Noi credevamo di Marilena Salvarezza

 

Il ’68: il luogo sognato
Avevo ventidue anni nel ’68. Da tre ero a Milano, il miraggio raggiunto per uscire dall’asfissia del paese e della provincia. Sono una di quelle e quelli che nello studio appassionato vedevano ancora una strada di liberazione. Sono una dei nati tra il Quaranta e il Cinquanta, che, anche se di famiglie modeste, poterono studiare e farsi un giro sull’ascensore sociale, in anni di mobilità verticale e orizzontale. Studenti fuori sede, studenti lavoratori, contadini dal Sud e dal Nord, lavoratori di varia provenienza approdavano alla grande città. Le famiglie cambiavano quartiere e acquistavano grazie a un tenace risparmio e a faticosi sacrifici una casa con più stanze e il bagno interno, spinte dal vento di un timido incipiente benessere che portava lavatrici, frigoriferi, mobili “moderni“. Anche i contadini barattavano i cari mobili frutto di una tradizione artigianale, con mostruosità di finto legno.

E Milano era la terra promessa, la scoperta incessante di mondi sconosciuti, però con un serpeggiare di inquietudini che non avevano ancora trovato il loro luogo.

Il luogo fu il ’68: io come molti, mi ci trovai dentro come in un naturale liquido amniotico, che conteneva le sparse e ancora vaganti spinte politiche ricevute dagli amici più impegnati, i confronti formali e lontani con i professori, una bruciante curiosità per “dell’altro” possibile rispetto al reale che da qualche parte doveva esserci. Negli anni precedenti c’erano già state occupazioni di università e manifestazioni di studenti ma fu nel ’68 che tutto trovò la sua saldatura e il suo senso.

Un prisma sfaccettato
Molte sono state le interpretazioni dell’anno che (forse) cambiò il mondo. Nel passato e nel presente il ’68 presenta estimatori ma anche e forse in maggioranza critici feroci che si ripropongono nella rivisitazione attuale. Le accuse ricorrenti sono di becero utopismo, di violenza, di scarsa incisività, di antiumanesimo. Sono indubbie storture e iperboli ideologiche che riflettevano anche la giovane età del movimento, ma mi pare che le critiche più dure non nascano del tutto in buonafede. C’è in particolare un punto di vista che sento lontano: quello che vede nel ’68 l’antecedente di una società egoistica, individualista, senza valori e limiti. Nelle intenzioni di molti e certo nelle mie, era vero il contrario.

Il ’68 nasceva in anni in cui il capitalismo era più “buono” di quanto non sarà mai più dopo: prezzi, case, presalario, lavoretti vari erano alla portata anche degli studenti più poveri. La nostra “indigenza” ci permetteva tuttavia di trovare trattorie a prezzi compatibili, case in cui i proprietari non si preoccupavano di sapere quanti eravamo e il nostro reddito. Certo lottavamo per noi, ma ci pareva di farlo soprattutto per altri: per una scuola diversa da quella che nel modo della trasmissione dei saperi aveva inscritto il DNA delle classi, per una università dove anche gli studenti fuori sede e i lavoratori trovassero i servizi e le opportunità necessarie e ben presto anche per quella classe operaia in crescita, che da una nuova coscienza rivendicava diritti sociali. Credevamo di farlo per i contadini del sud e per il sottoproletariato cittadino.

E il consumismo l’aborrivamo, come frutto marcio di una società che attraverso la facilità dei consumi obnubilava anche il ricordo del passato recente. Facevamo “tendenza” nostro malgrado anche se poi la forza onnivora dell’industria della moda si impadronì dei simboli che per noi erano un marchio di identità, il tentativo di connotare il nostro impegno e la nostra ribellione anche attraverso gli abiti. E sì, c’era il discorso della soggettività, che però solo una facile vulgata può confondere con l’individualismo attuale perché il suo nucleo teorico era l’acquisizione di una coscienza piena della condizione sociale che occupavamo nel sistema.

Difficilmente comunque si può contenere il ’68 in una interpretazione conclusa.

Come dice Luisa Passerini nel suo Autoritratto di gruppo: “il ’68 è come un prisma: i raggi convergono su di esso e ne escono scomposti in vari colori“. Per questo, per la sua vicinanza ancora alle nostre vite, è onesto inscriverlo, quando se ne parla, nella nostra storia e nel nostro vissuto. La memoria vi gioca un ruolo importante, sicuramente soggettiva, ma come dice Ricoeur è anche una forma di conoscenza perché contiene milioni di immagini e parole. C’è un prima e un dopo e qualcosa dell’interpretazione della realtà che da quella esperienza abbiamo mutuato, continua ad agire.

L’io e il noi
Nel ’68 si esprimevano un io e un noi, la dimensione di una soggettività “sociale” che si andava costruendo e quella di una visione collettiva originale in cui politica e privato erano inscindibili, proprio perché non si volevano frapporre filtri tra teoria e pratiche di vita. Le tante combinazioni del vivere insieme sperimentate rispondevano a un bisogno di fusionalità utopica che, in nome della uguale appartenenza politica, ignorava le differenze (di classe, o fra maschi e femmine) e considerava irrilevanti aspetti che invece diventano determinanti nella convivenza (l’uso degli spazi comuni, il diverso concetto di abitabilità, la condivisioni o l’elusione dei doveri). Altrettanto stereotipa è la visione del ’68 come droga e sesso. Al contrario la droga è fisiologicamente estranea al movimento nel suo momento più alto, eticamente stigmatizzata in nome di un impegno austero e totalizzante; il discorso sul sesso nasceva dalla critica alla repressione, intesa come negazione degli istinti e dal rifiuto di codificare entro canoni “borghesi” (matrimonio, monogamia apparente) le relazioni amorose; sincerità e apertura si opponevano all’ipocrisia dominante e alle pretese di esclusività e di possesso dell’oggetto amato. Anche se, certo, questa convinzione che anche le pulsioni più profonde potessero essere ideologizzate, che sentimenti fortemente interiorizzati potessero essere azzerati con un atto di volontà, spesso l’abbiamo pagata cara sul piano dell’equilibrio emotivo.

Orfani per scelta
Allora più che in qualsiasi altro momento, delle nostre vite, “noi credevamo. Credevamo che per fare la storia, bisognasse “sradicarsi” dal passato, rifiutando al movimento, figlio autonomo di una necessità storica, ogni padre nobile. Per quanto inaspettato e stupefacente nel suo irrompere sulla scena mondiale, il ’68 però era anche il frutto di molti e sotterranei fermenti degli anni Sessanta: la musica (il rock , Bob Dylan, i cantautori, i beatnik, i situazionisti, gli anarchici, gli hippy e il pacifismo, la ricerca operaistica dei Quaderni rossi, lo scandalo della Zanzara e altro). In Italia l’innocua provocazione dei “capelloni” aveva assunto nella stampa e nella mente dei “benpensanti“, categoria trasversale alle classi sociali, una improbabile pericolosità come dimostrano questi titoli:

Tutte queste anime (musicali, culturali, politiche, sociali, personali) confluiranno e si intersecheranno nel movimento, anche se forse esso non ne aveva piena coscienza, e in parte ne spiegano la poliedricità. Al di là di tutte le interpretazioni, possiamo attribuirgli alcuni caratteri indubitabili: è mondiale e giovanile; coinvolge uomini e donne; ha come luogo incubatore le università; è radicale e antisistemico; nasce in società a capitalismo maturo, nel periodo dei trenta gloriosi, nel contesto storico della guerra in Vietnam. Sono gli studenti universitari americani e poi europei a innescare un ciclo di proteste a partire dalla condizione culturale in cui vivono.

Ribellarsi è giusto
La prima parola d’ordine è ribellione a tutto il mondo adulto, portatore di una visione “autoritaria“, gerarchica, ripetitiva della vita. Ribellione ai singoli padri (spesso appartenenti a una borghesia colta e illuminata, oppure a classi subalterne che hanno sempre subito). I padri borghesi sono accusati di sfruttamento o se illuminati di non aver saputo portare fino in fondo le loro idee, i padri proletari di avere accettato una condizione di subalternità sociale senza lotta e così vengono contestati in nome del loro riscatto. Alle madri, soprattutto da parte delle figlie femmine, viene contestata la casalinghitudine, la chiusura in un mondo asfittico, l’ estraneità alla dimensione politico-sociale, la sottomissione al modello patriarcale, la sessualità repressa e negata. “Ribellarsi è giusto” è una delle affermazioni più significative del ’68. E’ giusto ribellarsi a una società che, rimossi le devastazione e i traumi della guerra, ora si appaga di consumi materiali. Anche a chi ha fatto la Resistenza spesso viene rimproverato di averla poi tradita. Ribellione ai partiti, burocratizzati e revisionisti. La volontà di tagliare radici “malate“, l’iper-politicizzazione e l’iper-ideologizzazione certamente porta a forme di ingenerosità nei confronti delle generazioni adulte, a un azzeramento storico che acceca e a un senso di onnipotenza che impedisce di vedere i propri limiti. D’altra parte è pur vero che solo questa “piazza pulita” permette al movimento di dispiegarsi nella sua radicalità.

No ai saperi di classe
Gli studenti rifiutano saperi imbalsamati, puramente trasmissivi, che si propongono come oggettivi e invece hanno forti connotati di classe. Rifiutano “i baroni” che detengono spesso per via ereditaria il potere, compreso quello di valutare e estendono il rifiuto all’intera organizzazione scolastica, in tutti i suoi ordini. Vogliono sostituire il corpus disciplinare accademico scisso da ogni confronto con la realtà sociale e con le conoscenze che nascono direttamente dall’esperienza vissuta. Rifiutano la neutralità del sapere e della scienza, strumenti invece di dominazione. Per alcuni studiosi queste prese di posizione nascono anche dalla consapevolezza che, sebbene abbiano accesso agli studi, molti giovani si rendono conto che non avranno un futuro di classe dirigente per la massificazione dell’Università. La scuola deve ricostituirsi intorno ai bisogni degli studenti, soprattutto di quelli meno privilegiati, i fuori sede, i lavoratori. Devono entrarvi i “corpi” con i loro desideri e i loro bisogni materiali. L’università deve far spazio a nuove aggregazioni dal basso come i collettivi, i seminari, i controcorsi dove i militanti affrontano argomenti nuovi e creano i loro controsaperi e la loro controcultura. Non rifiutano la conoscenza e lo studio, ma li vogliono “ricreare“. E poiché la conoscenza non è un fatto individuale, chiedono esami di gruppo e una valutazione politica, che tenga conto della realtà sociale dello studente. L’iconoclastia si estende anche alla cultura storica e filosofica; il movimento vuole inventarsi da solo oppure ripensare in modo originale i propri riferimenti (internazionalismo, maoismo, marxismo, la scuola di Francoforte).

Nostra patria è il mondo intero
Tutto ciò che accadeva nel mondo, in Sud America, nel Vietnam, in Polonia, negli USA, dovunque ci fosse una dittatura, una repressione, una guerra voluta dal capitalismo, un’ingiustizia sociale ci riguardava. Quando accadeva qualcosa lo sentivamo risuonare in noi. L’identità si costruiva nell’incontro con gli eventi, in un andirivieni continuo tra esterno e interno, noi tra noi e gli altri “oppressi“. L’autobiografia sociale prevaleva su quella individuale mettendo la sordina anche a disagi che poi torneranno a presentare il conto e determineranno le diverse evoluzioni dei singoli. Il bisogno fusionale portava a una negazione delle differenze di classe e di genere in primo luogo, come se il movimento stesso fosse la garanzia dell’essere eguali di fronte all’impegno. Ma la rimozione non può durare e quasi in contemporanea il movimento femminista darà voce al non risolto. Per le donne il ’68 era ambivalente: luogo di emancipazione e di impegno senz’altro, ma anche luogo talvolta ancillare e comunque raramente di primo piano, in cui la differenza di genere veniva riassorbita nella comune militanza dove, anche nella sperimentazione, non si azzerava del tutto una storia duratura di cultura patriarcale.

Creatività al potere
Il ’68 è per chi lo critica disordine (“chienlit” dirà con disprezzo de Gaulle), rottura rovinosa delle gerarchie di classe, spaziali, culturali. Gli studenti si appropriano delle università, mettono in discussione i saperi ufficiali e il potere di chi li somministra: contropotere, controcultura, antiautoritarismo, democrazia diretta sono le parole d’ordine. L’impegno politico ha una componente dissacrante e un po’ dada; l’azione è fondamentale e il suo motore è il pensiero creativo; l’impegno coesiste con il gioco e il divertimento. L’esperienza vale più del sapere astratto e tutti hanno diritto di parola, non c’è più un alto e un basso. “Sii realista, chiedi l’impossibile“, è un’altra parola d’ordine; il pensiero creativo “pensa” senza contenimenti ciò che nessuno sapeva o osava fare e quindi lo trasforma in azione; il cambiamento dello stato di cose presente è a portata di mano. E’ una rivoluzione, sì, ma di tipo creativo-culturale.

Violenza sì violenza no
E’ stato violento il movimento, ha incubato e espresso pratiche di violenza, come molti affermano? Di sicuro ha avuto un linguaggio violento e dissacrante, di sicuro ha avuto comportamenti prepotenti e arroganti, ha messo talvolta alla gogna quelli che pensava “nemici“, non ha rifiutato aspetti di illegalità ma direi che la sua cifra più significativa era il desiderio di affermazione e di parola, la volontà di portare “fuori nel mondo” senza limitazioni, la forza del proprio “contropensiero“. Ricordo lo stupore assoluto quando ho visto camionette di polizia circondare e colpire una manifestazione, il senso di rabbia e odio montanti, come di fronte a qualcosa che non si era previsto. Il movimento era piuttosto disordine vitale, energia intellettuale, volontà d’azione. Certo contraddizioni profonde e forse insanabili lo attraversavano: tra pacifismo e violenza, tra democrazia e imposizione, tra creazione e distruzione, tra vocazione politica e incapacità di valutazione realistica del contesto, tra organizzazione e spontaneismo. Ma direi che queste antinomie emersero con forza solo nel momento in cui il ’68, rapidamente, nel giro di un anno, si frantumò in tanti rivoli e gruppi che cercavano una strada “politica” e alleanze con le classi subalterne,

Ma cosa è stato, cosa ha lasciato?
E’ stato un movimento di epigoni di una società che si andava trasformando radicalmente, verso la deindustrializzazione e il post moderno o è stato un movimento anticipatore di tendenze future? E’ stato un movimento perdente che ha lasciato qualche traccia solo nel costume e nelle battaglie per i diritti civili che seguirono o è stato una realtà più complessa con vari strati di eredità? Ha inciso sulle trasformazioni della scuola? C’è un nesso con la realtà attuale, soprattutto quella che vivono gli studenti? Non ci sono risposte esaustive ed univoche, ma le domande possono servire da filo rosso nello scavo.

La scuola si è trasformata, soprattutto nell’introduzione di tecnologie, nel rapporto allievi insegnanti e insegnanti genitori, nell’uso di una diversa terminologia (es. “didattica per competenze“), nel ricambio generazionale, nell’alternanza scuola lavoro, in alcuni diritti di partecipazione acquisiti dagli studenti di scuola superiore, ma è davvero difficile parlare di una trasformazione adeguata alle attuali caratteristiche cognitive e sociali degli allievi. Una scuola cioè capace di  ritagliarsi ancora un ruolo significativo nell’acculturamento via internet e via social ormai dominante. Una scuola che sappia reinventare la motivazione per la conoscenza, le forme dell’apprendimento e della convivenza, che sappia rielaborare in un progetto aperto e processuale i diversi stimoli culturali e sappia proporre un modello diverso di cittadinanza in costruzione. I voti sono ancora l’unico criterio di valutazione, gli insegnanti, anche e forse soprattutto quelli giovani, tornano ad avere una visione trasmissiva dei saperi e una visione disciplinare e comportamentale spesso miope e punitiva.

Dall’altra parte ci sono sempre più studenti che si sentono estranei all’istituzione, che mettono in dubbio la validità e il senso dei percorsi scolastici, che dai social, considerati la vera fonte del sapere, ricavano una brama di visibilità e di notorietà facili e redditizie, chiusi nel loro angusto individualismo, convinti che il mondo in cui vivono sia l’unico possibile, indifferenti alla dimensione politica, oscillanti tra vuoto e cinismo. In questo tanto lontani dalle aspirazioni dei militanti del sessantotto, che della iperpoliticità e dell’impegno facevano il loro credo. Per loro le interpretazioni di classe davano a tutto un senso e una collocazione, la ricerca dell’eguaglianza creava le condizione per una società migliore, la lotta per “gli altri” era quasi un automatismo. Sembrano finiti i movimenti giovanili a stampo internazionale (l’ultima fiammata, forse, si è avuta dopo l’occupazione dell’Iraq da parte degli USA, nei movimenti di Genova e nelle manifestazioni contro le politiche dei G8). D’altra parte proprio alla vigilia del ’68 un’inchiesta francese presentava i giovani come abulici e ripiegati su loro stessi, quindi tutti noi soffriamo di miopia del presente.

Mi sembra che alcune parole d’ordine del sessantotto potrebbero essere riproposte nei tempi attuali: spirito critico, volontà di partecipare in prima persona alla costruzione del proprio sapere e del proprio posto nel mondo, lotta per una maggior eguaglianza economica e sociale. L’uguaglianza è concetto quasi scomparso dalla vulgata del pensiero unico: ognuno deve saper afferrare le opportunità, l’emarginazione sociale e il fallimento sono tornati ad essere colpa e destino, l’identità è costruita su simboli esteriori e unificanti. Dall’avere per patria il mondo intero si passa a lottare per piccole patrie e nuovi sovranismi, la dimensione finanziaria ha reso pressoché ininfluente quella politica. Forse si possono riproporre alle giovani generazioni alcuni approcci al ’68 che possano accendere i riflettori anche sulla loro realtà, facendo balenare che le “cose possono cambiare“. Forse questa potrebbe essere un’eredità un po’ più significativa di quella che solo nel cambiamento dei costumi e per alcuni dell’aumentato lassismo vede l’unico lascito del ’68.

(Pubblicato su febbraio 26, 2018 da vivalascuola)

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