Giovanna Marini: “Vi racconto il mio ’68” intervista a cura di Luca Valtorta

 

Dal Festival di Spoleto, dove ruppe una chitarra in testa ai fascisti, a quando, con Pasolini e altri registi, occupò la Sala Volpi al Festival del Cinema di Venezia fino ai concerti in America con Bob Dylan: “Voleva sempre suonare prima di tutti e poi non se ne andava più: era un gran rompicoglioni”.

C’è un posto dove è il ’68 tutti i giorni. È la Scuola Popolare di Musica di Testaccio, rione di Roma, fondata nel 1975 da Bruno Tommaso assieme ad altri musicisti tra cui Giovanna Marini che, da allora, tiene qui due frequentatissimi corsi: Estetica del canto contadino e Inni e canti di lavoro e di lotta. “Abbiamo una folta rappresentazione di uomini questa sera, di solito invece sono di più le donne. Mettiamoci subito a cantare”. Alta, capelli bianchi, un maglione a righe verticali, due paia di occhiali tenuti al collo con una catenella, Giovanna Marini porta magnificamente i suoi 81 anni. Dirige il coro, che è diviso tra uomini e donne, con naturale autorevolezza. Non è una cosa che si fa tanto per passare il tempo: “Bisogna studiare sempre ma a volte la parola ‘studio’ non combina bene con la parola ‘orecchio’: sembra contraddittorio ma cercate di seguirmi. Non studiate: cantate”. In questo mondo tutti leggono Repubblica, amano il supplemento culturale Robinson e c’è molta preoccupazione per il futuro del Paese: sono insegnanti, pensionati ma anche giovani attrici e musicisti, impiegati, precari. Alcuni fanno centinaia di km per partecipare al coro che poi parte spesso in trasferta: il 21 marzo, per esempio, c’è la Festa della Lega della Cultura di Piadena che sarà aperta proprio dal Coro di Testaccio. Un festival importante, con rappresentanze di cori da tutto il mondo: “Anche questo è un luogo storico: venivamo qui già ai tempi del movimento folk”.

Cosa succedeva nel mondo della musica nel ’68?
“Succedevano tante cose ma devo dire che noi il ’68 l’abbiamo preceduto di qualche anno. Nel ’64, grazie a Nanni Ricordi, siamo andati a Festival di Spoleto con uno spettacolo intitolato Bella Ciao, dove abbiamo cantato per la prima volta dopo la guerra, in un’importante occasione ufficiale, i canti popolari di lotta che durante il fascismo erano vietati. Alla fine degli anni Cinquanta era incominciata la ricerca del gruppo di Cantacronache di Torino: Michele Straniero, Sergio Liberovici ed Emilio Jona che oggi ha più di 90 anni e continua a scrivere bellissimi libri sui canti degli operai. Poi arrivarono Diego Carpitella e Alan Lomax dagli Stati Uniti. Prendevano le registrazioni originali sul campo e poi le trascrivevano con le note in modo da preservare queste testimonianze del nostro patrimonio culturale”.

E a Spoleto come vi accolsero?
“Successe l’ira di dio. Abbiamo cantato una ventina di canzoni contadine che, naturalmente, se la prendevano con i padroni e si era creata nella sala un’atmosfera di grande nervosismo. Quando Sandra Mantovani cantò ‘e nelle stalle più non vogliam morir…’ una donna urlò: ‘Posseggo duecento anime e nessuna di loro è morta nelle stalle!’, applausi da una parte e urla dal loggione. Poi Michele Straniero cantò una strofa di Gorizia che diceva: ‘Traditori signori ufficiali / voi la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / questa guerra ci insegni a punir’ nella sala che era piena di allievi ufficiali perché lì c’era la scuola. Scoppiò l’inferno. Spoleto era un festival di musica classica, c’era la nipote di Toscanini, molte signore bene tra cui una che disse: ‘Non ho pagato un biglietto da mille lire per sentir cantare sul palcoscenico la mia donna di servizio’. Non si era mai vista una cosa del genere. Però c’erano anche dei partigiani: c’era Bocca, c’era Mosca e nel loggione c’era la famiglia dei Piadena, numerosissimi e comunisti. Da sopra hanno iniziato a cantare Bandiera Rossa, hanno buttato giù delle sedie, da sotto hanno incominciato a cantare Faccetta Nera, ‘Evviva gli ufficiali’. Molti hanno iniziato a uscire e allora si è affacciato Mosca che grida: ‘Mo’ c’è la cernita!'”.

Come è finita?
“Un carabiniere gentile si è avvicinato e ci ha detto: ‘Quel signore dai capelli bianchi ha detto di andare subito via’. Quel signore era Gianni Bosio, praticamente il nostro capo, la persona che aveva organizzato tutto lo spettacolo, uno storico, un socialista bravissimo. Perché, se ci avessero fatto una denuncia lì sul momento e fossimo stati presi, con il codice Rocco saremmo dovuti restare in carcere fino al momento del processo perché era un reato d’opinione. Quindi siamo scappati nel bosco di Monteluco a passeggiare tutta la notte”.

E le denunce sono arrivate?
“Certo. E abbiamo avuto il processo, dopo un bel po’ di tempo”.

E poi?
“Sei mesi. Con la condizionale. Ma non era finita: i fascisti di Caradonna il mercoledì avevano comprato tutta la sala e noi non lo sapevamo: ‘Che bello, tutto esaurito!’, ci siamo detti. A un certo punto sono saliti sul palco e noi ci siamo difesi. Io con la mia chitarra, poi però mi sono ricordata che costava 300.000 Lire e ho smesso subito, ma Giovanna Daffini che aveva una chitarra da 20.000 Lire gliel’ha rotta in testa. Allora Gianni Bosio ha telefonato a un vecchio amico, Saetta, che si chiamava così perché aveva una macchina molto veloce e arrivava ovunque. Infatti è arrivato con i suoi amici camalli che da allora ci hanno fatto da servizio d’ordine fino alla fine degli eventi programmati. Anche quando andavamo per il paese perché poteva essere pericoloso”.

Lei era appena tornata dall’America dove ha suonato anche con Bob Dylan.
“Veramente a quei tempi, lo raccontavo anche a Francesco De Gregori, ‘il tuo Bob Dylan era un gran rompicoglioni!’. Lo chiamavano Zimmy e si infilava dappertutto, anche non chiamato. Al gestore del Club 47, in cui suonavamo, tutti i gruppi dicevano: ‘Se arriva quello con i riccetti non lo far suonare per primo, altrimenti si prende tutta la serata, mettilo dopo!’. E lui: ‘Certo, ma anche se arriva per primo vuole cantare subito’. Insomma, era un prepotente. E poi non ci piacevano le cose che cantava. Poi fece Blowin’ in the Wind, con cui ha spopolato, e ci siamo rassegnati”.

L’ha incontrato ancora?
“No. In realtà a Boston avevo una vita da mamma di famiglia, mio marito lavorava e io avevo i bambini da curare. Però qualche serata con il mio amico Woody, qualche serata in giro la facevamo”.

Woody Guthrie?
“No, no. Non riesco a ricordarmi il cognome ma era un nero che cantava i Salmi della Bibbia in un modo stupendo, con una voce bellissima con delle armonie create da lui, molto bizantine, molto ornate. Gli chiedevo: ‘Ma come fai a fare queste cose?’. E lui: ‘Ma mio nonno le cantava così’ e il nonno veniva dall’Alabama, quindi era un mistero, chissà dove le aveva sentite. Andavamo a cantare insieme finché gli adepti dell’American Society for the Defense of Tradition (la Difesa della tradizione nazionale, ndr) ci hanno fermati dicendoci che se avessimo continuato a cantare insieme al nero gli avrebbero spaccato la faccia e a me m’avrebbero fatto qualche altra cosa. Al che lui si è spaventato da morire. E io pure. Così abbiamo smesso senza proprio fare alcun atto di eroismo. Era un’America in stato di shock per la morte di Kennedy e in forte restaurazione con Johnson”.

Lei poi ha raccontato l’alienazione degli operai americani in un pezzo intitolato La sirena era alle cinque.
“Sì, c’era un cantante bravissimo che veniva anche lui a cantare al Club 47, si chiamava Phil Ochs ed era una persona delicata, deliziosa, completamente diversa da Zimmy, tant’è vero che Zimmy ha fatto carriera, lui invece ha finito per suicidarsi. Mi ha molto influenzato in quel periodo: il brano che lei cita racconta l’alienazione dell’operaio americano che viene consumata attraverso il consumismo, la televisione, le prime lavatrici…”.

Bob Dylan verrà a suonare a Roma, per tre giorni ad aprile, all’Auditorium di Roma: ci andrà?
“(ride) Ho sentito il disco di De Gregori in cui rifà le sue canzoni e devo dire che sono bellissime perché si è infilato proprio dentro Zimmy, è riuscito a essere più Zimmy di Zimmy, nelle melodie, nella scelta delle parole italiane: è bellissimo! Quando gliel’ho detto era contento perché ci ha pensato e lavorato moltissimo, e si sente. Sono questi giovani italiani che hanno amato questo benedett’uomo quasi in modo da sostituirsi a lui”.

L’ha ‘riportato a casa’, come direbbe lui. Invece, a lei, l’America cosa ha lasciato?
“Molte cose. Compreso il disastro dell’eroina che ho visto lì, in anticipo. Era talmente diffusa che penso ci fosse davvero un disegno dietro per eliminare una sinistra scomoda. E poi mi ha fatto conoscere in anticipo i disastri che avrebbe provocato il consumismo di massa, una cosa che in Italia, come al solito, solo Pasolini aveva capito”.

Poi lei ritorna, alla fine del ’67, in Italia. E comincia a percorrerla suonando.
“All’inizio, siccome avevo ancora i bambini piccoli, ospitavo un sacco di gente a casa come Pietrangeli e altri ma non potevo partecipare più di tanto se non in alcune occasioni: riuscivo a cantare da qualche parte, cose così. Comunque incontravi persone straordinarie: De Martino, Bosio, Cirese, Carpitella, antropologi che studiavano la musica in un certo modo e che hanno permesso di preservare un tesoro di canzoni popolari”.

C’è stato anche un momento in cui i canti popolari hanno avuto successo. Lo stesso Gianni Bosio teorizza che queste canzoni vadano diffuse il più possibile e fatte cantare ai divi, anche a scapito della filologia.
“Esatto. Infatti quando è venuto De Gregori a propormi di fare un disco gli dissi: Francesco, tu non lo sai ma stai mettendo in opera le teorie di Gianni Bosio. Lui ebbe quell’idea ma non riuscì a controllarla perché purtroppo morì, giovanissimo, nel ’71, a 41 anni. Il movimento folk andò avanti e grazie a questi studiosi vengono da tutto il mondo a studiare le nostre canzoni”.

Anche Vinicio Capossela, con Canzoni della cupa, ha fatto un lavoro di recupero. Voi però, ai tempi, sareste stati contrari?
“Certo, contrarissimi. Anche lui non sapeva nulla di come si fa una riproposta, di quanto abbiamo discusso se si doveva riproporre identico oppure no, coglierne lo spirito. Mi ha fatto sentire queste canzoni dove canta selvaggiamente Matteo Salvatore, che è un mito, e così via. Io gli ho detto: ‘Vinicio, tu l’hai fatto d’istinto e hai fatto bene perché comunque queste canzoni possono continuare a essere elaborate’. L’importante è che ne abbiamo una memoria corretta, poi le cose si possono modificare purché rimanga inalterato lo spirito”.

Tanto che a un certo punto lei si è ritrovato sul palco allo Sponz Fest di Vinicio con Gianni Morandi, che rappresenta il nazionalpopolare per eccellenza.
“(ride) Sì, quella sera Vinicio era felice. Arriva Morandi e lui gli dice: ‘Dai, canta Zompa la rondinella” e Morandi mi guarda e fa: ‘Che cos’è Zompa la rondinella?’. Gli dico: ‘Guarda, c’è un rullo su cui puoi seguire le parole’. Così Vinicio attacca e l’abbiamo cantata tutti e tre. Poi Morandi, avendo capito che non sapevamo niente delle sue canzoni, ci chiede di cantare insieme l’unica che potevamo conoscere: ‘Facciamo C‘era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones!’. E noi ovviamente la sapevamo. Ecco, lì ho capito cosa vuol dire un cantante popolare all’americana, nel senso ‘popular’, non contadino. Tutto, tutto il pubblico l’ha cantata insieme a noi”.

Gramscianamente il nazionalpopolare ha trovato un’incarnazione musicale.
“Una ricomposizione salutare, in effetti”.

Tornando al ’68, lei partecipò a un’altra grande contestazione: il 26 agosto al Festival del Cinema di Venezia.
“Un gruppo di registi e sceneggiatori, tra cui Cesare Zavattini, Gillo Pontecorvo, Pierpaolo Pasolini – che pure aveva un film in concorso, Teorema: ‘Mi piace essere in contraddizione’, diceva a chi lo criticava – decidono di boicottare il Festival e occupano la Sala Volpi. Finché arriva la polizia per sgomberarla. Quando il maresciallo vide Zavattini seduto sulla poltrona da Presidente dell’assemblea disse: ‘Maestro, la ammiro da sempre e approfitto dell’occasione per dirle grazie’. Poi, si volta verso i soldati e dice: ‘Per lui quattro’. E questi lo sollevano con tutta la poltrona e lo portano fuori: quasi un trionfo. Doveva essere un cinefilo perché li conosceva tutti e dava la valutazione: ‘Per questo due’ e così via fino a Marco Ferreri: ‘Questo lo caccio io!'”.

Lei ha lavorato con Paolo Pietrangeli al brano simbolo del ’68, Contessa.
“Una sera che eravamo a Rinascita (la storica libreria, ndr) in via delle Botteghe Oscure spuntò questo barbuto giovanotto con Michele Straniero che mi disse: ‘Questo è uno bravo’. Ma a me veramente non mi pareva tanto bravo. Poi il giorno dopo me lo riporta a casa, ed era molto simpatico. Lui e i suoi amici erano quel tipo di borghesia nascente a Roma che veniva dai quartier bene, si vedeva lontano un miglio. Io, sempre diffidente: ‘Ma cosa ci fanno questi qua?’. E Michele: ‘Non hai capito? Sono studenti…’. Erano molto simpatici. Così comincio a spiegargli come si fa a cantare e Paolo diventa veramente molto bravo. All’inizio non stavo ad ascoltare le parole, vedevo tutto solo dal punto di vista musicale; poi, quando mi fa ascoltare Contessa, gli dico: ‘Ma perché dici ‘prendete la falce’? Prendiamo, no? Che cos’è? Armiamoci e partite? Insomma, aveva ragione Michele: era davvero molto bravo. Non feci altro per Contessa, che diventò un inno, tutti la volevano. La suonammo molte volte insieme”.

(Pubblicato su Repubblica.it, 06 febbraio 2018)

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