Fatali incomprensioni di quel che è stata la rivoluzione russa di Antonio Moscato

 

Ai margini di uno dei dibattiti che mi hanno tenuto impegnato negli ultimi tempi, due vecchi compagni che non avevano avuto il coraggio di intervenire, mi si sono avvicinati per ringraziarmi, ma anche per dirmi a mezza voce: “su molte cose hai detto cose giuste, ma noi siamo convinti che quel muro doveva essere più alto”. Io del muro di Berlino non avevo avuto occasione di parlare in quella sede (anche perché ci vorrebbero non due ore, ma settimane e mesi per descrivere tutti gli aspetti dello stalinismo).

Però evidentemente quei compagni nel loro piccolo bagaglio di idee a cui sono affezionati hanno conservato gelosamente l’idea che bastava alzare un po’ il muro e non sarebbe crollato nulla. Non serve a nulla la verifica che nei regimi capitalisti e neo liberisti sorti dopo la dissoluzione del sistema sovietico e, appunto, il crollo dei muri, i burocrati “comunisti” post-stalinisti di ieri si siano riciclati come imprenditori cinici e/o politicanti liberisti. Non conta nulla la traiettoria di tanti dirigenti dei PC che si sono inseriti perfettamente nella melma delle istituzioni borghesi (in Italia dovrebbe bastare il nome di Napolitano, e quello di tanti sindacalisti CGIL, da Lama a Trentin e ai loro epigoni che hanno avuto un ruolo determinante nella cancellazione delle conquiste di tante dure lotte dei lavoratori).

Per compagni come quei due, e per molti più giovani che riempiono pagine di Facebook, sarebbe bastato qualche sbirro della VoPo in più, e qualche altro metro di muro. Nessuna riflessione sul fatto che crollato il muro si è verificato che la maggioranza degli sfortunati cittadini della Repubblica Democratica Tedesca hanno confermato che non erano affatto contenti di essere “protetti” da quel muro… E che per questo le prospettive di ricostruzione di un movimento comunista radicato tra le masse, in Germania e in Europa, sono sempre più difficili.

Ma non ci sono solo i nostalgici dei muri. La scheda sui conti dello stalinismo che inserito ieri sul mio sito (Lo stalinismo, una controrivoluzione cruenta) ha ottenuto subito la riprovazione di un compagno, che si è affrettato a scrivere la sua certezza: “Stalin ha proseguito il leninismo”, dimostrando che – come accade spesso su Facebook – non aveva letto l’articolo ma solo le due righe di presentazione. Poi ha tirato in ballo Kronstadt, il “Terrore rosso”, ecc. che io avrei ignorato…

Demoralizzante.

D’altra parte anche il famoso economista egiziano Samir Amin, veneratissimo dalla sinistra italiana, in occasione di una tavola rotonda internazionale sulla rivoluzione in Russia ha rivendicato appieno l’esperienza sovietica, ribadendo la continuità tra la rivoluzione e il mondo dei Gulag e degli accordi con l’imperialismo: «Sono per il socialismo in un paese solo, immaginare rivoluzioni internazionali o simultanee è insensato», ha affermato lo studioso egiziano. Dimostrando così che alla sua veneranda età non si è mai degnato di leggere cosa intendeva Trotskij per “rivoluzione permanente”, e quindi si basa sulle sciocchezze che Stalin, impossessatosi del monopolio dell’informazione, metteva in bocca agli oppositori per ridicolizzarli.

Non è un caso isolato. Il martellamento di calunnie contro la rivoluzione che c’è stato fin dagli anni Ottanta del secolo scorso ha avuto effetto su moltissimi intellettuali, anche non totalmente prevenuti nei confronti della rivoluzione. Lasciamo perdere i faziosi rimasticatori di vecchissimi schemi calunniosi da “Libro nero” come i due “filosofi” francesi Pierre Dardot e Christian Laval a cui il manifesto di oggi ha dedicato benevolmente un’intera pagina, e che saranno presentati in un dibattito da Mario Tronti, senatore disciplinatissimo del PD, che dopo aver votato il poco e l’assai si permette questi svaghi intellettuali. Non vale nemmeno la pena di polemizzare, non sanno nulla e ripetono frasi fatte. Come al solito ripetono la frase fatta sulla “presa del palazzo d’inverno che non è niente altro che un colpo di Stato” (frase che peraltro era molto in voga, con diverse sfumature, anche nel PRC e nella stessa DP), mentre tutte le fonti coeve spiegano il successo della rivoluzione non con la tecnica perfetta a cui credeva Malaparte e che non c’era stata: il caos del 7 novembre è descritto nello stesso modo dal bolscevico Trotskij e dal menscevico Suchanov. La vittoria è stata possibile non per l’organizzazione perfetta di una minoranza, ma semplicemente perché nessuno rispondeva alle richieste di rinforzi e agli ordini di Kerenskij e del governo provvisorio. Erano milioni dalla parte della rivoluzione, poche migliaia contro. Come in ogni vera rivoluzione!

La difficoltà a capire si deve alla dimensione del martellamento ostile veicolato anche da superficiali esponenti della sinistra. D’altra parte anche uno studioso serio come Stephen Smith (che ho segnalato positivamente in Meno soli nella difesa della rivoluzione) pur rifiutando la tesi della continuità tra Lenin e Stalin, rivela qualche difficoltà a capire il dibattito interno al variegato partito bolscevico, che descrive talvolta senza coglierne completamente la logica. Ma ha capito comunque che la frattura decisiva tra la rivoluzione e lo stalinismo è stata realizzata non prima del 1921. Smith evita il cavallo di battaglia dei calunniatori più sofisticati, che isolano e ingigantiscono ogni episodio cruento della guerra civile, e ogni scelta imposta da circostanze drammatiche, considerandoli non nel loro contesto ineludibile, ma come la rivelazione del “vero pensiero di Lenin”. Possono così risparmiarsi la lettura o almeno la consultazione saltuaria dei 45 volumi delle Opere. Tutto quel che Lenin o Trotskij scrivevano o dicevano prima della guerra, e durante la guerra e poi in comizi di fronte a molte migliaia di persone, sarebbe stato solo un deliberato inganno secondo i riciclatori di vecchie calunnie (compresa quella dei soldi tedeschi). La Storia della rivoluzione russa di Trotskij non viene considerata mai una fonte (oltre che un capolavoro della letteratura russa, come ha scritto il non più comunista Vittorio Strada) ma viene liquidata come “speculare” all’inverosimile elenco di crimini di gran parte dei protagonisti della rivoluzione scritto per conto di Stalin.

Solo chi non ha mai letto una riga di Trotskij può considerarlo speculare al rozzo e brutale dittatore georgiano. Basti pensare che perfino nella sua opera meno riuscita (perché non finita, e iniziata per necessità economica, interrompendo la biografia di Lenin a cui teneva molto di più), lo Stalin, Trotskij dice che “se Stalin avesse potuto prevedere al principio dove lo avrebbe condotto la sua lotta contro il trotskismo, indubbiamente si sarebbe fermato” (Lev Trotskij, Stalin, AC, Milano 2017, p.712). E in una conversazione verso la fine degli anni Trenta aveva ribadito il concetto. Trotskij voleva spiegare come Stalin era arrivato dove era arrivato, senza neppure pensare a cancellare il fatto che in origine era un rivoluzionario. Altro che “specularità”.

Il problema maggiore nella ricostruzione di cosa è stata realmente la rivoluzione russa, è che è riuscita da decenni la demonizzazione di Lenin, ed è riuscita perché anche nella sinistra si ripetevano frasi fatte senza che nessuno andasse alle fonti; per giunta capire Lenin senza conoscere Trotskij è praticamente impossibile. Aldo Natoli, il compagno del gruppo originario del Manifesto che stimavo di più, ha ammesso in una recensione su Repubblica che finché era stato nel PCI aveva perfino rifiutato di leggere il bel romanzo Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, che alludeva al processo a Bucharin, perché nel PCI veniva bollato come anticomunista. D’altra parte anche la famosa cronaca di John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, era stata fatta sparire per decenni da ogni casa editrice vicina ai partiti comunisti perché aveva la colpa di fare emergere la totale assenza di un ruolo di Stalin nella rivoluzione, e aveva una prefazione di Lenin che la raccomandava come la cronaca più veritiera di quei giorni decisivi.

Natoli poi era diventato uno storico rigorosissimo e a volte insofferente di fronte alla superficiale rimozione di quelle tragedie. Ne avevo parlato cercando di ricostruire le ragioni di tanta confusione della sinistra in: La Rossanda e la scoperta dello stalinismo. È uno scritto di oltre cinque anni fa, ma mi sembra che non si siano fatti passi avanti.
La scarsa consultazione delle fonti (per non parlare della monumentale opera di Edward Carr in sette grandi volumi, liquidata assurdamente come trotskista e in realtà ancora preziosissima anche come testimonianza, perché Carr ha vissuto quegli anni) facilita la diffusione di un altro equivoco che ho riscontrato in alcuni dibattiti e ancor più nelle farneticazioni pseudoanarchiche che dilagano a volte su Facebook. La guerra civile così come c’è stata non era nel programma di Lenin e di Trotskij. La parola d’ordine di trasformare la guerra in guerra civile era un’indicazione equivalente a quella classica “quello di fronte a te non è il tuo nemico, il tuo nemico è chi ti trascina in guerra”.
La dimensione ridottissima delle vittime degli scontri delle giornate di Ottobre rispetto a quelle di febbraio, aveva fatto ben sperare. Per questo, non per ingannare qualcuno, era stata abolita la pena di morte e per mesi gli ufficiali zaristi disarmati dai loro soldati venivano rilasciati sulla loro parola.

Quello che sarà realmente la guerra civile scatenata, organizzata e finanziata contemporaneamente su tutti i fronti dalle potenze dell’Intesa e da quelle dei due imperi, ancora in guerra tra loro ma ugualmente ostili alla rivoluzione russa, è un’altra cosa, e certo non era stata prevista in quella forma e con quella ferocia. Ma non era certo nei loro programmi. La affrontarono anche perché rimasero soli. I menscevichi internazionalisti non avevano mai accettato di partecipare al governo, e i socialisti rivoluzionari di sinistra (che erano stati corteggiatissimi, insieme ai menscevichi, per farli entrare nel Consiglio dei Commissari del popolo) reagirono al doloroso trattato di Brest Litovsk considerandolo assurdamente la prova che Lenin era al soldo della Germania, e non solo uscissero dal governo, ma cominciassero a sparare sui dirigenti bolscevichi e sullo stesso Lenin. Era sbagliatissimo, ma non era prevedibile.

Una parte dei menscevichi e dei SR finirono per capire ed entrarono nel partito bolscevico, compreso Bliumkin che aveva partecipato all’uccisione dell’ambasciatore tedesco conte von Mirbach e dopo essere sfuggito alla condanna ricevuta, si avvicinò al partito bolscevico e poi vi entrò. Fu assassinato da Stalin nel 1929. Era assurdo considerare Lenin e Trotskij come complici della Germania: trattarono a lungo perché sapevano che la rivoluzione covava in Germania e speravano che l’ondata di scioperi di gennaio venisse in loro aiuto durante le trattative. Non immaginavano neppure l’ampiezza del tradimento della socialdemocrazia. Ma non era il loro progetto rimanere soli in un momento così difficile.

Nel senso comune, gli SR vengono assimilati agli anarchici, con cui concordarono in quei giorni l’atteggiamento contro i bolscevichi, e sono presentati come “vittime della intransigenza bolscevica”. Ma in quale paese un governo può accettare che lo si attacchi a colpi di pistola e di bombe? Potremmo rimproverare a Lenin e a Trotskij di non aver previsto la dimensione dell’aggressione imperialista che diede corpo alla controrivoluzione dei Bianchi, ma non certo di averla voluta.

(dibattito: 22 novembre 2017, dal sito Rivoluzione 1917)

image_pdf

Lascia un commento