IL FIUME VA. L’idea di un teatro di Francis Peduzzi

  1. Sono nato in Francia.

La mia esperienza professionale l’ho fatta nel paese dove sono nato. La sintetizzerò riconducendola al mio percorso di direttore de Le Channel, Scène Nationale di Calais (Teatro Nazionale di Calais), che è cominciato l’8 gennaio 1991.

Venticinque anni trascorsi nello stesso luogo, a sviluppare una struttura partita dal nulla o quasi.

Al mio arrivo, la situazione si riassumeva così: quaranta metri quadrati al limite dell’insalubrità come ufficio, nessun luogo di spettacolo in gestione diretta, una città che ci considerava come un’associazione straniera, imposta dall’assessore alla cultura della città di Calais e dal Ministero della Cultura.

Oggi lavoriamo nel vecchio mattatoio della città di Calais, oltre quattordici mila metri quadrati di cui abbiamo progettato, immaginato e realizzato la trasformazione in un luogo di vita artistica.

Venticinque anni di lavoro, in una città disastrata, in balia di tutti i problemi sociali dei nostri tempi.

Ma proprio in ragione di queste difficoltà oggettive, è stata un’avventura appassionante.

Per spiegare e farmi capire: nel 1991, al mio arrivo, c’erano dei bambini di questa città che non avevano mai visto lavorare non solo il padre, ma nemmeno il nonno.

Calais è anche quel posto, così vicino e così lontano dall’Inghilterra, dove si arenano migliaia di profughi che sognano un altro destino.

Ho imparato moltissimo e continuo ad imparare. Molto più che in qualsiasi altra città in cui avrei potuto esercitare lo stesso ruolo.

A Calais, era assolutamente indispensabile, di fronte a una popolazione che non avanzava alcuna richiesta in materia di arte e cultura, porsi gli interrogativi giusti.

Per non essere cancellati, dovevamo sfuggire a qualsiasi approccio convenzionale e affrontare la realtà.

Il nostro successo poteva essere determinato soltanto da una ricerca e da un’inventiva permanente.

 

  1. Sono nato in Francia.

Sono un prodotto puro della scuola repubblicana di questo paese e di un’epoca in cui era ancora possibile sottrarsi alla condizione sociale dei propri genitori. Inoltre, sono il prodotto di una politica culturale incentivata nel 1981 con la benedizione di François Mitterrand, presidente della Repubblica.

La politica di allora permise al paese di acquisire un paesaggio culturale che si è diffuso sull’intero territorio nazionale, dotandolo dei mezzi per il proprio sviluppo.

Sono un prodotto del “movimento del decentramento culturale” e penso di essere uno di quelli che, con la pratica, ne mette in discussione le fondamenta trentacinque anni dopo l’arrivo decisivo di Jack Lang a capo del Ministero della Cultura.

Sono tra quelli che pensano che questo “movimento” sia giunto al termine e al massimo di ciò che poteva produrre. Oggi è tempo di dare nuovi impulsi e di scuotere un sistema sclerotizzato.

Il luogo che dirigo viene spesso definito come luogo atipico.

Ma questo termine, atipico, mi sembra riduttivo e frutto di una certa pigrizia intellettuale.

Ciò che l’equipe del Channel e io stesso facciamo, nasce dalla costante ricerca di un pensiero indipendente e dalla correttezza del rapporto con il territorio.

Tutto ciò che facciamo ha l’impronta di una posizione permanente: l’ospitalità.

Tutto ciò che facciamo può essere riassunto in una frase: creare umanità.

Tutto ciò che facciamo nasce dalla volontà di non lasciare nessuno in disparte, mantenendo un’esigenza di qualità, di intenti e di dignità.

Tutto ciò che facciamo è animato da una domanda: “si può fare in modo diverso e migliore?”

Tutto ciò che facciamo coltiva un pensiero che affonda le proprie radici in quello che chiamerei “la ragione democratica”.

Questa ricerca ha prodotto alcuni effetti. Non è un caso se, in questi momenti di incertezza e di interrogativi sulla situazione della politica culturale dello Stato, il Channel sia stato definito dal Ministro della Cultura, Audrey Azoulay, come un luogo emblematico del paesaggio culturale francese.

 

  1. Sono nato in Francia.

Dunque sono straniero. Ma non del tutto straniero. Non del tutto estraneo alla lingua, alla cultura, alla geografia, alla storia, alla cucina, ai sapori e alla raffinatezza del vostro paese. In Francia, lo faccio anche un po’ mio.

Alcuni spettatori del Channel, scherzando, a volte mi dicono che gli toccherà imparare l’italiano, se vogliono continuare a frequentare il luogo e la sua programmazione.

Da bambino, nel cortile della scuola, la mia origine italiana era oggetto di scherno o insulti. Ciò mi feriva. Mi ha segnato e lo porto ancora con me, a distanza di cinquant’anni. Oggi, il tono è piuttosto di complicità, e mi fa sorridere.

Ma il mio passaporto fa fede: pur sempre straniero.

Si intuisce facilmente ciò che può apportare uno straniero.

So esattamente perché, nella programmazione del Channel, ho sempre insistito a chiamare il mondo intero, a tessere dei legami con altre culture, con approcci differenti, con mondi diversi e con altre visioni del mondo.

Lo straniero, ovunque si trovi, porta con sé un’alterità che attraverso la collisione e l’intreccio delle identità e delle culture stabilisce una relazione feconda. L’universale è il locale meno i muri afferma Miguel Torga.

Abbatteremo dunque i muri, ma apprezzando i confini.

Non bisogna confondere i muri con i confini. I confini sono un vaccino contro i muri. Consentono l’andare e il tornare. Il sentimento del confine è ai miei occhi un segno di discrezione e rispetto nei confronti dell’altro: no, io non mi sento a casa mia dovunque.

Eliminare le differenze significa creare indifferenza.

 

In principio era il verbo

 

Orientare

Un direttore deve avere una coscienza chiara del proprio ruolo. Dirigere un teatro è certamente assumersi tutte le responsabilità che spettano a un direttore, dagli orientamenti artistici alla gestione.

Ma dirigere significa anche prendere una direzione. Andare verso… Non c’è vista senza visione.

Non può esistere una politica senza grandi punti di riferimento su cui basare la filosofia di un’azione.

 

Inventare

Se un teatro non è un luogo d’invenzione, in grado di infrangere le proprie certezze, non adempie realmente al suo compito. Un teatro deve sprigionare una vitalità, un’energia, che ognuno deve sentire in continuo movimento. È quel movimento che detta la vita, quella vita che rende il teatro presente nella città, nella testa delle persone. E l’invenzione può nascere solo dal desiderio, dal desiderio di un direttore, ma anche e soprattutto dal desiderio di un’équipe. Vita e desiderio sono per me fonti essenziali di un’azione artistica. L’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte…

 

Rivolgere

Qualsiasi attività il cui funzionamento dipende in modo significativo dal contributo di denaro pubblico, deve restituire, in un modo o nell’altro, questo denaro pubblico. Un teatro deve esserne convinto. La sua ambizione non può limitarsi a interessare solo una minoranza della popolazione. La sua ambizione deve tingersi di una certa utopia, anche se quest’ultima probabilmente non verrà mai raggiunta.

Ricordo che, al mio arrivo a Calais, mi domandavo come, a un certo punto, il mio lavoro avrebbe potuto interessare la vicina di casa che ogni tanto teneva i miei figli. Un minimo di lucidità mi portava a prendere atto del fatto che questa persona non avrebbe mai messo piede in un teatro. Tuttavia, posso affermare che oggi quella stessa persona sa che il Channel esiste anche per lei e lo sa apprezzare. Pur continuando a non frequentare i teatri.

Il numero di posti venduti alla biglietteria è un indicatore quantitativo del pubblico di un teatro, ma non dice tutta la verità.

Un teatro non si rivolge a un pubblico, si rivolge a una popolazione.

Una politica culturale che si rivolge a una popolazione è segno di apertura, è prendere atto della diversità umana, delle origini e culture differenti, è una risposta degna a qualsiasi tentativo di negare l’altro.

 

Dialogare

Animare un teatro, farlo esistere per una popolazione significa instaurare una conversazione con la popolazione stessa. E come in qualsiasi conversazione, se si vuole essere compresi, bisogna scegliere un vocabolario e una grammatica pertinenti.

Per un teatro, il vocabolario è la natura delle scelte artistiche che vengono fatte, la linea di programmazione. Questa linea manda segnali e spesso indica la parte della popolazione che desidera accogliere e quella che rifiuta.

Ma il teatro deve riflettere sulla propria grammatica.

La grammatica di ogni lingua fornisce il codice, le regole che consentono di mettere le parole al posto giusto.

È in questo modo che dà senso e significato.

Applicata a un teatro, questa metafora sull’uso dei linguaggi consente di riflettere sulla maniera di organizzare una stagione, attribuendole una narrazione. E mette in discussione l’idea stessa della natura di una stagione.

Spiana la strada a una riflessione sulla modalità di presentazione delle opere. Consente di affrancarsi dalla relazione classica con lo spettacolo, nel senso che permette di rimescolare l’offerta abituale. Permette di creare situazioni in cui produrre l’eccezionale, in cui generare nuove attenzioni, in cui suscitare curiosità, in cui spezzare una certa routine.

 

Ascoltare

Considerando che le logiche di un teatro sovvenzionato sono lontane da ciò che è consuetudine chiamare la legge del mercato, alla logica della domanda e dell’offerta opporremo un’altra logica: quella dell’offerta e della risposta.

Non è la domanda presunta dello spettatore, considerato come un consumatore, a dettare le nostre azioni.

È l’effetto prodotto dalle proposte artistiche che deve influenzare, precisare, confermare o smentire, in piena libertà d’invenzione, le scelte iniziali, che restano dettate dall’idea che ci si è fatti dello spettatore stesso, vale a dire un essere pensante, autonomo e libero: un cittadino.

 

Dubitare

Nella mia vita, le certezze hanno meno spazio delle convinzioni.

La convinzione non è immutabile, può evolversi nel tempo, ma ha una dimensione di permanenza che la porta a costituire il nostro essere fondamentale. La certezza è un’altra cosa.

La certezza è il primo segno di un atteggiamento chiuso, impermeabile ai fatti e alla ragione, che tradisce la volontà di resistenza a qualsiasi discussione. Col tempo ho imparato che l’umiltà è la migliore consigliera. Invece di affermare perentoriamente delle certezze, dovrebbe risiedere in noi un dubbio permanente, un dubbio attivo.

 

Immaginare

La qualità più importante di un teatro è, a mio parere, la cura di ogni dettaglio. Nessuna linea scritta, nessun gesto, nemmeno il più insignificante, nessun aspetto della sua vita quotidiana può sfuggire a un occhio vigile e attento. Tutto ciò che si fa, tutto ciò che si dice deve essere pensato.

L’accoglienza degli artisti, l’accoglienza del pubblico, ciò che accade prima e dopo la rappresentazione, l’illuminazione di una sala, il modo di informare, tutto deve essere pensato. Ciò che il teatro dice di sé non può essere colto in mancanza di coerenza.

Visto che la perfezione non è di questo mondo, bisogna vigilare in ogni istante. Il modo più semplice per esprimere questa coerenza indispensabile è affermare che, in un teatro, tutto deve essere artistico. Dalla limonata che si serve al bar (è sempre importante che vi sia questo punto di incontro in un teatro) al modo di informare, allo spettacolo programmato, tutto deve essere impregnato della stessa attenzione, della stessa filosofia.

Ciò che il teatro dice di se stesso, lo dice in ogni momento e con ogni sua azione. Ciò che dice di sé, lo dice a se stesso e agli altri. Resto sempre colpito, nello scoprire un posto nuovo, di vivere ogni volta la stessa esperienza.

 

Imparare

In uno studio per il Ministero della Cultura sui pubblici di danza e di teatro del 1986, la prima cosa che ammettevano gli spettatori è che non andavano a vedere spettacoli teatrali o di danza per accrescere la propria cultura.

La loro motivazione era altrove: andavano a teatro per vivere un’esperienza. E questa esperienza comincia prima della rappresentazione e prosegue dopo.

E ciò che sembra assolutamente aneddotico assume un’importanza fondamentale: la semplicità nell’acquistare il biglietto, il costo, la facilità di trovare un parcheggio, la possibilità di consumare un pasto.

In breve, tutto ciò che sembra non dover interessare un direttore di teatro, è esattamente ciò cui bisogna prestare attenzione.

 

Dirigere

Un direttore deve innanzitutto dare il buon esempio, senza pretendere dagli altri, in termini di impegno e di serietà, nulla che non possa dimostrare lui stesso.

Deve avere un comportamento ineccepibile.

La sua legittimità non può in nessun caso derivare dal suo titolo. Essa è legata alle capacità che gli sono riconosciute.

Rifiuto le relazioni di autorità che presuppongono un rapporto di sottomissione.

Un bravo direttore è chi si è alleggerito del potere.

Ma che sa esercitarlo in caso di necessità.

 

Riunire

Il teatro è un’avventura e l’équipe, nel rispetto dei diritti di ognuno, deve affrontare il suo compito con un appetito e una voglia ogni giorno intatti.

È impossibile che qualcuno vada al lavoro senza voglia, senza volontà.

Lavorare in un luogo culturale significa creare le condizioni per un’attività appassionante. Come è possibile creare e rendere questa attività appassionante per gli altri, se per se stessi non lo è?

 

Trasmettere

Un teatro non è un supermercato. Ciò che ha da dire non può essere espresso con la retorica pubblicitaria. È per questo che non parlo di comunicazione, ma di trasmissione.

La forma è il fondo che sale in superficie diceva Victor Hugo.

 

Commuovere

Da venticinque anni, osservo alcune regole di comportamento dalle quali non mi sono mai discostato.

Le mie scelte di programmazione non le faccio leggendo un catalogo. Gli spettacoli programmati sono spettacoli che ho visto. Per me si tratta di una regola elementare, che fa parte del tacito accordo tra un direttore e gli spettatori.

Sono anche sempre presente ad ogni rappresentazione.

È in quelle serate che attivo tutti i sensori, che mi permettono di capire se la serata è riuscita o no. Dal silenzio del pubblico durante lo spettacolo agli applausi.

Vivendo questi momenti in mezzo al pubblico, con il pubblico, accogliendolo, confrontandomi con lui dopo lo spettacolo, raccolgo, nel conscio e nell’inconscio, migliaia di informazioni che mi consentono di agire nel modo più corretto possibile.

Faccio questo mestiere probabilmente per una forma di grande candore.

Mi piace mostrare e condividere ciò che mi commuove, mi emoziona, mi fa vibrare. Questa idea un po’ semplicistica non è necessariamente un’idea condivisa, ma l’ho fatta mia da molto tempo.

Concetti quali il piacere e il desiderio sono per me dei concetti essenziali.

Il piacere procurato allo spettatore farà nascere in lui il desiderio di tornare.

Questo piacere rinnovato di settimana in settimana dà forza a un luogo.

E se non si prova quel piacere a uno spettacolo, come puntare sul fatto che possa dare piacere agli altri? Il piacere nasce da tante cose.

Nasce da una forma insolita e nuova, nasce da un’estetica, nasce da un’interpretazione, nasce da una capacità di parlare del mondo evitando i luoghi comuni e i preconcetti, nasce dalla forza poetica.

Ma il piacere non può esistere dove non c’è dignità, dove non c’è alcuna considerazione nei confronti di chi guarda.

Dignità significa assumersi la responsabilità di salire sul palco e rivolgersi a un pubblico.

Dignità significa correttezza e sincerità degli intenti.

Dignità significa considerazione dello spettatore, un essere pensante e sensibile.

 

Qui finisce il testo. Resta forse un enigma sul titolo: Il fiume va.

Il fiume va come in una canzone di Lucio Battisti.

Il fiume va come si dice la vita che va.

Il fiume va, sempre lo stesso fiume, mai la stessa acqua.

Il fiume va, chissà quali paesaggi lo aspettano.

Il fiume va, come un teatro, sereno, impetuoso, imprevedibile, inesauribile, straripante.

Il fiume va, vedremo in quali anse ci porta il corso d’acqua.

Il fiume va, i dadi sono lanciati.

Il fiume va, sa dove andare.

Il fiume va.

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