La democrazia della paura (1, 2) di Nicola Fanizza

 

IL LUNGO CAMMINO DELLA DEMOCRAZIA

La democrazia è forse l’idea più potente di questo inizio del terzo millennio. Dopo aver imposto, negli ultimi due secoli, spesso con la forza, all’intero pianeta la libertà della merce, l’Occidente, oggi, fa della democrazia un valore sacro e sempre con la forza la esporta insieme al libero mercato. Eppure, in Occidente la democrazia si è pienamente sviluppata solo nel XX secolo. Prima della Grande guerra, i regimi democratici erano davvero pochi; erano presenti per lo più nell’Europa occidentale, in America settentrionale e nell’Oceania; potevano votare solo gli uomini, mentre le donne avevano il diritto di voto soltanto in quattro Paesi – Nuova Zelanda, Norvegia, Australia e Finlandia; in Italia l’hanno ottenuto nel 1946 e in Svizzera solo nel 1974.

A partire dagli anni Venti, il numero degli Stati democratici diminuì in modo considerevole in Europa in quanto alcuni Paesi già «pienamente» democratici come la Germania, l’Italia, Spagna, Portogallo, Grecia furono investiti da derive antidemocratiche che portarono all’instaurazione di governi totalitari o dittature militari. Dopo la seconda guerra mondiale, l’affermarsi dell’URSS come grande potenza impedì il diffondersi delle istituzioni democratiche nei Paesi dell’Est europeo e il lungo processo di decolonizzazione non diede luogo alla nascita di istituzioni democratiche durature. Ciò nondimeno, verso la fine della prima metà degli anni Settanta, il numero degli Stati democratici nel mondo risulta più che raddoppiato. Il momento di svolta si è avuto nell’Europa mediterranea, con il rovesciamento dei governi militari o fascisti in Grecia, Spagna e Portogallo. In seguito, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, nella maggior parte dei Paesi dell’America latina e dell’America Centrale sono stati istituiti o ristabiliti governi democratici. Infine, la transizione alla democrazia dopo l’89 nell’Europa orientale e in alcuni Stati della vecchia Unione Sovietica è stata seguita da quella di alcuni Paesi dell’Africa e dell’Asia.

Sono pochi, oggi, gli Stati al mondo che non si definiscono democratici. Al di là della Cina, della Corea del Nord, di Cuba e del Vietnam che continuano comunque a etichettarsi come «democrazie popolari» gli unici Stati esplicitamente non democratici sono alcuni Paesi dell’Africa nonché gli Stati semifeudali della penisola arabica e del Golfo persico.

Se è vero che la pretesa della democrazia di costituire un valore universale viene per lo più ritenuta legittima dalla maggior parte degli studiosi, è altresì certo che questi ultimi si dividono quando vengono chiamati a pronunciarsi rispetto alla possibilità di esportare o meno la stessa democrazia.

E tuttavia prima di vedere se sia giusto o meno esportare oppure, come credo, donare la democrazia, sia auspicabile capire precipuamente che cosa viene esportato o donato: ossia occorre sapere che cos’è la democrazia? qual è la sua funzione? a partire da quale secolo è dislocabile la sua presenza?

Rispetto alle prime due questioni che sono abbastanza intrecciate, penso che la democrazia non sia, come dice Anthony Giddens, solo «un sistema che implica la libera competizione fra partiti politici per le posizioni di potere. In una democrazia ci sono elezioni regolari e corrette, questi diritti di partecipazione democratica vanno di concerto con le libertà civili, libertà di espressione e di discussione, insieme con la libertà di formare e far parte di gruppi politici e di associazioni»1.

Ciò che non mi convince in questa definizione, che è vicina a quella di Norberto Bobbio2, non è quello che c’è, ma quello che non c’è, ciò che viene taciuto, il lato oscuro, mistico, della democrazia. Si tratta di un approccio dimidiato, più attento alla forma, agli epifenomeni che alla sostanza della democrazia. L’esistenza di regole che stabiliscano come si prendono le decisioni e la maggior estensione del diritto di voto insieme alla garanzia dell’esercizio effettivo dei diritti fondamentali su cui si basa lo stato liberale non sono sufficienti per qualificare come democratica una società. Viene recuperata la dimensione oggettiva, istituzionale dell’essere liberi, laddove sarebbe opportuno richiamarsi alla sovranità, all’autonomia, ossia alla dimensione soggettiva, individuale della libertà che concerne il governo di sé.

La democrazia di cui mi voglio qui occupare non è solo quella degli Stati, ma anche quella esistenziale, ciò che mi interessa sono le dinamiche inerenti allo spazio sociale, è la trama che costituisce il tessuto delle stesse relazioni sociali. La democrazia non è un modello istituzionale, e non è neanche un regime nel senso tradizionale del termine, è piuttosto il movimento attraverso cui la collettività si autoistituisce. Certo si tratta di un movimento che poggia su alcune istituzioni che non lo ostacolano, ma anche su una duplice consapevolezza presente in tutti i membri della collettività: sono loro quelli che istituiscono la società e loro stessi la possono cambiare; sono loro quelli che fanno le leggi e loro stessi le possono cambiare.

 

LA FESTA E LA RIVOLUZIONE

Malgrado alcune differenze, se non gli opposti contenuti, le rivoluzioni svolgono nella nostra società la stessa funzione svolta dalla festa nelle società premoderne. Sia quello delle rivoluzioni sia quello della festa sono periodi di mobilitazione e frenesia, di grandi raduni nel corso dei quali l’economia dello spreco sostituisce quella dell’accumulazione; le ossessioni collettive prendono il sopravvento sulle preoccupazioni personali e familiari. La festa e la rivoluzione, in virtù della grandezza dei sacrifici che richiedono e degli affanni che provocano, contribuiscono in modo determinante alla fondazione di un nuovo ordine, rinvigoriscono la società, la sbarazzano da istituzioni che hanno fatto il loro tempo. E conferendo autorità ai giovani leader, danno avvio a una nuova era.

Dopo la festa e la nascita delle nuove istituzioni, la società torna alla calma. Si cancellano le pitture e si sotterrano maschere; le bandiere dei partiti vengono riposte negli armadi e le armi negli arsenali. Ognuno riprende il suo posto e la sua funzione, l’inerzia sociale torna a esercitare il suo peso, si consolidano le nuove gerarchie. Chiuso il periodo dell’esuberanza, del parossismo, della trasgressione degli interdetti e dell’effervescenza vivificante, ricomincia la vita ordinaria, le cui molteplici attività comprendono anche i preparativi della prossima festa o delle prossime elezioni.

Il periodo della festa e quello della rivoluzione possiedono tuttavia alcuni caratteri essenziali contrapposti. Il ricorso alla violenza e le sue conseguenze esiziali per i partecipanti non appare come il tratto che distingue il periodo del parto della democrazia da quello della festa. Come vi sono rivoluzioni senza violenza – la rivoluzione dei garofani in Portogallo, l’avvento della democrazia in Spagna, nella Repubblica del Sud Africa, ecc. – così vi erano feste, peraltro non rare, senza bagni di sangue. Non è dunque sotto questo profilo che si può distinguere il periodo delle rivoluzioni da quello della festa, bensì piuttosto nel fatto che mentre nella festa signoreggiava in modo sovrano la volontà di comunione tra clan diversi attraverso un triplice scambio (parole, donne e beni), laddove, invece, nel periodo delle rivoluzioni regna la volontà di vincere e di sottomettere gli appartenenti alla parte avversa.

Nel Saggio sul dono3, Marcel Mauss dice che le società arcaiche poggiavano su un triplice obbligo: dare, ricevere e ricambiare. Lo scambio avveniva sempre fra soggetti collettivi e riguardava gli oggetti preziosi dotati di anima. In particolare lo scambio delle donne implicava per i membri di un clan la rinuncia a oggetti di piacere oltremodo preziosi. La paura dell’altro poteva essere vinta solo attraverso la rinuncia al desiderio narcisistico. Il che sta a dire che qualsiasi comunicazione autentica implica un prezzo, un sacrificio: l’autoriduzione, la rinuncia a una parte di piacere, la rinuncia a una parte preziosa della propria identità diventa la condizione per entrare in relazione con l’altro, per giocarsi ciò che resta.

L’odio, oggi, invece, travalica lo spirito di cooperazione, lo scontro fra le classi sociali se non addirittura fra le civiltà prevale sull’alleanza fra due fratie: ciò che serviva per sancire le unioni indissolubili, perpetua ormai contrasti inconciliabili. Una conversione così totale non è l’effetto di un capriccio del destino in quanto è riconducibile al punto di approdo di un lungo processo storico. Ma di questo parleremo più avanti. E’ tempo di aprire una finestra sul lato oscuro della democrazia.

 

IL RITO E IL GIOCO

La festa è stata definita come un’attualizzazione del periodo creatore, come il momento in cui gli uomini abbandonavano il divenire per accedere a quel serbatoio di forze onnipotenti e sempre nuove rappresentato dall’età primigenia, era un intervallo di confusione, di dissolutezza e di follia che aveva il compito di riassicurare la rigenerazione del tempo e, insieme, di istituire e assicurare la stabilità del calendario.

Attraverso la comparazione dei rituali appartenenti a culture eterogenee, Levi-Strauss ha individuato una stretta connessione fra riti e calendario: «i riti fissano le tappe del calendario, come le località quelle dell’itinerario»4. Tuttavia nelle società premoderne non troviamo solo il rito ma anche il gioco. Fra il rito e gioco, che sono coestensivi, è presente «una relazione, insieme, di corrispondenza e opposizione, nel senso che essi intrattengono entrambi un rapporto col calendario e col tempo, ma che questo rapporto è, nei due casi, inverso: il rito fissa e struttura il calendario, il gioco, al contrario, anche se non sappiamo ancora come e perché, lo altera e distrugge»5.

Molti riti, se andiamo a vederne le origini, sono riconducibili alle pratiche religiose e quindi al discorso mitico, ma poi col tempo si sono separati da tale ambito per assumere un carattere meramente profano. Per esempio il gioco del pallone, che negli ultimi decenni è diventato un fatto sociologico di primaria importanza, in origine, presso i Maori, era un rito che era collegato al mito della conquista del cielo: la posta in gioco, il pallone medesimo, rappresentava il sole. Tuttavia in seguito il gioco del pallone, fino alla configurazione assunta nell’attuale football, si è sganciato da quel teatro mitico e il pallone oggi non rappresenta più il cielo da conquistare. Il gioco è diventato, infatti, un rito senza mito.

Se è vero che tutto ciò che appartiene al gioco proviene dalla sfera del Sacro, è altresì certo che esso lo trasforma radicalmente, anzi lo rovescia a tal punto da poter essere definito come «sacro capovolto». Mentre nel Sacro vi è la congiunzione del mito che annuncia il racconto e del rito che lo ripete, nel gioco scompare il mito e resta solo il rito, la forma del dramma sacro, in cui ogni cosa è di volta in volta posta daccapo.

Mentre la funzione del rituale è di «preservare la continuità del vissuto» e comunque di assicurare la rigenerazione delle istituzioni che compongono la struttura della società, il gioco, al contrario, altera, distrugge e ricompone su nuove basi l’ordine sociale. Ciò che qui voglio dire è che c’è una relazione, insieme di corrispondenza e di opposizione, fra il gioco (l’istituente) e il rito (l’istituito), nel senso che essi rimandano ai due aspetti opposti eppure necessari della stessa sovranità che G. Dumezil ha individuato nei miti indoeuropei che ineriscono alla prima funzione6: da una parte Romolo che rimanda alla potenza creatrice e, dall’altra, Numa Pompilio che rimanda all’ordine in quanto aveva introdotto a Roma il calendario e le istituzioni religiose.

Mentre il rito trasforma gli eventi in strutture, il gioco trasforma delle strutture in eventi. Ossia mentre il compito del rito è quello di annullare l’intervallo che separa il passato dal presente riassorbendo tutti gli eventi nella struttura sincronica, la funzione del gioco è opposta: esso tende a rompere la connessione fra il presente e il passato e a risolvere la struttura in eventi, ovvero mentre rito trasforma la diacronia in sincronia, il gioco invece trasforma la sincronia in diacronia.

Il rito e il gioco caratterizzano qualsiasi società umana e operano per istituire relazioni significanti fra diacronia e sincronia e pertanto li troviamo anche nelle società democratiche contemporanee. Certo le forme assunte dalle pratiche rituali nelle società contemporanee sono diverse da quelle del passato, sicuramente, oggi, il mutamento dello spazio sociale ha determinato la nascita di nuovi riti nonché una nuova dislocazione del campo rituale, un nuovo ordine sociale, una nova struttura del tempo e del calendario e tuttavia penso che la logica complessiva che ha animato le vecchie società premoderne e le nuove società democratiche sia sempre la stessa.

Ma andiamo avanti in questo viaggio nei sotterranei dell’immaginario della democrazia. Come è stato già notato, ogni gioco contiene una parte di rito e ogni rito una parte di gioco, ovvero sia il gioco sia il rito contengono una pietra d’inciampo in cui va a naufragare qualsiasi tentativo di trasformare completamente la diacronia in sincronia e la sincronia in diacronia, ossia la potenza istituente in struttura ordinata e l’ordine in potenza creatrice. Il gioco e il rito stanno, insieme, alla base di qualsiasi relazione sociale. L’amicizia, si dice, è senza tempo (rito) eppure ha anche bisogno di tempo (gioco) nel senso che quando rivediamo un amico è come se lo incontrassimo per la prima volta e nel contempo non è possibile stendere un velo sugli eventi che hanno costellato il rapporto amicale. Lo stesso può dirsi della storia che è maestra di vita (rito) e, insieme, racconto che frantuma la struttura in eventi (gioco).

Tutte le società, comprese quelle democratiche, contengono la pietra d’inciampo in cui va a naufragare sia il tentativo di bloccare una volta per sempre le relazioni di potere fra gli individui, e per estensione fra le classi, trasformandoli in stati di dominio sia il tentativo di rendere eternamente mobili le istituzioni politiche. Posta questa correlazione, non esistono società senza storia e società storiche. Sono società «fredde» quelle in cui la sfera del rito tende ad espandersi a spese di quelle del gioco; sono società «calde» quelle in cui la sfera del gioco tende a espandersi a spese di quelle del rito.

 

RELAZIONI DI POTERE E STATI DI DOMINIO

La connessione fra il gioco e il potere la possiamo ritrovare nella riflessione di Michel Foucault: «Il potere non è il male, il potere significa giochi strategici. Sappiamo che il potere non è il male! Prendiamo, per esempio, le relazioni sessuali o d’amore: esercitare un potere sull’altro, in una specie di gioco strategico aperto, dove le cose potrebbero essere ribaltate, non è il male; fa parte dell’amore della passione, del piacere sessuale. Prendiamo anche una cosa che è stata oggetto di critiche spesso giustificate: l’istituzione scolastica. Non vedo che cosa ci sia di male nella pratica per cui, in un dato gioco di verità, qualcuno sa più di un altro dice a quest’ultimo cosa bisogna fare, insegna, gli trasmette un sapere, gli comunica delle tecniche; il problema è, invece, di sapere come in queste pratiche – in cui il potere non può non esistere e in cui non è cattivo in sé – sia possibile evitare gli effetti di dominio che fanno sì che un bambino possa essere sottomesso all’autorità arbitraria e inutile di un maestro, uno studente possa essere lasciato alla mercé di un professore autoritario, ecc. Credo che questo problema vada posto in termini di regole di diritto, di tecniche razionali di governo e di ethos, di pratica di sé e di libertà»7.

Il potere di cui parla Foucault appare come un qualcosa di diverso da un privilegio statutario da esercitare come si vuole e quando si vuole. Mentre la proprietà si identifica col lo jus utendi et abutendi, il potere viene identificato solo con lo jus utendi che consente di farne uso, ma senza poterne mai abusare. L’esercizio del potere si configura pertanto come una funzione e come un mestiere che ha a suo fondamento comunque un limite.

E per l’insegnante il limite sta nel fiume che separa e, insieme, unisce gli atti comunicativi con gli atti metacomunicativi8. Gli insegnanti e i genitori – in relazione alla loro funzione – sono soliti usare i seguenti atti comunicativi: «Stai zitto! Questo è un ordine! Rimetti i giocattoli a posto! Studia! Ascolta! ecc.». Ogni atto comunicativo può essere finalizzato non alla necessità di insegnare un senso dell’ordine o di responsabilità, ma a ricordare a colui che si trova più in basso la sua posizione e la conseguente obbedienza che è dovuta a chi si trova più in alto. Ebbene quando ciò accade, ci troviamo di fronte ad un atto metacomunicativo. Nondimeno un semplice atto metacomunicativo non trasforma una relazione di potere in stato di dominio. Invitare la classe a una maggiore attenzione richiamandosi alla natura gerarchica della relazione docente-studenti è comunque necessario quando, in un determinato momento, per questioni contingenti, vi è stata una perdita momentanea di autorità. Una relazione di potere si trasforma in stato di dominio solo se chi si trovava più in alto nella relazione di potere desidera la conferma del proprio potere su chi si trova più in basso, nella prospettiva di far sentire a quest’ultimo l’obbedienza come un bisogno e un senso di sicurezza.

Non possono esistere società senza relazioni di potere. Se il potere consiste nell’esercitare un’influenza su un’altra persona non è di per sé negativo. E in ogni modo chi esercita un potere su un altro individuo può sempre perderlo a vantaggio di chi si trovava prima in una posizione subordinata: ossia il potere va inteso come un rapporto di influenza suscettibile di modifica fra chi lo esercita e chi lo accetta. Il lato paradossale iscritto nel paradigma della sovranità è già comunque presente nell’area semantica del termine che indica «ciò che sta sotto e, insieme, più in alto»9. Il che rimanda, come dice Federico La Sala, a una visione chiasmatica10 della sovranità: ogni individuo è tale solo in relazione all’altro che lo determina e la stessa relazione non appartiene alla zona dall’essere, ma dalla potenza del divenire.

Le relazioni di potere si trasformano in stati di dominio quando si cristallizzanno, diventando immobili, quando cioè non modificano coloro che vi partecipano. Sicché è del tutto illusorio pensare utopisticamente a un mondo in cui gli stati di dominio scompaiano: «Gli stati di dominio – scrive Iacono – incombono sempre sulle relazioni di potere, non possono essere eliminati una volta per tutte»11. Proprio perché in qualsiasi società relazioni di potere e stati dominio sono coestensivi, può accadere oggi, come è già accaduto nel passato, che gli stati dominio – presenti comunque nelle relazioni di potere – si sostituiscono impercettibilmente e irrevocabilmente alle stesse relazioni di potere. Come può accadere che una relazione di potere fra due persone – attraverso le dinamiche del paternalismo – si cristallizzi trasformandosi in stato di dominio, allo stesso modo può accadere che una relazione di potere fra gruppi sociali, partiti politici, si fissi, tramutandosi in uno stato di dominio. Di qui la seguente consapevolezza: il totalitarismo non può mai essere sconfitto definitivamente, è sempre in agguato e solo la balaustra della cura di sé può difenderci dai deliri di dominio. In questo senso è opportuno da una parte vivere una vita supersorvegliata per evitare derive di tipo totalitario a livello di relazioni sociali e politiche e, dall’altra, è necessario attivare il passaggio di massa dalla libertà all’autonomia, al governo di sé. Di qui la necessità di combattere con tutti mezzi contro il paternalismo che regna nelle diverse istituzioni sociali – quali la famiglia, i partiti politici, la scuola, ecc. –, che istillano la paura dell’uscita dallo stato di minorità.

E a proposito delle istituzioni scolastiche è auspicabile il recupero della scuola dei «cittadini sovrani» di cui parlava Don Milani. Una scuola in cui signoreggi non l’autoritarismo, ma l’autorevolezza, non la retorica ma la parresia12 dei docenti e degli studenti. Il docente autorevole con l’esempio e il parlare franco spinge lo studente verso l’autonomia, mentre l’insegnante autoritario con l’obbedienza blocca lo studente nello stato di minorità.

D’altra parte, quando gli intellettuali organici e i dirigenti di partito parlano nelle sezioni degli eventi del recente passato di cui sono stati protagonisti – esaltando in modo acritico le loro gesta –, instillano nei giovani che ascoltano l’idea che loro non saranno mai all’altezza di chi racconta, creano paure che inibiscono l’azione. Si tratta di una paura che non è positiva, di una paura mirata in quanto serve solo a trasformare la relazione di potere in uno stato di dominio. Pertanto quando ci vengono a dire «formidabili quegli anni», è meglio non starli ad ascoltare, è meglio andare a giocare. (continua)

 

NOTE PRIMA PARTE
1) A. GIDDENS, Il mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2001, p, 86.
2) N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1955.
3) Vedi M. MAUSS, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965.
4) C. LEVI-STRAUSS, Mythe et oubli, in Langue, discours, sociètè, pour Emile Benveniste, Paris 1975.
5) G. AGAMBEN, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 1978, p. 71.
6) G. DUMEZIL, Le sorti del guerriero, Adelphi, Milano 1990, p. 25.
7) M. FOUCAULT, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Fuucault, Feltrinelli, Milano 1998, p. 291.
8) Sul concetto di «metacomunicazione», vedi G. BATESON, Una teoria del gioco e della fantasia, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1984, p. 157.
9) Per quel che riguarda l’area semantica del termine sovranità, vedi G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 137.
10) Sul pensiero chiasmatico, vedi F. LA SALA, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
11) A. M. IACONO, Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano 2000, p. 39.
12) Sulla nozione di parresia – intesa come parlare franco, dire la verità –, vedi M. FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003, pp.330-367.

 

(19 settembre 2006, Pubblicato da Andrea Inglese su Nazione indiana, foto A. Inglese)

 

LA DEMOCRAZIA DELLA AURA (2)      di Nicola Fanizza

IL PASSAGGIO DI MASSA ALL’AUTONOMIA

Nel famoso scritto Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo, che Kant pubblicò nel 1784, è possibile cogliere il senso di una svolta epocale. L’Illuminismo è definito come «l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare solo a sé stesso». Si tratta di un interrogarsi sul presente, di una definizione dall’interno della propria epoca vista nella sua differenza, nella sua discontinuità nei confronti del passato. È come dire, da adesso in poi il mondo non è più come prima, usciamo dal vecchio mondo e ce lo mettiamo alle spalle.

Ma se è vero che per Kant l’Illuminismo è l’uscita dalla minorità è opportuno capire che cosa intende il filosofo di tedesco per minorità. Lo stato di minorità di cui parla Kant è di tipo etico-esistenziale in quanto travalica i limiti convenzionali tra chi è minorenne e chi non lo è. La minorità emerge come problema del soggetto, proprio nel momento in cui sono state rimosse le condizioni oggettive che impedivano l’esercizio della libertà. Kant coglie la differenza fra la dimensione oggettiva della libertà e la dimensione soggettiva (l’autonomia), ovvero coglie il fatto che la libertà di stampa, di associazione, di coscienza siano ormai conquiste irreversibili e pertanto, una volta eliminati gli impedimenti esterni (oggettivi) all’esercizio della libertà, non vi siano più ostacoli per l’autonomia, per il governo di sé. E’ come dire, a partire da questo momento non ci sono più alibi, la minorità è legata solo alla «mancanza di decisione e del coraggio nel far uso del proprio intelletto». Tutto è demandato alla volontà individuale.

Oggi, a più di due secoli di distanza, l’uscita dallo stato di minorità non si è ancora realizzata: benché ci sia stata la chiamata universale a governare se stessi, pochi hanno ascoltato. Sicuramente Kant si sbagliava, il conseguimento dell’autonomia ricondotto solo alla volontà sembra eccessivo. Dobbiamo allora chiederci che cosa oggi impedisce l’uscita dallo stato di minorità. Una risposta può essere trovata nei legami sociali paternalistici che istillano paura. E poi, uscire fa sempre paura; a chi non piace avere un padre, una guida, un tutore, un maestro che si prende cura di noi, che ci governa?; il dominio è attraente non solo per chi lo esercita ma anche per chi è dominato in quanto produce sicurezza e la rassicurazione è un invito quasi irresistibile a non uscire dalla minorità. E a questo proposito Max Weber dice che il dominio presuppone sempre e comunque un «minimo di volontà di obbedire, cioè un interesse (interno o esterno) all’obbedienza»(13). Insomma siamo tutti liberi ma solo pochi sono sovrani. Che strano! Anche per il cristianesimo la chiamata è universale mentre la salvezza è di pochi.

Vedo in giro un’aria di sfiducia nei confronti di quest’Occidente. Quest’Occidente che ha combattuto, a volte, il totalitarismo, ma non lo ha sconfitto definitivamente (ma non poteva sconfiggerlo!); quest’Occidente che ha avuto il merito di separare la religione dalla politica e di istituire regole capaci di far convivere, come in un gioco di prestigio, universalismo e pluralismo; quest’Occidente che ci aveva promesso il passaggio di massa dalla libertà all’autonomia, alla sovranità, e tuttavia ha sempre operato in modo paternalistico per ostacolare ed evitare tale transito; quest’Occidente che ci fa vivere nella democrazia della paura che è sempre e comunque funzionale al mantenimento degli stati di dominio.

LA DEMOCRAZIA E LA GUERRA

I riti della democrazia, allo stesso modo di quelli della festa, rafforzano il legame sociale, permettono di mescolare il tempo individuale con il tempo collettivo, ravvivano la memoria e legano il tempo presente al passato che conta. E, in questo senso, la democrazia rimanda sempre e comunque a un evento mitico, ossia a una violenza istituente che è ritenuta giusta in quanto la guerra mitica è sempre fondante rispetto a una pretesa. E questo spiega le aporie che costellano i discorsi di taluni pacifisti che ritengono ingiuste tutte le guerre tranne quella in cui si riconoscono (resistenza o seconda guerra mondiale).

Se vogliamo tentare una definizione, possiamo dire che la democrazia si configura da una parte come un movimento che si autoistituisce e, dall’altra, come un insieme di atti formalizzati, rituali, che consentono in primo luogo il riconoscimento del conflitto (effervescenza sociale), in secondo luogo il riconoscimento delle differenze, e in terzo luogo la possibilità dell’istituente (la prassi creatrice e liberatrice) di modificare l’istituito (la prassi cristallizzata).

La democrazia ha i suoi miti e i suoi riti e, al pari della festa, può andare incontro a dei pericoli: il disconoscimento del conflitto, il non rispetto delle differenze, l’incapacità del potere di recuperare i contenuti innovativi prodotti dai movimenti germinanti che rivendicano un nuovo ordine nonché nuovi riti di liberazione. Ogni processo di liberazione che esaurisca in sé tutte le pratiche di libertà finisce col trasformare le relazioni di potere in stati di dominio. D’altra parte, quando il potere nelle società premoderne non riconosceva il contributo dei gruppi germinanti, il carnevale si trasformava in sommossa e lo stesso avviene oggi nei regimi democratici allorquando il potere risponde ai doni dei movimenti con la repressione militare.

Per quel che riguarda la dislocazione temporale in cui è possibile individuare l’insorgenza dei riti che rimandano alla democrazia, non sono del tutto d’accordo con quelli che – facendo proprio il detto: «Il moschetto fece il fante, che fece la democrazia» – arrivano a individuare la stessa origine della democrazia nella guerra moderna. In questo modo si fa dipendere una trasformazione di importanza decisiva per la società da una semplice innovazione tecnica. Anche se si tratta di una trasformazione essenziale. Si dice che a partire da Valmy, il bracciante, il miserabile – abituato a tacere e a soffrire – diventa cosciente della propria importanza solo quando gli viene data la possibilità di imbracciare un fucile chiamandolo a difendere la nazione e i pericoli che affronta, come la morte che infligge, gli dimostrano con accecante chiarezza che egli è uguale al nobile. Non a caso patriota e repubblicano sono sinonimi. E’ dalla guerra moderna – una guerra in cui, a differenza del passato, si combatte «con il cuore» e in modo «tragico e feroce» –– che nasce la democrazia con i suoi riti e con i suoi miti.

Ma siamo sicuri che le cose stanno così? È un’idea che non sta in piedi. Prima di tutto l’armata di volontari non avrebbe potuto esserci se l’immaginario dell’uguaglianza fra i cittadini non fosse già stato ben presente. E in secondo luogo, dove sta scritto che la «nazionalizzazione delle masse» produce necessariamente la democrazia? La storia ci insegna che le cose possono andare anche diversamente! Dopo la Grande guerra, in Italia l’avvento del fascismo non si è realizzato proprio grazie a quei soldati che erano tornati dalla guerra? Da noi, è accaduto che la guerra sia stata fatta precipuamente dai contadini e dagli impiegati e non certo dagli operai, i quali o rimasero a lavorare in fabbrica oppure furono utilizzati in ferrovia oppure nelle retrovie in attività logistiche. Sta di fatto che mentre i contadini combattevano, gli operai assunsero nei confronti della guerra una posizione ambigua che fu foriera poi di conseguenze nefaste: si dichiaravano favorevoli alla guerra e nel contempo scioperavano per avere maggiori salari, sabotando così lo sforzo bellico. Questa ambiguità, insieme alla posizione equivoca del PSI nei confronti della guerra, fu pagata a caro prezzo, nel dopoguerra, quando quelli che avevano fatto la guerra si schierarono contro gli ex «imboscati» che continuavano a deriderli. Infatti gli ex combattenti manifestarono il loro desiderio di contare anche e principalmente contro chi rivendicava il medesimo diritto, che nel loro sentire, non era legittimato dal merito. Da ciò si evince che, in generale, i soldati che tornano dal fronte non vogliono sempre e comunque la democrazia e, in particolare, che l’ambiguità politica non sempre paga!

Il legame fra la democrazia e la nazionalizzazione delle masse esiste, non va disconosciuto, ma non va nemmeno esagerato. Ritengo piuttosto che le istituzioni democratiche si siano affermate attraverso un lungo processo che ha prodotto uno sviluppo dello spazio sociale, un nuovo ordine simbolico, una nuova immagine del tempo, nuovi riti nonché una nuova dislocazione del campo rituale. Proprio perché i vecchi riti delle società premoderne si erano trasformati in strumenti della conservazione che bloccavano l’innovazione, si sono affermati progressivamente i riti della democrazia come un grido di libertà contro il vecchio ordine – o piuttosto disordine – fondato sull’ingiustizia, sull’oppressione, sulle ineguaglianze e sulla repressione dei desideri.

 

DONARE LA DEMOCRAZIA

A partire dal crollo delle Torri gemelle, l’Occidente è costretto fare i conti con l’ombra dell’altro. Non si tratta più di fantasmi di individui desituati nei Paesi esotici, ma di ombre di uomini in carne ed ossa che abitano nelle sue città, dormono nelle sue case e camminano nelle sue strade. Lo spettro dell’altro abita in modo ormai stabile nell’immaginario del mondo occidentale, facendosi latore di nuovi incubi e di inedite paure. Di qui l’esigenza di rimuovere tale paura. Allo stesso modo di quanto avveniva nelle società arcaiche, l’Occidente può comunque sconfiggere la nuova grande paura solo pagando un prezzo: cioè può avviare la comunicazione con l’altro mediante la pratica del dono, attraverso una considerevole autoriduzione, un gigantesco potlatch. Per poter comunicare con chi è irriducibilmente altro da sé, l’Occidente non solo deve essere meno ricco di quanto è adesso, ma ancor di più deve rinunciare a una parte preziosa della propria identità.

Ciò nondimeno l’Occidente – dopo aver dimenticato la grande promessa, inerente passaggio di massa dalla libertà all’autonomia – fa la guerra per esportare le istituzioni democratiche, dimenticando che il rito è tale solo quando conserva la sua valenza simbolica, ossia quando fa riferimento a una costellazione simbolica riconosciuta dalla comunità. Ebbene se non c’è questo riconoscimento, che implica una serie di mediazioni, il problema della sua esportazione non ha senso. La democrazia per essere tale deve dare emozioni, deve dare un senso alle azioni degli individui, deve far riferimento a un evento mitico fondante e immanente rispetto alle pratiche sociali. Quando non ci sono queste dinamiche, la democrazia viene per lo più vissuta come uno scambio fra benefici e consenso oppure come qualcosa di estraneo.

Se è vero che la democrazia non la si può esportare, si potrebbe cercare di donarla, anche se è una cosa facile a dirsi e molto difficile da farsi. E qui intendo un donare la democrazia non tanto come un elargire gratuitamente un qualcosa ad un altro quanto piuttosto un fare della «propria democrazia» un dono, cioè un donare senza accorgersi di donare. Certo, il dono puro non esiste in quanto chi dona lo fa sempre in modo servile e tuttavia posso anche pensare che quando la democrazia si configura come un «dono servile» – timeo danaos et dona ferentes = temo i greci proprio perché portano i doni – come una sfida, può costringere chi ha ricevuto il dono a ricambiare con un controdono ancora più eclatante. In entrambi i casi occorre stimolare la nostra intelligenza sociale, la nostra immaginazione per fare della «nostra» democrazia un dono poiché, forse, solo attraverso l’atmosfera del dono è possibile comunicare con chi non ci vuole nemmeno sentire. E se è vero che donando la democrazia agli altri noi occidentali possiamo dimostrare la nostra superiorità, è possibile che questa superiorità conseguita attraverso lo scambio asimmetrico non duri in eterno in quanto gli altri, prima o poi, verranno a bussare con i piedi alle nostre porte.   (Fine)

NOTE
13) M. WEBER, Economia e società, Ed. Comunità, Milano 1980, vol. I, p. 207.

(20 settembre 2006, Pubblicato da Andrea Inglese su Nazione indiana, foto A. Inglese)

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