conservatore di minoranza di Mariano Rajoy.

Le recenti elezioni in Sicilia confermano la tendenza, se ce ne fosse stato bisogno, con la grande maggioranza dell’elettorato diviso fra la coalizione di destra, che esibisce il redivivo Berlusconi, e le Cinque stelle che hanno visto raddoppiare i propri voti, mentre il Partito democratico scade nell’irrilevanza.

Ma non basta. L’evento più rilevante dell’anno che si avvia al termine l’abbandono da parte di Angela Merkel del tentativo di formare in Germania un governo di coalizione fra CDU- CSU, Verdi e Liberali. Per la prima volta l’instabilità tocca il paese guida dell’eurozona. Le avvisaglie si erano viste con il risultato delle elezioni di settembre, quando l’alleanza Cdu-Csu guidata da Merkel aveva sperimentato il peggiore risultato del dopoguerra. Ora l’alternativa sembra essere fra un governo di minoranza e nuove elezioni dall’esito ancora più incerto. Quali che siano gli sviluppi, la partnership franco-tedesca ne esce indebolita. Macron dovrà fare i conti con un governo tedesco caratterizzato da posizioni più rigide, ulteriormente spostato sulla linea di Schauble, ora alla presidenza del Bundenstag. La partnership franco-tedesca ne esce più debole, proprio quando l’eurozona soffre la maggiore crisi dopo la sua nascita.

In ogni caso, la crisi dell’euro e dello schieramento politico che con maggiore abnegazione lo ha sostenuto in Europa, non indica un imminente crollo dell’eurozona. Gli imperi hanno sempre attraversato prima dell’eclissi, lunghe fasi di decadenza e disgregazione. Le profezie sui tempi e i modi con i quali la crisi continuerà ad evolvere lasciano il tempo che trovano.

In Italia viviamo una situazione singolare. Il problema del fallimento dell’euro è semplicemente oscurato. Si attendono le elezioni generali della primavera, dalle quali, tuttavia, secondo le previsioni correnti, uscirà un risultato che non consentirà di formare una maggioranza di governo; salvo un governo del Presidente col mandato di organizzare nuove elezioni. E questo mentre, in particolare, l’Italia dovrà confrontarsi con la fine del Quantitative easing, col quale Draghi ha posto finora una diga agli attacchi speculativi contro l’euro, particolarmente disastrosi per un paese come l’Italia che deve finanziare il più alto debito pubblico dell’eurozona dopo la Grecia.

I fallimenti dell’euro o comunque li si voglia definire hanno imposto un duro prezzo all’economia della maggior parte dei paesi dell’eurozona in termini di crescita, di disoccupazione, di esplosione delle diseguaglianze. E hanno, al tempo stesso, messo in crisi, quando non eliminato dalla scena, la vecchia sinistra di governo. Dovrebbero, questi dati di fatto, costituire l’argomento ineludibile del dibattito nella sinistra italiana, o di quello che ne rimane. Ma, mentre in Europa il dibattito riemerge, sia pure con difficoltà e in ordine sparso, in Italia finora si è preferito esorcizzarlo.

(pubblicato su Egualianza & Libertà, 20/11/2017)

image_pdf

Lascia un commento