Valle Giulia di Francesco Pecoraro

 

[Cinquant’anni fa, davanti alla Facoltà di Architettura di Roma, a Valle Giulia, ebbe luogo lo scontro che diede inizio alla fase più dura e più importante del Sessantotto italiano. Francesco Pecoraro era uno degli studenti che quel giorno scesero in piazza].

Sotto il pino di fronte all’ingresso c’è gente sdraiata sul prato che fuma e chiacchiera al sole.
Quelli che scalpellano la facciata seguono un disegno tracciato, pare da Guttuso, sull’intonaco col gesso: figure nude e grappoli d’uva, un’arcadia incompiuta, strana in quel contesto così politico: ma chi ha sta lavorando a quella roba fa parte di un gruppo diverso, sono una specie di situazionisti.
Si divertono a eseguire azioni totalmente deviate e astratte, che ci sembrano molto belle.
Allevano pecore nelle stanze della facoltà, scavano una piscina nello spiazzo, trapiantano un albero di fico nel patio davanti all’Aula Magna, irrompono nelle case di intellettuali affermati, purché di sinistra, e scompaginano ogni cosa, in qualche caso con una certa violenza. Ma non sulle persone, piuttosto sulle cose. Mandano all’aria cene, serate tra amici, terrorizzano famiglie.
La violenza – fisica e psicologica – è lì, è l’opzione sempre presente, fa parte integrante di tutto quello che succede, anzi che facciamo succedere. Non si può eliminare, perché essere non-violenti significa non-esistere nei termini in cui vogliamo esistere. E questi termini, anche se non sono per niente chiari, di sicuro non ammettono mediazioni con l’esistente, almeno a parole.
La violenza è necessaria, alcuni di noi ci metteranno anni per capirlo, ma operai e contadini, lo sanno da sempre: è necessaria perché senza azione fisica, senza manifestarsi nello spazio-tempo, piuttosto che soltanto nella parola scritta o detta, nessuna opposizione può prendere veramente corpo.
Nessuno, nelle assemblee del movimento, lo dice apertamente.
Anzi, si afferma il contrario, ci si ripete in continuazione che siamo noi gli aggrediti, i malmenati, gli arrestati e anche questo è vero, in linea di massima.
Ma tutti sanno che senza confronto fisico il movimento non esisterebbe allo stesso modo, le cose che afferma non avrebbero la stessa forza, la stessa sostanza oppositiva, la stessa rilevanza politica.
Occorre che tra il movimento e il sistema si instauri una dialettica della violenza, una sequenza di botta e risposta, che porti lo scontro a vero compimento.
Alcuni tra i compagni più lucidi sanno che solo attraverso la violenza si svelano le intenzioni dello Stato e dicono apertamente che è con il passaggio attraverso una o più fasi repressive che il movimento può fare i salti di qualità sperati.
Ecco quali sono i salti di qualità:

– da movimento anti-autoritario, genericamente anti-sistema, a movimento politico di impronta comunista rivoluzionaria;

– dalla lotta alla proletarizzazione del tecnico, per la liberazione dei saperi, alla lotta per la rivoluzione proletaria;

– dall’università, come principale terreno di lotta, al territorio e principalmente alla fabbrica.

Tutto questo è riassumibile genericamente nella necessità di uscire dall’università per trovare collegamento e forza in altri soggetti sociali subalterni. Percepiamo l’università, la condizione di studenti, come un ghetto e un privilegio non-accettabili.

Se ci facciamo chiudere dentro questo recinto dove il paternalismo si respira come l’aria.
Se lasciamo che la vita e la società e le feroci contraddizioni del mondo vengano tenuti fuori da ciò che vi si insegna e da ciò di cui si parla, perché non rientrano nell’area accademica dei saperi autoritari e pre-confezionati dominanti.
Se lasciamo che l’istituzione universitaria ci modelli secondo gli standard di cui il capitale ha bisogno nell’attuale fase di ristrutturazione.
Se ci lasciamo ingabbiare nella filiera che produce i prevedibili tecnici proletarizzati di cui il sistema intende servirsi.
Insomma se consentiamo tutto questo, allora possiamo dirci non solo già finiti come movimento, ma già
morti come esseri umani.

Attorno a noi la società dei morti ci vuole, ci chiama, non intende lasciarci spazio, le occorriamo, siamo i futuri quadri di cui ha bisogno. Padri, professori e maestri, preti e politici, compreso il Partito Comunista, polizia e carabinieri e istituzioni varie, militari e non, insomma tutta la società, non intendono scherzare, né mollare di un centimetro la loro presa sulla nostra generazione. Tutto quello che otterremo, se otterremo qualcosa, dovremo strapparlo pezzo per pezzo.

Tra le molte differenze, i quadri dirigenti del movimento hanno in comune una basica visione marxista leninista, secondo la quale non c’è movimento rivoluzionario senza una classe sociale che abbia un interesse vitale a costruirlo e un’avanguardia che lo egemonizzi e lo conduca a buon fine attraverso le opportune alleanze.

Per gestire il salto di qualità della lotta sono già nate formazioni politiche esterne insofferenti dei limiti in cui finora si manifesta il movimento, ma che restano ancora saldamente collegate all’università come luogo principale di formazione delle coscienze politiche di base, dunque come luogo di produzione di quadri politici extra-parlamentari allo stato embrionale.
Molti esponenti e quadri intermedi gruppettari si impegnano a fondo nelle successive riprese del movimento nelle università, che non si placa mai del tutto sino all’esplosione del Settantasette.
Qui il movimento, dopo circa dieci anni di esistenza e molte metamorfosi, muore come una super-nova, consumandosi in breve tempo e in un’intensa ultima fiammata.

Dunque il terreno di lotta privilegiato è soprattutto fisico e spaziale: lo spazio universitario delle facoltà occupate, da un lato, quello della piazza dall’altro.
Dopo vari decenni, quelli che ancora ricorderemo saranno eventi di conflitto topico, contese per la conquista di estensioni spaziali che resteranno legate al nome dei luoghi dove accaddero, dove si fecero accadere: il fatti di Valle Giulia, la perdita e la riconquista della facoltà di Architettura, gli scontri di Piazza Cavour, della Facoltà di Lettere, eccetera.
Di tutto quel discutere parlare urlare bestemmiare insultare cantare scrivere leggere ciclostilare votare riflettere, eccetera, insomma di quell’immensa e complicata attività verbale sessantottesca, restano incisi, indelebilmente, nelle sequenze del movimento, nelle memorie personali, nella storia stessa delle città e dei luoghi, soprattutto i momenti di scontro fisico.
Sono anni di democrazia pre-mediatica, dove la comunicazione di massa non ha ancora messo a punto i suoi strumenti più micidiali. Ai media hanno accesso ancora poche persone, che non capiscono bene cosa succede: i primi mesi del Sessantotto sono una faccenda che si sbriga tra pochi studenti, la polizia, la
borghesia intellettuale delle città, i giornali, il ministero dell’interno. E basta.
Quelle che chiamiamo le masse operaie restano, ancora per un po’, estranee, diffidenti, inerti.
I sindacati sono attenti, ma ostili. E sempre lo saranno.

Stanno accadendo cose mai prima verificatesi, o almeno non presso di noi, figli di borghesia di città: ci scontriamo in piazza con polizia e carabinieri.
Rovesciamo automobili, dopo averle messe per traverso sulle strade, e le incendiamo.
Sono immobile e incredulo davanti a tutto questo.
Ho paura di fronte al sangue che vedo sulla faccia dei compagni, di fronte alla pistola che mi punta addosso un poliziotto uscito di testa: maledetti, vi ammazzo tutti, figli di puttana.
Mi fa paura la violenza dei compagni, ai quali non riesco mai a unirmi per davvero, cioè con anima e corpo. Forse è solo la paura di farmi male, come i ragazzi e le ragazze che vedo attorno a me, con la testa spaccata da un sampietrino, da un colpo di manganello, sdraiati a sanguinare sul selciato, la faccia bianca che sembrano morti.
I colpi secchi dei sassi sugli elmetti della pula, sui tetti e nei finestrini delle auto in sosta, le sirene, le nostre e le loro urla, gli insulti, le voci nei megafoni, gli squilli di tromba prima delle cariche, la paura di morire.
La fuga, per mettere chilometri di città compatta tra me e tutto questo.
Poi tornare indietro pentito, nell’odore forte della vernice e della gomma che bruciano, dei lacrimogeni.
Fumo bianco e nero, ovunque, i colpi e gli schiocchi emanati dal conflitto.

Perché sono qui? Che controllo ho su questa situazione? Perché non riesco a tenere a bada le emozioni? Perché a me tremano le gambe e a quelli là no? Siamo fatti della stessa materia? Siamo convinti delle stesse cose? Chi ha deciso che io oggi mi trovi qui in questo casino, così tanto più grande di me? Chi mi sta agendo? Chi si serve di me?

I compagni si spostano rapidamente, scappano da tutte le parti, i fazzoletti sulla faccia.
Vedo in fondo alla strada che alcuni di loro vengono presi e bastonati dalla polizia.
Poi li fanno salire sui cellulari.
Più in là si riformano gruppetti che svellono i sampietrini della cunetta, scelgono i più maneggevoli e li lanciano.
La polizia avanza lentamente ma senza esitare.
Allora di nuovo via di qui.
Di corsa.

(apparso su Le parole e le cose, 1 marzo 2018)

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