Il mio 68: rotture, traumi e fili rossi di Lidia Goldoni

 

Una breve presentazione
Sono nata a Modena nel 1955, dove ho frequentato le scuole dell’obbligo, poi, dopo esperienze varie di vita e di lavoro, mi sono laureata in pedagogia a Parma. La “vocazione” di insegnante è arrivata tardi per scelta personale. Infatti, fino all’età di 30 anni non ritenevo di aver nulla da dire alle future generazioni, e quindi neanche nulla da insegnare. Sono insegnante di scuola primaria dal 1991.

Prima del sessantotto
Autunno 1961, primo giorno di scuola, accompagnata dalla mamma (per l’unica volta, poi sarei andata da sola), le ultime raccomandazioni per vedere se mi ricordavo dove e quando ero nata, poi eccomi in classe, con altre 24 bambine (e nessun bambino). La maestra era vecchia, arcigna e anaffettiva. In aula regnava il silenzio, interrotto solo dalla voce della maestra e da qualche sussurro. Una volta che mi sono persa a chiacchierare ho ricevuto uno scappellotto che non mi scorderò mai più, per l’umiliazione subita.

Ogni mattina, prima di cominciare le lezioni, si dovevano recitare cinque preghiere in piedi dietro il banco. Io stavo in piedi a bocca chiusa, perché la mia famiglia non era cattolica e perciò non pregavo, questo provocava la reazione indispettita della maestra e le sue occhiate minacciose, cosa che mi metteva a disagio e mi intimoriva, ma che non servì a farmi desistere dalle mie convinzioni. Per il resto, era una bravissima maestra e ci insegnò l’italiano in modo eccellente. La matematica era una materia di serie b e non prevedeva spiegazioni, o la capivi o eri un somaro. Le altre materie non esistevano. Scrivevamo con la penna, il pennino e il calamaio con l’inchiostro, non uscivamo mai in cortile a giocare, l’intervallo voleva dire fare merenda sedute e andare in bagno, dieci, quindici minuti, poi di nuovo lezione. L’unica volta che siamo uscite in cortile fu in quinta, il giorno dedicato alla festa degli alberi, dove assistemmo alla cerimonia per i quattro giovani tigli che erano stati piantati in giardino.

Scuola media dopo la riforma, selettiva nella costituzione dei corsi, formativa e “democratica” in apparenza, di altissimo livello didattico e con professori di grande professionalità (almeno nella mia città e scuola). L’anno 1968 mi sorprese tredicenne con grande curiosità e attrazione per quel manipolo di studenti che, di fronte alle finestre della mia aula, sfilavano e manifestavano davanti al Liceo Scientifico. Ero sensibile alla politica per averla respirata in casa mia (i miei genitori erano entrambi attivisti di un partito). Sulla bocca di alcuni professori tornava spesso l’espressione “la riforma della scuola non è finita…”. Con l’insegnante di religione si parlava di tutto e di niente. Il latino, che avevo scelto come materia opzionale, mi appassionava molto di più.

Anno Domini 1968
Bisognava scegliere la scuola superiore. I professori avevano detto a mio padre che potevo fare quello che volevo, il che significa tutto e niente. Infatti, primo, non sapevo quello che volevo, secondo, non c’era stato alcun orientamento per noi alunni e per le famiglie sui possibili percorsi successivi alla scuola media. Mio padre (con una saggezza quasi profetica) pensò che l’Istituto Magistrale potesse fare al caso mio.

La situazione però alle Magistrali era piuttosto movimentata: ricordo l’impressione che mi fecero gli studenti dell’ultimo anno con i banchetti dei libri usati davanti all’ingresso, capelli lunghi e jeans a campana, le ragazze in minigonna e sigaretta e, cosa ancor più scandalosa, in jeans pure loro. La cosa mi piacque tanto che adottai quella tenuta, jeans e giacca blu di velluto, praticamente per tutto il primo anno, con la variante dell’eskimo in inverno, con l’immancabile tascapane come accessorio.

Un episodio che rese memorabile quell’anno scolastico fu che uno studente del terzo anno, durante una giornata di sciopero e occupazione, scaraventò giù dalla finestra un banco, cosa che gli procurò un sacco di guai e una “espulsione da tutte le Scuole del Regno” per un anno intero. La nostra scuola finì sul giornale e noi ne fummo onorati.

Secondo anno, la mia classe era composta tutta di femmine, i maschi erano pochi e ambiti alle Magistrali. Noi ragazze dovevamo indossare il grembiule nero, rigorosamente abbottonato, i ragazzi invece no. Ricordo però che occhieggiavano attraverso gli ultimi bottoni lasciati aperti dalle ragazze con nonchalance.

Tutti i giorni, davanti all’ingresso della scuola, c’erano studenti che distribuivano volantini per indire assemblee, scioperi od occupazioni. Gli argomenti di contestazione erano: l’autoritarismo e il paternalismo dei professori, il nozionismo della scuola, la sua chiusura verso il mondo, la necessità di essere ascoltati e coinvolti negli argomenti di studio, il collegamento studenti e operai, che stavano scioperando per i loro diritti e per un rinnovamento dell’intera società.

I professori erano intimoriti e si erano irrigiditi su posizioni reazionarie, tranne qualche raro esempio di professore “democratico”, che dialogava con noi studenti ed era amatissimo. Di solito, dopo uno sciopero o un’assemblea, chi aveva aderito doveva aspettarsi un’interrogazione. Se aveva aderito l’intera classe, un compito in classe punitivo.

Terzo anno, ormai ero diventata una militante del movimento studentesco. Il ragazzo che era stato espulso rientrò a scuola e ricominciò l’impegno politico, ma con maggiore consapevolezza e prudenza. La vita scolastica era passata in secondo piano rispetto agli eventi esterni, che andavano dal volantinaggio davanti alle fabbriche per coinvolgere gli operai nelle rivendicazioni studentesche, alle riunioni nelle sedi degli “extraparlamentari”. Spuntavano come funghi comitati, centri, gruppuscoli e nuove formazioni politiche. Si parlava di tutto, avevamo idee su come avrebbe dovuto andare il mondo, solo che non avevamo il potere di farlo. La lotta diventò lotta per il potere, rivoluzione. “Noi” eravamo i “buoni”, gli “altri” erano i “cattivi”.

Erano gli anni in cui professori emancipati ci accoglievano nelle loro case e dissertavano con noi dei massimi sistemi, ma non sapevano cuocere un uovo sodo. Erano disponibili con noi perché amavano circondarsi di seguaci, alla maniera dei grandi maestri, ma ci vendevano illusioni. I veri “grandi” per me erano quelli che si mettevano in gioco personalmente e pagavano per i loro ideali, a volte con il carcere, a volte con la vita: Che Guevara, Gramsci, Mandela, Gandhi… Non amavo le mezze misure. Quegli intellettuali anemici mi stancarono presto. Cercavo una passione radicale, un impegno totale. Leggevo Freud, Jung e Marcuse, W. Reich e la sua rivoluzione sessuale, i libri di testo scolastici (Promessi Sposi, Divina Commedia ecc.) non li toccavo neanche (peccato… ho dovuto recuperare dopo). Vedevo la scuola come irrimediabilmente inutile e scollegata alla vita, mi stavo preparando alla rivoluzione personale. Il 17 maggio dello stesso anno fu assassinato il commissario Calabresi.

Ultimo anno di scuola superiore, erano i tempi dell’austerity, nei giorni di festa si andava solo a piedi e in bicicletta, ma tra di noi era già molto avere un motorino a presa diretta. Intanto la compagine dei gruppi politici si stava dimostrando molto fragile, era un continuo fare e disfare, ma soprattutto ciò che mi deluse fu la constatazione che anche al loro interno vigeva una invisibile ma ferrea gerarchia: chi parlava meglio e con la voce più alta era il leader, poi c’erano i gregari, mentre le donne erano chiamate: “la compagna di…”. Partecipai a una riunione di femministe (la prima e l’ultima) in cui ragazze emancipate imitavano lo stile maschile di comando. Circolavano sostanze di ogni genere e molti dei miei amici lasciavano la politica per darsi all’esplorazione di realtà psichedeliche e di mondi alternativi. Arrivavano notizie di alcuni che andavano a imparare la guerriglia per poi passare alla lotta armata. Cominciavo ad accorgermi che i “cattivi” non erano solo fuori, ma anche dentro. Anche dentro di me. Piano piano scivolai in una lunga e profonda crisi depressiva. Lasciai la scuola e gli amici e per lunghi mesi provarono a guarirmi. Le mie compagne di scuola non mi capivano, da una parte mi invidiavano perché facevo quello che volevo, dall’altra credevano che la mia crisi fosse un capriccio. Il mio ragazzo non si dimostrò all’altezza della situazione e provò a trovare gratificazione altrove.

Al termine di quei giorni, più consapevole e più sola di prima, riuscii a sostenere l’esame di Stato e lo superai con un discreto punteggio. I professori erano stati clementi e mi avevano aiutato. Ma la mia malattia non era di quelle che potevano risolversi in pochi mesi.

Dopo il 68
Uscita dalle superiori, allentai i contatti con il movimento studentesco, mentre cominciai a frequentare pseudo collettivi, circoli autogestiti e ambienti equivoci, in cui circolava ogni tipo di droga e di personaggi ambigui. I miei amici mi introdussero all’uso della marijuana, ma non disdegnavo gli allucinogeni. Non mi piaceva tanto lo sballo, ma la sensazione di poter intravedere il senso delle cose. All’università mi iscrissi così, per inerzia, ma ero affetta da un certo antiintellettualismo, il mito della cultura non mi affascinava, ambizioni professionali non ne avevo, non avevo in realtà alcuna ragione per impegnarmi nello studio. Il 1974 fu l’anno delle stragi, Brescia, l’Italicus, in Portogallo c’era stata la rivoluzione, in Italia era arrivato il divorzio.

C’erano cose più importanti da fare che studiare, c’era la rivoluzione alle porte, una rivoluzione che si poteva fare senza ricorso alle armi, ma solo con le nostre azioni concrete nel segno del cambiamento. Decisi di uscire dalla casa paterna e di vivere insieme al mio nuovo ragazzo, vivevamo lavorando saltuariamente, ma con generosità, pronti ad accogliere quelli che condividevano le nostre idee. Né padre, né patria, né padrone, questa la sintesi della nostra filosofia di vita. La nostra casa divenne una specie di centro sociale in città, rifugio di ragazzini in fuga, di drogati allo sbando, di artisti incompresi.

Ricordo l’estate del ‘75, torrida e tragica, quando decidemmo di andare in Portogallo per entrare nel vivo degli eventi storici. Molti altri giovani erano partiti dall’Italia e si ritrovavano a Lisbona, in Rua Do Prior n. 4. Estate torrida per il fuoco che ci bruciava, tragica per la delusione di quella esperienza. A Lisbona c’era una grande instabilità sociale e molta desolazione nelle campagne. Non solo non trovammo nessuno che ci raccontasse della rivoluzione, ma dovetti constatare, mio malgrado, che le nostre aspirazioni, le nostre forze, le nostre idee di miglioramento si scontravano con la realtà. E la realtà era che ognuno cercava la gratificazione personale, l’affermazione egocentrica, l’esaltazione di sé.

Altruismo e internazionalismo, fratellanza e uguaglianza, erano solo fumo negli occhi. E forse gli oppressi e i diseredati della terra non erano tutti buoni, solo per il fatto di essere vittime dell’ingiustizia sociale. Lo dimostrava l’assassinio di Pasolini. Cercavo, con una parola che oggi può suonare naif, la verità. Ma dove, o chi, che cosa è verità? Chi è tanto giusto e onesto, anzi, integerrimo, da poter dire cosa è verità al di sopra di ogni personale interesse? Al ritorno da quel viaggio, qualcosa si era spezzato dentro di me. Decisi di voltare pagina, mi ritirai dall’università, cominciai a dedicarmi allo studio dei testi sacri indiani e alla pratica dell’ascetismo come stile di vita. Mi misi a girare l’Italia in autostop per conoscere altri che come me erano attratti dalle filosofie orientali. Mi feci nuovi amici e conobbi anche molti personaggi strani e malintenzionati. Cercavamo il ritorno alla natura, a uno stato di innocenza e di purezza originario che avevamo perduto, la civiltà e il progresso erano i nemici.

Ma nel luglio del ’76 mio padre morì. Aveva avuto un infarto dieci mesi prima e io non ero nemmeno andata a trovarlo in ospedale. Fu un colpo tremendo. Non ero ancora arrivata, ci vollero altri cinque anni e altri frangenti per rielaborare non solo quel lutto ma tutta la mia vita.

A questo punto però la mia storia personale e anche la grande Storia entrarono in una nuova era, la crisi globale era alle porte, sensazioni apocalittiche attraversavano l’opinione pubblica, il sessantotto faceva ormai parte di un passato remoto.

Oggi: il filo rosso
Chiedersi cosa è cambiato rispetto a oggi è compito arduo, molto è cambiato, in meglio o in peggio. Qualcosa rimane. È cambiata la cornice sociale e culturale, la scuola si è sempre più massificata, sono cambiate la qualità dell’insegnamento e la motivazione all’apprendimento, che oggi sono in caduta libera. È cambiata la gestione della scuola, sono rimasti gli insegnanti vecchi, forse meno arcigni ma molto meno bravi, sono rimasti i gabinetti alla turca e i serramenti malandati, è rimasta la religione e sono rimaste le discriminazioni nei confronti di chi non se ne avvale. È cambiata la didattica, che ora assomiglia sempre più all’intrattenimento, salvo rari casi di eccellenza, ed è sempre più raffazzonata e smembrata, ridimensionata e piegata a esigenze burocratiche di sistema, alla faccia della libertà dell’insegnamento. Sono rimasti, alla fine, i bambini e i giovani, oggi nativi digitali, molto intelligenti e poco maturi, disorientati e inascoltati, ma sempre curiosi, aperti e bisognosi di sapere.

Provando a fare un confronto con i ragazzi di oggi mi sembra che, a differenza nostra, siano stati privati di ogni punto di riferimento, mentre sono stati pasciuti dall’edonismo consumista. L’antiautoritarismo elevato a sistema ha prodotto una generazione di genitori e di educatori (noi) incapaci di offrire ideali e motivi per studiare, lavorare e vivere. Il resto lo ha fatto la televisione e i social. Sono ancora certa che aveva ragione M. Luther King quando diceva che se una persona non ha un motivo per morire, non ce l’ha nemmeno per vivere. Ne è uscita una generazione di invertebrati con un cervello sviluppatissimo e un carattere di burro. Sono convinta che noi ex sessantottini abbiamo molto da riflettere, non per rinnegare, ma per assumere le giuste responsabilità, e non scaricarle addosso ai giovani, aspettando da loro “la salvezza del mondo” (cfr. Edgar Morin), perché sarebbe come aggiungere al danno la beffa.

Ci sono diversi modi di rivisitare il passato, ma è necessario comunque mantenere una continuità, un filo rosso che rappresenta il percorso intellettuale e personale nel tempo. Nel mio caso il filo rosso è rappresentato dalla personale coerenza a valori assoluti. Nel sessantotto c’è stata una trasformazione di molti assoluti in relativi: il mito illuminista della conoscenza come mezzo di liberazione, per esempio, che si è dissolto nel passaggio dalla cultura di élite alla cultura massificata, ma (come predisse Nietzsche) depauperata e, per così dire, “disinnescata”. Il mito arcaista del “buon selvaggio”, motivo tanto sempreverde quanto smentito dalla storia, o meglio dalle storie dei popoli che si sono emancipati dal colonialismo per cadere poi nelle dittature o nelle guerre civili. Il mito della democrazia assembleare, che si è rapidamente burocratizzata ed ha svuotato la scuola di ogni possibilità di miglioramento. La caduta degli assoluti però si è trasformata essa stessa in assoluto, un assoluto relativismo, ontologico, epistemologico, etico. Questo paradosso non lo si riconosce come tale infatti, se lo si riconoscesse, molti dovrebbero semplicemente tacere. Infatti che senso avrebbe anche solo fare un’affermazione, se è vero tutto e il contrario di tutto?

Ecco, il mio filo rosso è questo, che non ho messo in discussione certi assoluti. Per me esistono una realtà, una verità e una conoscenza autentica, per quanto noi possiamo accedervi in modo limitato. Questo mi ha mantenuto in salute (virtualmente parlando) in mezzo a tutte le vicissitudini della vita.

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