Gli ex terroristi scrivono romanzi. Una rassegna costernante. Lo sterminato romanzo degli anni settanta di Silvia Dai Pra’

 

Ormai è difficile contare il numero di libri firmati dai protagonisti della lotta armata degli anni settanta: ne escono a getto continuo. Spesso hanno copertine patinate, titoli ammiccanti, foto di repertorio glamour: se lanciati dalle grandi case editrici – quelle del Sim – sono in grado di esaurire la prima edizione in poche settimane. Inutile negarlo: gli anni settanta, soprattutto se visti dal punto di vista eversivo, vendono, piacciono, fanno tendenza. Tendenza raccolta non tanto dagli ex sessantottini nostalgici – che, anzi, sembrano essere i primi a non volerne più sapere – ma dai giovani, da coloro che, all’epoca del sequestro Moro, nascevano o non erano ancora nati. Perché? E perché proprio ora? I retro di copertina più edificanti sembrano impermeabili al dubbio: di fronte al sorgere delle nuove Brigate rosse, chi non ha vissuto quegli anni sente una grande necessità di sapere. Ma sembra un po’ eccessivo gettare sulle spalle di Nadia Lioce e compagni tutto questo peso mediatico. Le nuove Brigate rosse sono un simulacro, in grado di dare solo una sensazione di déja-vu, incapaci di stimolare ogni interesse. Ma, certo, non si legge solo per capire il presente, ma anche per non correre il rischio di commettere gli stessi errori. Per non raccogliere un’ascia rimasta insepolta: anche questo dicono i retro di copertina. Leggete, per non entrare nelle nuove Brigate Rosse: ecco la solita copertura moralistica di chi specula su qualcosa che non è disposto ad ammettere, ovvero che le vite eccezionali e “cattive” attraggono più di quelle normali. Il punto è che l’ascia rimasta insepolta non è tanto la storia dei gruppi armati: che, dietrologie e reali buchi investigativi a parte, conta ormai la sua sostanziosa bibliografia. L’ascia è, piuttosto, il fatto che, oggi ancora più di ieri, il sistema politico si rivela bloccato, sordo alle richieste di base, incapace di cambiare realmente le cose. Di marxismo-leninismo e dittatura del proletariato nessuno parla più, ma la frustrazione resta. E, così, una generazione costretta a morire di precarietà, e pure ad aspettare che Fassino dica qualcosa di sinistra, lava via i propri istinti massimalistici e antisociali in questi bagni catartici di eversioni, sogni, P38 e assalti al cielo. Come darci torto?

La sacra famiglia
Mario Moretti sconta ormai una strana celebrità. In passato surclassato dalla fama di Curcio, oggi può ritenersi il volto principe delle Br: il volto ambiguo, su cui si addensano sospetti, dubbi e dietrologie. Detto la sfinge per la parsimonia con cui prende la parola, la sua esperienza di vita è consegnata a un libro-intervista con Carla Mosca e Rossana Rossanda, “Brigate Rosse. Una storia italiana” (Anabasi, 1994, poi Baldini Castoldi Dalai, 2002). Impedendo il cortocircuito tra passione e ideologia che spesso caratterizza questi libri, Mario Moretti rinuncia alla propria individualità per identificarsi nel ruolo di generale sconfitto, e per fare della realtà un’equazione da affrontare con la calcolatrice. Rivoluzionario stipendiato, tecnico di fabbrica e padre mancato, Moretti fa delle Brigate rosse una storia tecnica e militare, e del suo racconto di vita una negazione dell’autobiografia in senso moderno, visto che l’io privato scompare, per nascondersi dietro una spessa cortina di catechesi marxista-leninista. Per sapere qualcosa su di lui, bisogna consultare i libri dei suoi compagni: nel tempo libero faceva le parole crociate, amava i libri di fantascienza, era un donnaiolo (così il macho Valerio Morucci lo esalta: “aveva carisma, carisma e fascino. Una compagna ad attenderlo in ogni colonna. Il riposo del guerriero”). Un panorama sconfortante, ma ancora più sconfortante è l’uso di un linguaggio che ci costringe a rileggere ogni riga per poter dire di averla capita, un post-brigatese che, dai tempi d’oro, ha perso l’enfasi, ma non certo le torture teoriche. “Nomina sunt consequentia rerum”, dichiara Moretti accennando a un’autocritica, ma poi corregge: “ma quelle parole non ci esprimono, ci falsificano. Non siamo quello. (…) I documenti erano più poveri dell’esperienza che facevamo. Appena era parlata o scritta nel volantino, diventava più stretta, schematica, lontana”. Quella di Moretti è una storia drammatica, proprio perché l’umanità non è costantemente esposta, ma soffocata dal suo ruolo di generale sconfitto: eppure resta sovrastata da qualcosa che impedisce di parlare di tragedia. Il Lenin postmoderno non è niente più di un burocrate, e si dimostra terribilmente scadente nel piano delle riflessioni personali e delle idee, fino a sembrare una parodia del famoso assunto di Fidel Castro che vuole che prima venga la lotta, e solo in un secondo momento la coscienza. Ci si chiede chi mai saranno gli altri, se lui era il capo, oppure si cede al fascino delle tesi da spy story di Sergio Flamigni (“La tela del ragno. Il delitto Moro”, 2003, e “La sfinge delle Brigate rosse”, 2004, entrambi editi da Kaos), inoltrandoci in un complicatissimo romanzo nel romanzo che fa di Moretti una spia della Cia (e, mutatis mutandis, del Sim).
La storia di Anna Laura Braghetti (“Il prigioniero”, con Paola Tavella, Mondadori, 1998, poi Feltrinelli, 2003) è invece l’esatto corrispondente di quella di Moretti nel campo femminile. Tutto ideologia, armi, onore e lotta l’uomo, tutta affetti, cucina e famiglia la donna. La Braghetti racconta la sua storia in un linguaggio medio, pulito, dal tono vagamente depresso, e lascia che nel suo libro esploda una lampante contraddizione: come descrivere gli ideali quando in nome di quegli ideali conduci una vita alienata? Come descrivere la rabbia, quando quella rabbia va trattenuta, per essere poi canalizzata nella singola azione? Come descrivere la diversità, se quella supposta diversità deve scomparire per meglio mimetizzarsi tra la gente comune? Così, la sua vicenda diventa più un’immersione nella schizofrenia che nella rivoluzione (“chi mi ha conosciuta in quel periodo”, scrive l’autrice ammettendo una faticosa messa a fuoco di sé, “mi ricorda come una persona rigida e intransigente, proprio il contrario dell’immagine che io avevo di me stessa”). Si fatica a capire come sia venuto in mente a questa brava ragazza di entrare nelle Brigate rosse: e, visto che di ideologia mai si parla, che la speranza di un futuro migliore mai si affaccia, non si può non pensare all’odio. Un odio che, però, nella riemersione del ricordo, è ormai cancellato, sparito. Lo si deve cercare fra le righe, nelle allusioni a un’identità che si fatica a ricostruire. Bisogna leggere attentamente e memorizzare il suo essere rimasta presto orfana, l’abbandono dell’università per fare studiare il fratello maschio… Ma l’odio, nella Braghetti, si fa sentimento materno. Come le celebri donne della mafia, Anna Laura Braghetti è affettuosa con i membri del clan e spietata con gli esterni. Ascolta, carezza, lenisce le pene. Prepara i risotti e spolvera la casa. La sua identità politica pare non esistere, se non per concordare e appiattirsi su Mario Moretti: e, quando si decide di uccidere Moro, i suoi dubbi sembrano quelli di una madre sottomessa che vede il suo rude marito affogare i gattini.
Ma, identificato il padre, ideologico, rigido e un po’ ottuso, conosciuta la mamma, affettuosa e silenziosamente complice, resta il figlio. Scanzonato e cazzeggione, ecco pararsi di fronte a noi la figura di Cesare Battisti. Dopo avere letto l’insostenibile “L’orma rossa” (Einaudi Stile Libero, 1999) – dove l’io narrante scorrazza in un mondo in cui lui è l’unico puro, prendendosela con: Togliatti, venduto; l’Italia, fascista; la Francia, fascista; le donne, tutte puttane – colpisce un romanzo scorrevole qual è “L’ultimo sparo” (DeriveApprodi, 2004). La differenza è che, in questo libro, l’io-narrante è un Cesare Battisti giovane, che non cede alla tentazione di tenerci lezione in una morale che, evidentemente, non è il suo campo. Criminale comune, Battisti si converte alla politica in carcere, dopo l’incontro con un militante di sinistra: “si era dedicato anima e corpo a spiegarmi che io non ero un delinquente in galera, bensì un proletario in rivolta sequestrato dal regime. Per quanto mi riguarda non avevo nessuna difficoltà a crederlo, anzi, mi chiedevo come mai non ci avessi pensato prima…”. Uscito di galera, il giovane Cesare, raggiante di desiderio rivoluzionario, entra in Lotta Continua, dove “si potevano fumare gli spinelli insieme a ragazze che non facevano troppe storie”. Espulso perché troppo violento, ripara nell’Autonomia, dove trova tante persone che “portavano il passamontagna, agitavano pugni e pistole e non c’erano santi” e “le ragazze, se si scatenavano a letto come facevano nelle piazze, c’era da rischiare una sincope…”. Il bandito Battisti (che vuole tanto bene alla mamma) picchia un po’ di fascisti, ammazza un po’ di commercianti e fa impazzire arrabbiate femministe con la sua aria da guerrigliero: tra il monnezza e il sogno erotico dell’italiano medio, l’ideologia dell’io narrante è tutta qua. E se il suo tono giocoso può suonare cinico, irresponsabile e amorale, bisogna pure ammettere che è una delle rare chiavi narrative che funziona, come se, alla fine, quel tono fosse più sincero di tanti altri.

Peckinpah e la rivoluzione
Ma Cesare Battisti – in quanto figlio ribelle di un repertorio culturale tipicamente anni cinquanta – ci fa scivolare verso gli anni della nebulosa terrorista. Sottovalutata dalle disquisizioni di Moretti, la spinta esistenziale sembra essere uno dei componenti principali della lotta armata: la si trova, del resto, anche nell’autobiografia del fondatore più celebre, più romantico e maledetto, Renato Curcio (“A viso aperto”, con M. Scialoja, Mondadori, 1995). Lasciandoci alle spalle la dottrina M & L, ci troviamo immersi in un’aria che un vecchio sindacalista chiamerebbe soreliana, al massimo fanoniana, ma che, in realtà, sembra avere più debiti con i media che con i libri: un po’ di mitologia della resistenza ripresa da “Senza tregua” di Pesce, ma, soprattutto, tanto Peckinpah. Lenin e Marx battono il passo, il modello diventa piuttosto quello del cow boy o del bandito metropolitano visto in tv o al cinema. E, in questo senso, potremmo veramente dire che la lotta armata degli anni settanta sia stata un fenomeno postmoderno. Più che vivere, sembra guardarsi vivere: per proiettarsi indifferentemente su uno scenario in cui convivono i tupamaros e i partigiani, Lenin e i cow-boys. Il desiderio di una vita “oltre” si confonde con l’ideologia, il voler salvare se stessi da un’esistenza insoddisfacente viene spacciato per un voler salvare il mondo, mentre la speranza non si vede e la sola redenzione sembra il bagno di sangue con cui si chiude il “Il mucchio selvaggio”. È un estetismo maudit in cui, come scrisse Sciascia nell’“Affaire Moro”, “il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione”, ed è su questo sfondo che, nella seconda metà degli anni settanta, nascono e muoiono centinaia di nuove sigle rivoluzionarie, di cui la più celebre è Prima linea. Gruppo anarcoide e gaudente, ricettacolo dei servizi d’ordine della sinistra extraparlamentare, Prima linea fu una meteora capace di produrre un gran numero di omicidi e, subito dopo, di pentiti della prima ora (tra cui il suo esponente più celebre e smaccatamente freudiano: Marco Donat Cattin). Da questo universo è uscita una sola autobiografia, pubblicata quest’anno dalla casa editrice DeriveApprodi: “Miccia Corta”, a firma di Sergio Segio. Ben determinato a doverci restare per forza simpatico, l’ex comandante Sirio ci strizza l’occhio conducendoci dalle parti dell’Harris Bar e dei locali di Brera, rivendicando la sua inappartenenza al “cliché, così brigatista, del militante serioso”. Ci regala patinate immagini pubblicitarie, come quando aspetta la sua compagna su “un triste mare d’inverno”. Ci racconta di un capodanno passato nel ristorante di una thailandese (“abbiamo simpatizzato subito, forse perché anch’io mi sento straniero”) a scolarsi bottiglie di Veuve Cliquot, “lo champagne della vedova che preferisco”. Se la prende con le Brigate rosse, ree di darti sempre appuntamento in “trattoriacce operaie di periferia, il cui cibo fa rischiare la vita ben più che una rapina in banca”.
Leggendo queste pagine, non si riesce a non pensare a Renato Vallanzasca: e, più ci si pensa, più si sente una struggente nostalgia della sua autobiografia (“Il fiore del male”, scritta per le edizioni Marco Tropea insieme a Carlo Bonini, 1999). Anche Vallanzasca non ci risparmia lo champagne, i locali alla moda e “Il mucchio selvaggio”: ma senza chiamare in causa nessuna ideologia, convinto com’è che “c’è chi nasce per fare lo sbirro, chi lo scienziato, chi per diventare Madre Teresa di Calcutta”, e lui è nato ladro. Questo può essere letto, ovviamente, come il suo limite; in fondo, preferiremmo tutti chiamare in causa categorie sociologiche: Vallanzasca nasce povero e illegittimo negli anni del boom. Ma l’egocentrismo dilagante del bel René rifiuta la formula, e preferisce rifugiarsi nel concetto di scelta, e, quindi, di responsabilità individuale. Per questo si può leggere la sua storia senza sentire in bocca nessun sapore amarognolo, di falsetto: un sapore che ci avverte che siamo in presenza di qualcosa di taciuto o di rimosso. Vallanzasca non pretende un riconoscimento dalla storia “dei vincitori”, non ha bisogno di dimostrarsi a tutti i costi buono, altruista, disinteressato, reo soltanto di avere intrapreso una strada sbagliata. Su questo, invece, si incentra il libro di Segio: dove la voce narrante si fa ambigua, esalta il sensazionalismo nello stesso momento in cui ce ne chiede venia, rivendica qualcosa che al contempo condanna, non si allontana dalla materia che racconta, e, allo stesso tempo, non ha neanche il coraggio di restarle vicino e di rivendicare la sua peggio gioventù. E quello che ne esce, alla fine, è una specie di vate giovanilista e cheap: un pizzico di maledettismo gigione per piacere ai giovani, e un po’ di retorica saggezza perché gli stessi non commettano i tuoi errori. Documento di sconcertante ingenuità, le sue contraddizioni esplodono quando si affronta la vicenda di Piazza Fontana. Con il 12 dicembre del 1969, dice Segio, lo stato dichiara guerra a chi non tollera la repressione e l’impunità per i fascisti e per la polizia. E potrebbe avere anche ragione: ma non può usare queste argomentazioni fingendo che Prima linea non abbia ucciso Alessandrini. Pubblico ministero che per primo aveva imboccato la strada dei servizi segreti dietro Piazza Fontana, Emilio Alessandrini viene ucciso sulla scia della dialettica più massimale: essendo onesto e intelligente, è meglio ucciderlo prima che rischi di ridare vigore alle nostre istituzioni corrotte. E, se ieri una foschissima coerenza poteva anche esserci, oggi tutto questo gigioneggiare sul “Mucchio selvaggio” e sulle canzoni di Gianna Nannini, tutto questo discettare sui vinti e i vincenti, su chi abbia dichiarato guerra o meno, lascia in bocca un sapore cattivo. Che non è solo dovuto all’immaginario kitsch che il libro rivela, ma più probabilmente a quello che dietro il kitsch si nasconde: la scarsa onestà nei confronti di se stessi e del prossimo.

Le donne
“L’insopprimibile violenza”, diceva ieri Sartre nella sua prefazione ai “Dannati della terra” di Fanon, “è l’uomo che crea se stesso”. Non credo avesse ragione: se è vero che tutte queste autobiografie sembrano un tentativo di rimettersi in sesto, recuperare i traumi, i ricordi, le emozioni. Un tentativo, in sostanza, di crearsi come individui e come persone. Prova faticosa, che più cerca di abbandonare i rigori ideologici più tende a perdersi in romanticismi e toni dannunziani. Un misto di sdolcinatura e di rigore che gli psicoanalisti liquiderebbero con la formula di infantilismo psichico, e che, tristemente, sembra trovare casa specialmente quando chi tiene la penna è di sesso femminile. Una considerazione nasce spontanea: la lotta armata è stata l’unica realtà politica italiana (a parte, ovviamente, il femminismo) in cui le donne risultino abbondantemente rappresentate. Di certo potremmo dare tutta la colpa alla cancrena di un sistema politico che impedisce l’ingresso di nuove forze vitali: ma anche nei gruppi extraparlamentari le donne sono rimaste all’ombra dei leaders maschili. Se dire ’68 vuol dire pensare a Sofri, Capanna, Rostagno, dire lotta armata vuol dire pensare anche a Mara Cagol, Barbara Balzerani e Susanna Ronconi, giusto per citare le più importanti.
Le ex combattenti vengono presentate, in genere, in modo meno categorico dei loro compagni maschi: non sono, in fondo, l’ultima frontiera di quella “passio” femminile dedita all’annullamento di sé? Mistiche o innamorate, l’immaginario collettivo vuole che una donna di responsabilità ne abbia poche: l’importante è che oggi si mostri pentita e ci parli del suo bambino. Come accade nel libro-intervista di Adriana Faranda, “Nell’anno della tigre” (intervista con Silvana Mazzocchi, Baldini Castoldi Dalai, 1994), che potrebbe anche intitolarsi: quando Emma Bovary diventa un’eroina della differenza femminile. A far battere il cuore dell’aristocratica Faranda sembra essere, più che una rivoluzione totale, il sogno di un amore totale: la passione viene assunta come unica esperienza in grado di salvare la vita, il sentimento esaltato come massimo talento femminile. Teatralizzazione dell’io, retorica del sentimento, narcisismo sembrano essere le spinte che muovono la Faranda a una vita necessariamente sopra le righe: rivoluzione e amore, sentimento e dittatura del proletariato, machi e libertà. Più che contro il Sim, la Faranda lotta contro gli uomini: non contro il loro potere, ma contro il loro essere incapaci di slanci, contro l’inettitudine che impedisce loro di sacrificarsi sull’altare dell’Amore. E alla fine sembra l’eroina romanticheggiante di una storia tardottocentesca, mentre l’allusione del titolo all’Anno della tigre (secondo l’oroscopo cinese, destinato a mettere al mondo donne ribelli e indipendenti che distruggeranno la casa paterna) si fa tristemente bovaristico, con un sottofondo di feuilleton.
Un bovarismo che non dovremmo trovare nel libro di Barbara Balzerani: che, almeno, era una proletaria vera, e una rivoluzionaria pura – nel senso che non cambiava identità politica a seconda dell’uomo che si trovava. Ma l’abbandono del vecchio non produce automaticamente il nuovo: in questo caso, il lasciarsi alle spalle la vecchia scansione donna-uomo, il granito di Moretti e i petali di rosa della Braghetti, sembra portare a una confusione depersonalizzata. In “Compagna Luna” (Feltrinelli, 1998) vige una distinzione tra due caratteri tipografici: quello normale e il corsivo, a cui, all’inizio, sembrano destinati il pubblico e il privato. Finché la Balzerani fa riemergere la sua infanzia, riusciamo a seguirla, anche se la narrazione è appesantita da uno stile liricheggiante che suona come una patina posticcia stesa sopra un accumulo di rancore e di odio. Odio verso i padroni, verso il quartiere operaio in cui è cresciuta, odio specialmente verso una madre che, nonostante tutte le dichiarazioni di amore tardivo con cui l’autrice si copre, appare fredda, colpevolizzante, sadica. Ma, finita l’infanzia, la storia privata diventa collettiva, la bussola si perde, la scansione tra corsivo e carattere normale non ha più motivo di essere. Post-brigatese e lirica si infiltrano a vicenda nei due diversi caratteri tipografici: restando però, magicamente, sempre separati, come se vita e politica, creatura e individuo, non potessero riabbracciarsi in un’identità completa. Perché la Balzerani entra nelle Br? Perché “da questa sfida mortale derivava la conquista di quel genere di identità che per distinguersi ha soprattutto bisogno di collocarsi al di qua di una autoreferenziale linea di confine da cui padroneggiare l’esclusione dell’altro”. Cosa pensa appena uscita dal carcere? “Che odore ha la sera? Non quello di euforia della terra bagnata. Non quello di panico della primavera in arrivo. Non quello di promessa d’amore del corpo imprigionato. Non quello di buono del pane del pacco di casa. (…) Dov’è vita? Dov’è io-vita?”. La retorica ideologica di ieri si ribalta nella retorica del sentimento di oggi, il brigatese nel sentimentalismo adolescenziale. Tra D’Annunzio ed Emma Bovary, l’immaginario degli ex brigatisti sembra proiettarsi in un mondo fatto di mistificazione e automistificazione: anche se, va detto a loro discapito, questo stile non sembra così estraneo a una certa retorica degli anni settanta. Lasciando perdere Erri De Luca (che ha scritto una piccola postfazione al secondo libro della Balzerani, “La Sirena delle cinque”, Jaca Book, 2003), viene piuttosto in mente colui che ancora oggi si merita la carica di intellettuale finissimo e di “cattivo maestro” delle nuove generazioni (a detta di Pisanu). “Ogni azione di distruzione e di sabotaggio ridonda su di me come segno di colleganza di classe. Né l’eventuale rischio mi offende: anzi, mi riempie di emozione febbrile, come attendendo l’amata…”. La fusione di brigatese e di lirismo spicciolo, evidentemente, trova il suo antecedente illustre in Toni Negri.

La sfasatura
C’è una strana ansia di legittimazione, in questi libri. Un desiderio di sussurrarci: sono un essere umano, anch’io (cosa che nessuna persona sana di mente metterebbe mai in discussione), ho dei sentimenti buoni, anch’io (come se il lettore dovesse necessariamente credere nel Male Assoluto). Ma l’ansia di legittimazione umana produce il suo esatto contrario: si è sempre più spietati con chi cerca, a tutti i costi, di restarci simpatico. Così come si è poco disposti a tollerare le ingenuità di chi ieri pretendeva di parlare a nome di tutti. È il rischio di chi si autoproclama avanguardia: volersi fare portavoce di un mondo di cui non segui gli umori, per poi ritrovarti, all’improvviso, delegittimato. Così, alla richiesta di legittimazione umana si affianca quella politica: richiesta che, per evidenti motivi di opportunità, si risolve spesso in un ambiguo “avevo torto ma avevo ragione”, e alla fine ne esce solo una narrazione ambigua, irrisolta, impossibile. Anche chi cerca di ricostruire dall’esterno quel conflitto fa fatica: nel cinema, nei libri, al terrorista spetta di solito la parte dell’alienato, incapace di articolare una frase o un pensiero.
Gli ex brigatisti lamentano questa riduzione caricaturale, ma non ammettono di essere i primi a non riuscire a parlare di sé. Ogni sintesi armoniosa di personalità e convinzioni politiche sembra impossibile, nei loro libri: i giorni della guerriglia vengono o trattati come un muto scialare di fatti, oppure vengono abbandonati nel nome di un’identità che si cerca nel prima e nel dopo, lasciando nel mezzo un buco nero. “La sconfitta è anche questo: ritrovarsi con gli alibi scaduti”, ad ammetterlo è Enrico Fenzi, autore di “Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate Rosse” (Costa & Nolan, 1998). Docente di letteratura italiana all’università, esperto filologo debole di stomaco, commentatore di Dante e Petrarca, Enrico Fenzi entra nelle Br a quarant’anni, senza avere mai prima militato in nessuna formazione politica o extrapolitica. Resta nelle Br qualche anno, viene arrestato, si fa la sua galera, esce e torna a scrivere saggi su Cavalcanti, Dante e Petrarca (l’ultimo, uscito due anni fa, conta quasi 700 pagine di analisi dedicate al cantore di Laura). Che dire di questa biografia accompagnata da un sottofondo, più che tragico, da operetta? “Ci sarebbe da ridere, se questo romanzo non fosse scritto col sangue”, come tempo fa scriveva Eco, commentando i comunicati Br. Apoteosi del desiderio di potenza dell’intellettuale specialista, il salto dal commento filologico alla rivoluzione di Enrico Fenzi nasce dalla necessità, scrive, di non essere un parolaio: “se ci pensavo, mi vedevo condannato a fare l’eterno tifoso della lotta armata, il simpatizzante perenne, il rivoluzionario da salotto e d’accademia segretamente frustrato…”. Ma l’ottica che sceglie Fenzi sembra essere l’unica capace di ricostruire un senso e una linearità esistenziale. La sua storia ha il coraggio di suonare prosaica, priva di eroismo, corredata di meschinità: e finisce per rivelarsi umana, proprio perché non cerca di dimostrarsi a tutti i costi tale. Fenzi ci racconta di uomini piccoli, incapaci di dare altra forma alla propria rabbia se non nel “salto” esistenziale. Nessuno sembra volere salvare l’umanità: piuttosto, si cerca il risarcimento per un trauma subito, per delle ambizioni non appagate. Finendo, paradossalmente, per alienarsi quel popolo per cui si dice di combattere, e per meritare il rispetto di quei settori delle forze dell’ordine e dei servizi segreti più filo-fascisti, contenti di poter combattere una guerra senza esclusione di colpi e, soprattutto, di trarne vantaggio. Un fallimento totale, conclude l’autore, “e se un filo c’è, e se vale qualcosa, esso sta solo nella dimensione personale dell’esistenza vissuta, e nel prezzo pagato: che non è solo quello della galera, ma quello degli affetti, della famiglia, del lavoro… della vita, anche, in molti casi. Si dirà giustamente che è quasi nulla, o in ogni caso non molto, dinanzi al sangue volutamente versato: poco o tanto, è tuttavia quello che è, e serva almeno a difendere i contorni di un principio di identità che, fin che resiste, non può fare a meno di esistere”.
Allo stesso livello del libro di Fenzi riescono a essere solo, in parte, i libri di Curcio e Franceschini. Ma entrambi non sono granché rappresentativi della lotta armata, visto che i due fondatori ne hanno vissuto quasi l’intera vicenda da carcerati. Così, Curcio finisce per raccontarci romanticamente delle sue “discontinuità esistenziali”, e Franceschini (“Che cosa sono le Br”, con G. Fasanella, Bur, 2004), dopo una prima parte molto interessante, termina col dimenticare la propria funzione di capo dietro le sbarre e le proprie responsabilità, per dedicare la seconda parte del libro alla ricostruzione di un panorama che deve molto alle tesi del complotto di Sergio Flamigni. Facendo gridare di orrore quasi tutti gli ex brigatisti, le Br diventano il braccio armato della Cia e della P2: vere o false che siano queste tesi (probabilmente esagerate: ma che almeno cercano di coprire i buchi investigativi cui gli ex Br rispondono facendo finta di niente), ciò che conta è che anche l’individualità di Alberto Franceschini muore, non appena si entra nel vivo della guerriglia. Quindi, in definitiva, l’unico libro che sembra riuscire davvero a raccontare la lotta armata dal suo interno è quello di Fenzi, una storia che parla più di frustrazione che di rivoluzione. E che non affronta veramente le motivazioni della lotta armata: sacrificandole alla sfasatura temporale, dando per scontato che, oggi, è ormai impossibile capire le loro ragioni. È perché i tempi sono troppo diversi che non si riesce a capire il percorso individuale dei brigatisti? Oppure già allora le loro ragioni erano deboli, settarie, alienate? Ciò che sembra evidente è che, a decenni dalla fine di ciò che viene chiamato da alcuni terrorismo e da altri guerra civile, il brigatismo non è riuscito a trovare una chiave con cui raccontarsi, se non quello di lasciare che le speranze rivoluzionarie sembrino pretestuose, senza che appaia spropositato il rapporto tra mezzi utilizzati e fini perseguiti, senza che l’avanguardia della classe operaia non sembri una combriccola dannunziana, moralmente misera, adolescenziale. Chiudendo così la propria esperienza nel nome di un doppio fallimento comunicativo: non compresi ieri dal popolo per cui dicevano di lottare, non riescono a farsi capire neanche oggi. E, forse, l’anello nascosto che rende tante autobiografie così ambigue e sfuggenti, potrebbe essere un sentimento che si avverte in sottofondo, ma che nessuno ha mai il coraggio di nominare: un forte, spietato desiderio di potere.

Vinti e vincenti
In un certo senso, gli edificanti retro di copertina hanno ragione. Leggere le autobiografie degli ex combattenti è il modo migliore per prenderne le distanze, per diradare ogni aura romantica, ogni leggenda alla Robin Hood. O ottuse o velleitarie, sembrano nascere malgré soi per evidenziare tutti i limiti umani e intellettuali di cui quella lotta si è nutrita, delineando i confini di un immaginario poverissimo. Probabilmente, qualcuno potrà obiettare usando le stesse argomentazioni di Moretti: che tutti questi libri non li esprimono, li falsificano, ma sarebbe un abuso di giustificazioni. A tenere insieme questo panorama, ormai disperso tra Comunione e liberazione, volontariato cattolico e sinistra più o meno istituzionale, restano le richieste corporative, e il desiderio di un migliore riconoscimento da parte dei vincitori. Riconoscimento – come parte in guerra – che mai è arrivato. Ma non si può dire che sia mancata l’attenzione. Attenzione interessata, certamente, visto che la società non perde mai occasione di celebrare se stessa: che ci facevano l’ex nera Mambro e l’ex rossa Mantovani in veste di ospiti di riguardo al meeting di Comunione e liberazione? Tanti abbasso la violenza e viva la vita, abbasso l’eversione e viva il mondo così com’è: o con me, o contro di me, in un’apoteosi di pacificazione e riconciliazione nel nome del Signore. “Chiunque ha riportato fino a oggi la vittoria”, scriveva Walter Benjamin nelle “Tesi di filosofia della storia”, “partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. La preda, come si è sempre usato, è trascinata nel trionfo. Essa è designata con l’espressione ‘patrimonio culturale’”. Ed ecco tutta la necessità di raccontare quegli anni, di creare immagini colorate o a tinte fosche da vendere sotto forma di anni formidabili o anni di piombo: ecco l’irruzione delle vite eccezionali ma normali dei combattenti, ecco gli ex leaders extraparlamentari riesumare la propria giovinezza tra poesia, violenza e assalti al cielo, mentre gli ex picchiatori fascisti rispolverano vecchie vicende tacendo ogni flirt con l’eversione nera (dove è davvero raro aver fatto un solo giorno di galera). In questa girandola, i potenti ricorderanno gli anni ruggenti in cui il nemico pubblico numero uno si chiamava terrorismo (e non richiesta di svolta democratica e riforma sociale) i combattenti ricorderanno i tempi in cui si volevano tanto bene, la guerra verrà dichiarata finita, la pacificazione raggiunta: che si parli di fascismo e antifascismo, che si parli di terrorismo rosso, nero o di stato, le banalità trionferanno in un tripudio di “ricordiamo il passato per non commettere gli stessi errori”. Il tutto, senza mai accennare alle questioni che hanno acceso il ’68 e che, ancora oggi, sono rimaste eluse. Ovvero, senza chiedersi: che cosa è stato veramente sconfitto, in quegli anni? “Le rivolte nei paesi dell’est”, scriveva Hannah Arendt nel ’69, “chiedono esattamente quelle libertà di parola e di pensiero che i giovani ribelli dell’ovest dicono di ritenere assolutamente irrilevanti. A livello delle ideologie, il tutto sembra privo di senso; lo è molto meno se partiamo dal fatto ovvio che le grosse macchine di partito sono riuscite dovunque a soffocare la voce dei cittadini…”. Questa richiesta di democrazia partecipativa sarebbe stata soffocata dal potere, ma, in pari misura, da chi di lì a poco avrebbe cominciato a gridare nelle piazze “Stalin, Beria, Ghepeù”, dimostrando una stupidità che la gioventù non basta a giustificare. La riduzione del complesso al semplice ha fatto scivolare la lotta sul terreno preferito del potere: finché, pochi anni dopo, il processo al Palazzo di cui parlava Pasolini sarebbe rinato in forma grottesca, incarcerando Moro in un covo dove il solo Mario Moretti aveva il compito di interrogarlo e condannarlo “a nome del popolo”.
Quando Scialoja gli ha chiesto se davvero credeva che le Brigate rosse potessero fare la rivoluzione, Renato Curcio ha vacillato. No, ha finito per rispondere, credeva piuttosto che potessero portare a una modifica delle strutture, stimolando una specie di “riformismo armato”. Un’idea bislacca, ma meno isolata di quanto potrebbe sembrare, se è vero che le Br degli inizi godevano di una certa simpatia. “Il tipo di consenso sociale che si forma attorno al terrorismo”, scriveva Henner Hess nella “Rivolta ambigua” (Sansoni, 1991), “dipende anche dall’immagine che la popolazione si fa di quei gruppi che ne sono vittime: della loro corruzione, più o meno sfacciata, delle loro tendenze fasciste, eccetera.” Problema, questo, che la nostra classe dirigente preferisce non porsi, trincerandosi dietro il silenzio: piuttosto che lasciare spazio al nuovo, è arrivata a gestire la strategia della tensione. Ma, di questa strategia della tensione, facevano parte anche le Br e gli altri gruppi giunti a far loro compagnia. A posteriori, è facile vederne gli esiti: un’operazione che non solo ha lasciato tutto intatto, ma che ha permesso che le cose scivolassero verso il peggio. I veri sconfitti della generazione del ’68 sono coloro che, ribaltando la massima di Fidel, credevano che prima dovesse venire la coscienza, e poi la lotta: e che più che morire con la rivoluzione si sono posti un serio problema di lascito alle generazioni successive. L’idea dialettica secondo la quale tanto più le cose peggiorano, tanto meglio perché più vicina si fa la rivoluzione, fa venire oggi un brivido lungo la schiena. Dal peggio nasce per forza il bene? O l’ancora peggio? Sarebbero diverse le cose, oggi, se ieri ci fosse stata meno mistica, martiri, rivoluzione e controrivoluzione? Sono le solite domande inutili, cui nessuno può rispondere: e che vanno solo a riesumare un patrimonio che sarebbe il caso di lasciarci alle spalle, con tutta la pesantezza dei suoi paradisi astratti, per ricominciare a porsi il problema della democrazia partecipativa in modo più laico e incisivo.

(tratto; da Lo straniero, n. 60, anno IX, giugno 2005)

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