La nitidezza e il gorgo. Sulla «Frantumaglia» di Elena Ferrante di Mario Pezzella

 

  1. La frantumaglia1 di E. Ferrante rientra in un particolare genere letterario, il “falso diario”2, che non è un’autobiografia ingannevole che si spaccia per autentica, ma in certo senso il suo esatto contrario. Il lettore di un falso diario non sa mai con certezza se il racconto è biografico, si riferisce a una realtà o a una finzione. La scrittura, senza cedere di un millimetro, resta in sospeso tra l’immaginario e il reale. Non è che il lettore sia ingannato: egli è infatti sempre e sottilmente avvertito di un’oscillazione tra il documento e la fiction. Tenuto in bilico, viene coinvolto in un vortice identitario in cui non distingue più tra realtà e visione, sogno e materia. Nel disgregarsi delle identità precostituite emerge una verità dello scrittore, che è indifferente alla distinzione tra oggettivo e soggettivo: è il suo fantasma o il suo carattere intelligibile, la fantasia originaria che dà forma al suo mondo e scintilla nel gioco specchiale delle identità.

Perciò Ferrante può affermare da un lato che «nella finzione letteraria è necessario essere sinceri fino all’insostenibile» (75); e d’altra parte, bisogna «orchestrare menzogne che dicono sempre rigorosamente, la verità» (70), dire «bugie vere»; perché dietro il velo e la maschera si può avere la forza di superare ogni freno e autocensura. La finzione permette che oltre gli eventi emerga il fantasma o l’imago primaria che li plasma o conforma, riattiva una memoria associativa e involontaria che dice di noi e della situazione in cui ci troviamo ad esistere molto più dei ricordi volontari e inquadrati dell’Io.

Ferrante porta all’estremo questa strategia di scrittura: fantasma diviene l’autore stesso, coinvolto nell’incertezza del testo. Ferrante, come ben si sa, è un pseudonimo: forse all’inizio l’anonimato doveva servire a sottrarsi alla pressione dello spettacolo, ma col tempo è divenuta una strategia di marketing, lo spettacolo – come pensava Debord – è in grado di recuperare ogni intenzione dissidente. Come nel caso di Gomorra di Saviano, la considerazione dei testi deve risalire a controcorrente, oltre il clamore mediatico che ha trasformato l’autrice (o l’autore o gli autori) in un’icona spettrale. Nella società dello spettacolo la ricezione può deformare o rendere impossibile la lettura di opere, che perdono valore come una moneta inflazionata: così occorre una lettura a contrappelo per riscoprire l’intensità di brevi romanzi come L’amore molesto o La figlia oscura, oltre l’immagine – esaltata o detestata – dell’autrice.

Ferrante ha cercato, nella Frantumaglia, di trasformare l’autorialità in un ulteriore gioco di specchi o in una lanterna magica, in cui ogni lettore può proiettare una identità parziale: così «si diventa inestricabilmente parte della narrazione o dei versi, parte della finzione» (264). Il libro che dovrebbe rivelarci, se non il nome, particolari della vita e del lavoro della scrittrice è probabilmente quello in cui la finzione si infiltra in ogni piega: mettendo però a nudo il suo fantasma dominante e le sue ossessioni. Sarà vero che Ferrante è la figlia di una sarta napoletana, la cui attività viene descritta con una conoscenza quasi filologica dei termini dell’arte del cucire? O le pagine in cui avviene questo racconto supposto biografico sono una dilatazione e un’intensificazione della vita di Delia, la protagonista dell’Amore molesto, un’ulteriore sprofondare dell’autrice nella dinamica della narrazione? Nel libro si citano pagine espunte dai romanzi, ma lo sono davvero? O forse compongono una nuova autonoma narrazione, quella di una donna scrittrice che dialoga con i suoi personaggi. I pezzi espunti (o aggiunti) acquistano così una inedita fisionomia, che travalica quella dei romanzi veri e propri e raggiunge una propria, indipendente intensità.

 

  1. Qual è il Reale, il fondo oscuro, verso cui La frantumaglia ci costringe a volgere lo sguardo? «I personaggi a cui cerchi di dare vita sono solo strumenti con cui circuisci la cosa sfuggente, innominata, senza forma» (68). Innominata è la profondità del corpo materno, nella sua ambivalenza inquietante di generazione e divoramento. Le madri sono “vittime violente”, oggetto di sopraffazione, e agenti a loro volta di oppressione nei riguardi delle figlie, di cancellazione della loro identità. Le donne di Ferrante cercano di distinguersi da questa immensa potenza avvolgente e insieme di recuperare il contatto con essa; loro, infatti, molto più che gli uomini, sono trasognate da una vera e propria passione identitaria: da un ritrovamento precario di sé, intimamente minacciato di spezzarsi in un corpo in frammenti.

Delia (L’amore molesto) deve scendere fino al «recupero del corpo originario della madre in fondo agli inferi dello scantinato» (51). In cantine, luoghi bui, cavernosi, paludosi, scale che salgono o scendono verso fantasmi del mondo inferiore, si svolgono eventi decisivi dei romanzi di Ferrante. Sembra riassumerli tutti lo stanzino oscuro di cui si racconta nella Frantumaglia, dove l’io narrante si chiudeva – per autopunizione, per rabbia? – ogni volta che la madre usciva di casa, bellissima, per misteriosi appuntamenti (quasi un nuovo capitolo, con altra protagonista, dell’Amore molesto, una ripetizione con variazione): «Sono stanzini dall’interno dei quali l’ordine religioso o legale della città maschile appare una semplificazione, una recinzione per ricacciare in margine la folla eterogenea dei fantasmi» (115). Gli uomini – che preferiscono governare i territori del giorno e della razionalità – si ritraggono dagli spettri mitici e arcaici con cui le donne «hanno una lunga pratica di trattative segrete estenuanti» (115). Ferrante si confronta con l’imago primordiale della Grande Madre incessante, col suo volto benefico e con quello dissolvente, con Lei che dà forma alla vita e Lei che annienta ogni forma. L’esistenza sotterranea del mito femminile arcaico scorre sotto la superficie della modernità. L’ambientazione moderna mostra crepe avvertibili, da cui trapela l’antico profilo di situazioni remote, come quella di Antigone, delle Amazzoni o di Didone.

Ferrante racconta miti in veste moderna, il tessuto favoloso e tragico che continua a insistere sulla modernità, anche se la ragione illuminista maschile ne nega l’esistenza; i fantasmi e i demoni divengono figure e patologie dell’inconscio, dove continuano a manifestare la propria potenza «tra i borbottii rissosi o terrorizzati dentro le caverne, tra le divinità femminili ricacciate nel buio della terra» (102)3.

C’è un lungo passo espunto dai Giorni dell’abbandono e riportato nella Frantumaglia, in effetti un breve racconto autonomo, in cui la protagonista Olga sogna «di lasciare di notte tutta la famiglia e andare a vivere con gli zingari dagli occhi bui» (122) e cioè in quel mondo premoderno, sepolto e corporale in cui le divinità femminili sono ancora presenti. Le donne “moderne” di Ferrante patiscono tutte di questo confronto col mito e come Arianna nel labirinto cercano di uscirne esistenti. Ma non è facile: «Non riescono a cacciar via dalla vita femminile l’amore molesto per l’imago materna, unico amore-conflitto che dura in ogni caso per sempre» (131). La cosa più straziante è «apparire brutta alla propria madre», come accade alla figlia Berthe con Emma Bovary. Un vapore erotico circonda il corpo materno e da esso proviene ogni possibilità di amare davvero, ma esso esige anche un confronto non rassicurante, esposto alla frammentazione, con la passione della carne: bisogna raccontare il modo in cui «una donna si avvicina, per necessità di cura, per amore, al repellente della carne, a quelle aree dove la mediazione della parola si fa debole» (214), in bilico continuamente tra il pericolo e la possibilità di salvezza4.

 

  1. Un corpo che corre il rischio di spezzarsi in frammenti e pure cerca ricomporre nel pericolo un filo di forma è la trama della “smarginatura”, di cui soffre Lila, la protagonista dell’Amica geniale, ed è la sostanza profonda della frantumaglia. Non a caso il termine viene attribuito alla madre dell’io narrante e rimanda «a una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un’acqua limacciosa del cervello» (94). Non è uno stato primitivo o infantile che poi si superi nella vita adulta; l’accompagna come un gorgo parallelo, che periodicamente si riaffaccia, è il suo Altro perturbante: «La frantumaglia è un paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’Io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità» (95). Nella Figlia oscura, questo fondale osceno e inquietante si incarna nella bambola – piena di residui, di liquidi, di gorgoglii – che Leda ruba alla bambina sulla spiaggia, e diventa progressivamente da corpo estraneo corpo proprio ossessivo, fino a condurla all’intimo innominabile e all’implosione della sua vita. La figlia oscura è da questo punto di vista il rovescio negativo dell’Amore molesto, il romanzo in cui Delia riesce a riemergere dalla frantumaglia, a recuperare parola dopo aver attraversato l’assenza di forma. Il tempo lineare è sospeso, quando si spande la frantumaglia, «senza l’ordine di una storia, di un racconto» (95). Non poter raccontare è per Ferrante un estremo negativo dell’esperienza. O il racconto è possibile o si rischia la frantumazione e la follia. Ma la percezione della frantumaglia paradossalmente permette anche che una storia si dia, diventi necessaria, urgente come una richiesta di salvezza, perché destruttura le armature codificate e irrigidite dell’Io: «I racconti si nutrono di questa frantumaglia che cova sotto un’apparenza unitaria e che costituisce una sorta di disordine di partenza, di opacità da illuminare» (312). La frantumaglia è anche il legame del nostro corpo col mondo dei morti, con coloro che ci hanno preceduto o ci sono accanto, con i non ancora nati che da noi seguiranno. È «la ressa degli altri», che intrica e implica identità multiple e che il raccontare cerca di sdipanare.

Questa esperienza si incarna in personaggi femminili, quanto più – a contrario – l’Io diurno ha connotati maschili, eroici, patriarcali, che però sono ormai ridotti a sovranità grottesca e berlusconiana: l’Io eroico può uccidere mostri, ma solo Arianna può condurre fuori dal labirinto della frantumaglia, con un sapere sottile che conduce alla salvezza. Ferrante racconta più volte – è il suo tema elettivo – un «io femminile che all’improvviso si percepisce in destrutturazione, smarrisce il tempo, non si sente più in ordine, si avverte come un vortice di detriti, un turbinio di pensieri-parole», e di questo essere femminile fa parte in modo privilegiato la «frantumazione originaria che è mettere al mondo-venire al mondo» (215). Le protagoniste di Ferrante non vogliono rimanere vittime di questa esperienza: e tentano di uscirne con tutte le risorse della parola, dello stile e perfino della vieta convenzione. Non sempre ci riescono, ma in questa ricerca mettono in gioco la propria vita: «Lo smarginarsi delle forme è un affacciarsi sul tremendo» (363)5.

 

  1. Sporgersi sulla frantumaglia e poi tornare alla parola-pensiero è l’esperienza fondamentale di questa scrittrice; a ciò corrisponde il suo stile, sospeso in una polarità corrispondente, fra nitidezza e gorgo, descrizione e convulsione: «Nitidezza dei fatti e bassa reattività emotiva alternate a una sorta di tempesta del sangue, di scrittura convulsa» (82). C’è «un andamento che ordina eventi» e poi – all’altro estremo – «una scrittura delle emozioni che sia sonorità del respiro» (102). La nitidezza dei fatti richiede uno stile naturalistico-realistico, ma non solo: anche la ripresa di convenzioni letterarie, che il modernismo novecentesco ha reso desuete e Ferrante utilizza come già fece Elsa Morante in Menzogna e sortilegio o nella Storia. Sono quelli che lei chiama i «bassi fondali», e di cui non fa parte soltanto il V. Hugo dei Miserabili, letto – dice la scrittrice – un’infinità di volte (304), ma proprio anche la letteratura popolare di quart’ordine, le storiacce dei fotoromanzi.

Naturalmente non si tratta di una ripresa ingenua, almeno dove l’alternanza stilistica funziona davvero. Il suo modello potrebbe essere il modo in cui Benjamin ha evocato le immagini di sogno dell’Ottocento francese oppure le citazioni dai generi hollywoodiani da parte dei registi della Nouvelle Vague: l’immaginario collettivo emerge e viene esposto per farne oggetto di conoscenza. Ferrante utilizza gli stereotipi, ordina intorno ad essi fatti e colpi di scena e poi li sottopone al “secondo momento”, alla smarginatura, che fa colare in liquami o esplodere in polvere i fantasmi a cui ci eravamo affidati: come se una M.me Bovary scrittrice divenisse consapevole che i romanzi gotici delle sue fantasie sono sogni labili. Si tratta di cogliere il momento giusto «in cui potrò sostituire la serie di anelli ben levigati, che quasi non fanno rumore, con una serie rugginosa, stridente… a rischio crescente di cedimento assoluto» (259). Naturalismo alla Zola, convenzione nazional-popolare alla Hugo, si sfaldano in una novecentesca frantumaglia di sconnessioni, che mette a nudo la «menzogna romantica e la verità romanzesca»6. Quando il dosaggio fra «stereotipia e smarginatura» (358) riesce, Ferrante scrive dei brevi romanzi perfetti, come L’amore molesto e ancor più La figlia oscura, o anche il capitolo La frantumaglia, in cui il gioco è più sperimentale e scoperto ma non perde nulla della sua intensità. Nell’ Amica geniale il passaggio dallo stereotipo al vortice è più precario: sempre riuscito quando entra in scena Lina, stentato altrove, per esempio quando in primo piano è Nino Sarratore, il «bello e impossibile», che stereotipo nasce e tale rimane, privo di ogni sfumatura e di ogni ombra, vilain puro dal principio alla fine: leader sessantottino narcisista e risentito, socialista all’epoca di Tangentopoli, infine berlusconiano7.

Gli uomini sono rozzi o avidi, narcisisti o elementari nelle loro reazioni affettive. Le donne sono più intelligenti e appassionate, ma anche capaci di reciproche perfidie e tradimenti, a cominciare dal rapporto madre-figlia. Alcune riescono a superare lo stadio distruttivo dell’invidia e dell’odio mimetico, come Delia; altre vi rimangono invischiate fino alla fine come la Leda della Figlia oscura. L’universo di Ferrante è cupo e difficile ma non è detto che non ci sia speranza di salvezza, se si riesce a conquistare parola per il fondo oscuro del reale.

Se i personaggi maschili della scrittrice appaiono irrimediabilmente incrinati, non è che il femminile mostri un’irenica bontà e conciliazione. Gli scrittori studiati da Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca hanno rivelato i meandri dell’invidia mimetica e della passione identitaria maschili: Ferrante scruta le oscure ambivalenze dell’amicizia-rivalità femminile. Tra madre e figlia sussiste un’identificazione che si alterna con l’ostilità e la necessità di distacco; come le figure in cui si incarna l’Io ideale di Lacan nello stadio dello specchio, l’oggetto dell’identificazione è insieme adorato e infranto. In un certo senso, la sua esistenza è indispensabile affinché la mia prenda forma, ma allo stesso tempo mi è intollerabile, perché mi riduce a un passivo riflesso dell’altro. Queste passioni dell’immaginario sono un fondo oscuro, che incrina le amicizie femminili descritte da Ferrante.

 

  1. La smarginatura di cui soffre Lina ne L’amica geniale non è solo una sua patologia individuale; nelle pagine sul terremoto di Napoli diventa trauma storico collettivo, fino a quella condizione di spaesamento che E. De Martino definì crisi della presenza: «Non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte…e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea… Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos’è il mondo vero… Se non badava ai margini tutto se ne andava via in grumi sanguigni di mestruo, in polipi sarcomatosi, in pezzi di fibra giallastra»8. La reazione patologica individuale, il gorgo personale dell’angoscia di Lina sono connessi alla nitidezza di un fatto, di un disastro sociale, che resta impresso nella memoria e modifica la percezione del mondo: il terremoto «con quel suo frantumare infinito. Ci entrò dentro le ossa. Cacciò via la consuetudine della stabilità e della solidità, la certezza che ogni attimo sarebbe stato identico a quello precedente, la familiarità dei suoni e dei gesti, la loro sicura riconoscibilità. Subentrò il sospetto verso ogni rassicurazione, la tendenza a credere a ogni profezia di sventura, un’attenzione angosciata ai segni della friabilità del mondo»9. Ma il dilagare della frantumaglia non si limita a questo singolo evento traumatico: nei romanzi di Ferrante si estende alla storia collettiva, sia pure mai posta in primo piano, eppure contenuta come un costante rumore di fondo; nella smarginatura della sconfitta e della droga si concludono gli anni settanta, nella smarginatura si incrinano i primi due decenni di questo secolo, nella smarginatura si esalta e si consuma l’ipermodernità del capitale attuale10. Se Bauman ha potuto parlare di una modernità liquida in cui le identità trapassano le une nelle altre, questa inconsistenza si accentua ora fino al terrore di perdere lo stesso contorno delle cose, come nello sfarinamento delle torri gemelle, o nell’omicidio di massa del Bataclan. La smarginatura è la tonalità affettiva esistenziale dominante del nostro presente: anche se ricoperta disperatamente di finzioni, che illudono di permanenza. È la consumazione estrema della materia, delle anime, della natura e della terra, operata dalla macina del capitale e dal suo demone attivo di astrazione totale. «Un’attenzione angosciata ai segni della friabilità del mondo» si alterna così a un iridescente spettacolo di distrazioni, a una realtà virtuale che dovrebbe sostituire quella materiale, in via di sparizione. È una realtà simile a quella di Cosmopolis di De Lillo o a quella dei racconti di Carver che hanno ispirato America oggi di Altman, nell’implosione vertiginosa del quotidiano, nella scoperta del tragico entro la banalità degli stereotipi.

 

  1. Napoli è lo fondo onnipresente della scrittura di Ferrante, con tutto il suo significato simbolico ed emotivo. È il luogo dell’infanzia e della madre, ma anche di un’esistenza continuamente esposta alla smarginatura violenta, lacerata tra lo spazio aperto del Golfo (quello che ne L’amica geniale si vede da via Tasso) e i luoghi inferi dei vicoli senza luce o delle divinità sotterranee. Ferrante per esplorarla si sceglie una guida lontanissima da ogni retorica folcloristica e da ogni napolitudine compiacente: Walter Benjamin e il suo sguardo sulla Berlino scomparsa della sua infanzia, «sguardo straordinario di globi oculari che sono pupilla in tutta la loro superficie sferica e perciò vedono non l’avanti soltanto, non soltanto il fuori, non il dopo che si prepara, ma vedono avanti-indietro, il dentro-fuori, il dopo-nell’allora-adesso» (134). Anche Benjamin aveva la sensazione che nella sua città si aprissero d’improvviso oscuri antri magici, grotte delle Madri e forse, chi sa, apparissero Arianne salvifiche: bisogna saper perdersi in una città come in un labirinto, alla ricerca dei suoi strati profondi dimenticati, ma anche riuscire a dare forma allo smarrimento. A Napoli ritrovare l’orientamento è difficile, per l’imminente sensazione di rischio che l’autrice confessa di aver provato girando da bambina per le sue strade, «luogo di scomposizione, di disarticolazione» (61), esperienza originaria di quella frantumaglia, che poi si espande a dimensione generale dell’esistenza. Napoli è «la forza oscura del mondo che grava sui soggetti» (61), ma è anche l’unico luogo in cui la Delia dell’Amore molesto può ritrovare il filo della sua affettività e ricostruire a se stessa una storia della propria vita.

La Napoli di Ferrante è dominata dalla presenza di una plebe, che non è quella immediata e amorfa, presente – tra gli altri – nella scrittura di Ortese o di Compagnone: ne porta ancora i gesti, i caratteri, le ferite e i silenzi, ma è come tracimata da un disperato bisogno di ascesa, che la porti dalla nuda vita della miseria almeno a una mediocre agiatezza piccolo-borghese, componendo un ibrido incerto di antica violenza e del linguaggio deformato della modernità. Si tratta in effetti di una mezza modernità11, anche sul piano linguistico, in cui il premoderno e i simboli del capitale nelle sue forme più recenti si alternano in modo caotico.

Il “rione” de L’amica geniale, ma anche i quartieri in cui Delia si addentra alla ricerca di se stessa, e perfino la spiaggia in cui Leda incontra la famiglia dei camorristi napoletani nella Figlia oscura, sono luoghi in cui si afferma a pezzi e bocconi la contaminazione della mezza modernità, che non salva e non redime, ma conferma in fondo la subalternità della plebe. Il sottoproletario di un tempo riesce al massimo a diventare – come il capitalismo attuale richiede – un estremo e magari criminale imprenditore di se stesso. La plebe non è “orda umana”, come quella descritta da Malaparte, ma «gente comune che non ha soldi e ne cerca, che è subalterna e insieme violenta, che non ha il privilegio immateriale della buona cultura» (360). Anche la sua lingua oscilla tra nitidezza e gorgo, tra un italiano più o meno conquistato e la “marea dialettale”, in cui rischia di affondare nei momenti di sopraffazione e di violenza emotiva. Il dialetto è «la lingua delle ossessioni e delle violenze dell’infanzia» (31).

Per questa plebe mezza-moderna, ibrida e inquietante, comunque asservita, non c’è mai in Ferrante disprezzo e odio, se mai paura e ritrazione: alla sua vita offesa ha cercato tuttavia di dare parola, traducendone i gesti e le voci. Della protagonista-autrice immaginaria della Frantumaglia resta nella memoria il tormento di una donna che proviene dalla plebe per accedere alla parola e uscire dalla condizione priva di voce dei «senza parte»12, ribellandosi alla mezza modernità13.

 

Nota 1. Nei romanzi di Ferrante la figura paterna è in via di sparizione. Ci sono naturalmente padri fisiologici, ma la paternità psichica si è ridotta a una caricatura, la sua autorità a una sovranità grottesca14. L’universo descritto da Ferrante è dominato da quella che Recalcati ha definito evaporazione del padre, dalla scomparsa di ogni forma positiva di paternità. Ciò non resta senza conseguenze: una figura paterna amorevole, autorevole e non oppressiva avrebbe un ruolo importante nello sviluppo infantile e nello stesso rapporto con la madre, intensamente ambivalente. Secondo M. Klein, l’amore per il seno materno coesiste con un distruttivo sentimento di invidia, che porta a una eccessiva idealizzazione dell’oggetto di cui si patisce la mancanza; l’oggetto idealizzato non è la stessa cosa dell’oggetto buono: «I bambini che hanno una grande capacità di amare non sentono il bisogno di idealizzazione quanto quelli che hanno un’enorme quantità di impulsi distruttivi e di angosce persecutorie»15. L’idealizzazione eccessiva della madre è associata spesso alla paura che ella possa distruggere e sottrarre il nutrimento: «L’avidità è un fattore importante in queste identificazioni indiscriminate perché la necessità di avere sempre il massimo impedisce di fare una selezione e una discriminazione»16. I sostituti idealizzati della madre presto decadono dal loro piedistallo, «l’oggetto amato deve essere sostituito spesso, perché nessun oggetto può soddisfare pienamente l’aspettativa»17 e tutti sono in realtà feticci provvisori, destinati a riempire il vuoto lasciato dall’invidia per il seno materno. Il passaggio dall’invidia alla gratitudine caratterizza tutto il percorso terapeutico, indicato da M. Klein.

Nella vita infantile sarebbe importante la figura del padre benevolo. Se nel corso del complesso edipico precoce la figura del padre diviene a sua volta oggetto d’amore o svolge la sua funzione di ideale dell’Io (e sia pure in un passaggio non facile dall’invidia primaria alla gelosia edipica) allora il bambino può separarsi dall’amore-odio fusionale con la madre e recuperare con lei un rapporto di gratitudine; cioè di amore e differenza insieme. Se invece il padre è brutale o assente, o al contrario è un puro paredro della madre e viene percepito come sua appendice ininfluente, allora invece che l’amore per il padre, la bambina prova ancor più invidia «nei confronti della madre per il suo possesso del padre e del pene»18. Il padre evaporante non riesce ad affermarsi come oggetto d’amore autonomo e neanche a proporre un ideale dell’Io: «Diventa un’appendice della madre e per questa ragione la bambina desidera portarlo via alla madre. In futuro, quindi, ogni successo nei suoi rapporti con uomini, diventerà una vittoria riportata su un’altra donna»19. Si tratta di una relazione di invidia mimetica, simile a quella che Girard ha studiato per gli uomini, in cui l’oggetto d’amore apparente (dell’altro sesso) è in realtà solo il pretesto per la lotta identitaria che si scatena tra due simili (e – nel caso descritto da M. Klein e nelle amicizie femminili della Ferrante – tra due amiche). Il terzo è qui sempre un incomodo e un escluso, che però serve ad attivare la rivalità mimetica dei due effettivi protagonisti. Una variante di questa situazione è un’inimicizia patologica, la cui verità sta nell’inverso di ciò che appare: ti odio perché sei il mio Io ideale, mi schiacci nel mio non essere che è ombra di te e posso respirare solo distruggendoti, come avviene nei Duellanti, il film di Ridley Scott.

Considerando tutto questo è evidente che in una situazione psichica e sociale, in cui il padre è quasi totalmente evaporato ed è divenuto improponibile come oggetto d’amore, può dilagare senza alcun argine la violenza e l’invidia mimetica20. Affrontare le quali diventa il compito difficile e talvolta proibitivo delle protagoniste dei romanzi di Ferrante. Se dall’oppressione del mondo diurno maschile si passa all’estremo opposto del suo effettivo imputridire, la smarginatura e la frantumaglia affiorano in un magma palustre indistinto come quello che Bachofen ebbe a definire «eterico» e di cui Benjamin scorgeva i tratti nei romanzi di Kafka.

Nota 2. Il passaggio dalla nitidezza al gorgo è stato più volte descritto dalla letteratura e dalla psicanalisi – nel caso della psicologia maschile – come un precipitare dall’altezza di un Io ideale eroico nella disgregazione e nel senza forma: una discesa al mostruoso. Questa caduta dall’alto dipende dal legame ambivalente col corpo materno. La migliore descrizione psicologica della diade dell’Eroe e della Madre l’ha data C. G. Jung, in Simboli della trasformazione: «Al mattino della vita, il figlio si stacca a fatica dalla madre e dal focolare domestico, per elevarsi lottando sino all’altezza destinatagli, credendo spesso di avere dinanzi a sé il suo peggior nemico mentre lo alberga dentro di sé: l’anelito pericoloso di inabissarsi in se stesso, di annegare nella propria sorgente, d’essere tratto giù nel regno delle Madri. La sua vita è una continua lotta contro lo spettro dell’annientamento, una violenta eppur effimera liberazione dalle tenebre della notte perennemente in agguato»21.

Va detto poi che lo stesso Jung oppone la storia a contrappelo dell’alchimia a questo sviluppo unilaterale dello spirito patriarcale: la coniunctio tra il sole e la luna, l’integrazione piena – come figura sacra – della componente femminile dell’essere dovrebbe portare a un femminile-maschile o a un maschile-femminile, in una forma inedita della soggettività. Questo “dio a venire” è prefigurato nell’alchimia dall’immagine dell’androgino, che non rappresenta solo e necessariamente una bisessualità fisiologica, ma più generalmente quella psichica, che comprende – nella donna – un animus maschile e – nell’uomo – un’anima femminile.

La fenomenologia dell’Io eroico maschile è diversa da quella femminile, benché abbia ovviamente origine nella stessa costellazione familiare. Se il pericolo maggiore è nel primo caso quello di consacrarsi a una ascesa eroica, nell’impossibile tentativo di strapparsi al corpo della madre, senza creare un rapporto di gratitudine col suo aspetto generativo e benevolo, nel caso del femminile è quello di rimanere identificata con lei, percepita come la fonte di ogni perfezione e beatitudine. Un certo grado di distacco è qui necessario, per non essere schiacciate dall’incanto idealizzato dell’imago materna (che rischia di capovolgersi in ostilità primordiale) e ritrovare con essa un rapporto di conciliata differenza. Non si tratta di passare dal mondo delle Madri all’Io eroico dominatore maschile, ma di stendere una tessitura non violenta dell’essere e delle relazioni; di dare forma distinta a una femminilità altrimenti a rischio di permanere nel fondo indeterminato dell’origine. Se Teseo è capace solo di usare la spada, Arianna è sapiente del filo che permette di orientarsi con cautela e attenzione nel labirinto. Il diventare donna della figlia, e il ritrovare la donna nella madre, le consente di riconciliarsi con lei (e non l’imitazione dell’“ascesa” lacerante dell’io maschile). Da questo punto di vista L’amore molesto è il romanzo di Ferrante, in cui maggiormente affiora la speranza: altre figure femminili non riescono invece a operare questa sartoria dell’anima e, come Leda nella Figlia oscura, restano intricate in una maternità che non accettano22 (ciò non toglie che – nel descrivere questo abisso di dolore – Ferrante abbia scritto forse la sua opera più perfetta, dando voce a qualcosa di finora inespresso).

 

1 Roma, Edizioni e/o, 2016. D’ora innanzi citato con numero di pagina tra parentesi in corpo testo.

2 Riprendo il termine dal titolo di un romanzo di R. Genovese, Cuba, falso diario, ora in L’altro Occidente. Dall’Avana a Buenos Aires, Roma, Manifestolibri, 2014.

3 La «scopa sui piedi» è un’immagine emblematica della frantumaglia, un resto di sapere magico: «Vedrai, se qualcuno ti passa la scopa sui piedi non ti sposi più. E se non ti sposi più, ecco che succede. Come per darmi una dimostrazione, cominciò a spazzarsi i piedi con accanimento. Mi accorsi disgustata che quel movimento glieli sbriciolava» (101). Ancor più terribile è questo gesto se è la madre (come accade nella Storia del nuovo cognome) a compierlo nei confronti della figlia, che è afferrata da un furore di invidia mimetica: «A un certo punto Melina passò del tutto casualmente la scopa sui piedi della figlia… Ada vide in un lampo il suo futuro. Fece un balzo indietro come se fosse stata sfiorata da uno scarafaggio» ( E. Ferrante, Storia del nuovo cognome. L’amica geniale, Roma, e/o, 2012, p. 415).

4 «Cercando la madre o misurandosi con l’essere madri a loro volta, Delia, Olga e le altre donne-personaggio messe al mondo da Ferrante ritrovano se stesse. Certo, i percorsi che faticosamente compiono di rado le portano alla felicità, ma assicurano loro, sempre, una nuova e piena coscienza di sé. Capiscono chi sono, o meglio chi possono essere a partire dalla radice materna». Così dice Lucia Cardone dei personaggi femminili di Elena Ferrante, cfr. «Sensibili differenze. L’amore molesto da Ferrante a Martone», in Filmare il femminismo. Studi sulle donne nel cinema e nei media, Pisa, ETS, 2015, p. 97.

5 Un termine che compare nello Hölderlin degli ultimi inni.

6 È il titolo del libro di R. Girard, Milano, Bompiani, 2002.

7 Non che personaggi del genere non siano esistiti davvero, tutt’altro! Ne abbiamo sotto gli occhi gli esempi viventi. Ma nel romanzo vediamo i solo i “fatti”, i comportamenti esterni di Nino, nulla sappiamo delle sue motivazioni interiori, per quanto sordide.

8 E. Ferrante, La bambina perduta, p. 162.

9 Ivi, p. 158.

10 «Volevo che il tempo storico fosse tutto uno sfondo di scarsissima definizione e tuttavia emergesse dai cambiamenti che investivano le loro vite».

11 È un termine usato da R. La Capria, in un suo intervento su Pasolini.

12 Termine usato da J. Rancière per definire gli esclusi dal logos e dal diritto.

13 «Lila era plebe ma rifiutava ogni redenzione», si dice quasi alla fine della Bambina perduta.

14 La sovranità grottesca è stata così descritta da Foucault in un suo corso al Collège de France, Gli anormali (Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 21-22): «Chiamerò grottesco un discorso o un individuo che detengono per statuto degli effetti di potere di cui, per la loro qualità intrinseca, dovrebbero essere privati.[…] Il potere politico […] può darsi, si è effettivamente dato la possibilità di far trasmettere i suoi effetti e, ancor più di trovarne l’origine, in un recesso che è manifestamente, esplicitamente, volontariamente squalificato dall’odioso, dall’infame, dal ridicolo».

15 M. Klein, Invidia e gratitudine, Firenze, Martinelli, 1957, p. 39.

16 Ivi, p. 40.

17 Ibidem.

18 Ivi, p. 53.

19 Ibidem.

20 Le cause di questo fenomeno, che qui non è possibile approfondire, risalgono ai profondi mutamenti del capitalismo contemporaneo e al suo intensificato processo di astrazione e spettacolarizzazione della vita. Le istanze individuali sono sempre più sostituite da istanze immediatamente collettive. Uno dei primi a rendersi conto di tale mutamento e dei suoi effetti sulla figura del padre è stato Adorno nei Minima Moralia.

21 Simboli della trasformazione, Torino, Boringhieri, 1970, p. 347.

22 Dipende da come si interpreta il finale; nella Frantumaglia Ferrante ne dà una lettura più positiva, a me – stando al testo – la storia sembra finire tragicamente.

(17 gennaio 2018 pubblicato da Il Ponte)

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