Oltre l’apparenza della cronaca: Dalle macerie di Alessandro Leogrande di Angelo Ferracuti

 

Alessandro Leogrande potrebbe a pieno titolo rappresentare quello che Sartre diceva di sé stesso e del conio dell’intellettuale, del suo agire come osservatore militante della realtà del proprio tempo: “Non sono stato un uomo politico, ma ho avuto reazioni politiche a molti eventi politici; così la condizione di uomo politico in senso lato, ossia nel senso di uomo toccato dalla politica, compenetrato di politica, è una mia caratteristica”. Aveva questa natura corsara, esercitata con la pazienza mite dei giusti, una scrittura analitica, scevra da esercizi di stile, invece eticamente mirata, dettagliatissima e stratificata, piena di dati, una scrittura pensante, capace di costruire reportage ibridi, dove saggismo, narrazione e storiografia, geografia dell’anima, convivevano dentro un grande affresco antropologico, che di libro in libro diventava sempre più ricco. Nei libri come La frontiera (Feltrinelli), ridisegnando la geopolitica del sud del Mondo dilaniato da conflitti bellici, raccontava dittature sanguinarie, fughe disperate, ma continuava ossessivamente a guardare quello suo interiore di Meridione, facendo un giornalismo narrativo che era soprattutto cittadinanza attiva, cercando di analizzare dentro la città natale, che poi è anche un destino biografico, non solo le trasformazioni in corso, ma un suo conio inconfondibile e profondo, dove il passato riverberava nel presente.

Quest’attività di giornalista narratore, una sorta di diario in pubblico e grande reportage di formazione dentro le ferite di Taranto e di un Mezzogiorno che è specchio delle contraddizioni e involuzioni del presente, è ora un libro, Dalle macerie (Feltrinelli), con la prefazione struggente di Goffredo Fofi, che raccoglie gli articoli apparsi per lo più sul Corriere del Mezzogiorno. Leogrande, come ogni vero intellettuale, ha un rapporto simbiotico con la sua città, non la perde mai di vista neanche quando emigra e va a vivere a Roma, il suo “fuoco” è lì, come le persone che descrive nella città vecchia: “qui gli uomini e le donne finiscono per avere un rapporto strettissimo con il territorio fino a farne parte, fino ad esserne una sua protuberanza vitale”. Racconta e interpreta la stagione del “citismo”, il prototipo di una politica oggi più che mai di attualità interpretata già nei primi anni ’90 da Giancarlo Cito, “il Farinacci meridionale”, “sfascista” mediatico proprietario dell’emittente televisiva At6, presidente della squadra di calcio, sospeso tra malaffare, show televisivi trash, e azioni propagandistiche di piazza spesso a sfondo razzista e squadrista, già allora una figura dell’avvenire. “Il citismo come infanzia del grillismo”, profetizza, “quel populismo violento, nero, volgare che aveva angustiato la nostra giovinezza” dice. Leogrande lo descrive in un ritratto etologico piuttosto impietoso: “Il viso grasso e cascante, i pochi capelli castani rigirati nel riporto, il tono roco e berciante sempre e comunque, l’ostentata cadenza dialettale, gli occhi sgranati da felino in gabbia … Tutto il suo corpo, mastodontico, emanava virulenza, sopraffazione, cialtroneria”.

Un altro aspetto di questo prezioso libro (la cui sapiente scelta e il montaggio di materiali si deve a Salvatore Romeo) è il corpo a corpo con Taranto, la curiosità etica per la città, la vita dei suoi quartieri e il suo destino toponomastico, “l’autoritarismo e il caos” urbanistico, dove “l’edilizia ha dato allo Sviluppo la sua forma”, non solo a sud, come i poteri dei palazzinari nel tempo hanno impresso la propria matrice all’inurbamento votandolo al brutto, uno sviluppo che Leogrande definisce “selvaggio e insostenibile”. Nel racconto che fa del ventre della città quello che colpisce è la concretezza unita all’empatia, l’analisi politica e la narrazione corporale in presa diretta di chi si mette in gioco persino con i sensi, oltre che con la propria biografia, l’efficacia dei dati, come quelli della decrescita demografica della “città groviera” legata alla storia della monoproduzione siderurgica e all’Ilva, il “gigantismo industriale” dei “metalmezzadri”. Il dominio della “fabbrica matrigna” sul territorio è totale, quando Leogrande la descrive nello spazio del paesaggio, “dai balconi dei palazzi più alti è possibile scorgere le luci e le fiamme di una produzione eterna”, le sue morse tentacolari sviluppano il sottobosco degli appalti, impedisce nel territorio la diversificazione delle attività produttive. Nel raccontarla la viviseziona, ne sviscera con accanimento ogni problematica, contraddizione, va a parlare con gli operai, ricordando la Palazzina Laf, un reparto di confino dove erano stati trasferiti lavoratori scomodi e troppo sindacalizzati, e i giovani assunti dai Riva con i contratti precari di formazione lavoro, “il grado di sudditanza è impressionante” annota, “ed è una cosa che si ottiene giorno dopo giorno, esortazione dopo esortazione, intimidazione dopo intimidazione.” Il suo racconto pendolareggia sempre tra ieri e oggi, mette insieme “cose vecchie e cose nuove”, il palinsesto complesso della città dell’acciaio sorta nel 1960, prima Italsider, industria di Stato nata da una colonizzazione della politica centrale, poi privatizzata e venduta alla famiglia Riva, quindi emblema di quel conflitto tra salute e lavoro che chiude un’epoca che in nome della piena occupazione, o lo scambio tra occupazione e profitto, il 75% del pil cittadino, restano le macerie di inquinamento e morte (386 persone morte dal 1998 al 2010).

Leogrande è riuscito a tenere in vita con la sua condotta un autentico ruolo d’intellettuale anche ai tempi della sua scomparsa sulla scena sociale, e questo ruolo l’ha esercitato e difeso fino all’ultimo (pochi giorni prima di morire aveva firmato una lettera pubblica indirizzata alle Ong, pubblicato proprio dal Manifesto, chiedendo di rifiutare il bando del governo italiano per “migliorare” i centri per migranti e rifugiati in Libia, che aveva definito senza mezzi termini “campi di concentramento”) un gesto politico per sottrarsi alla condizione dello scrittore marginalizzato da una parte, e dall’altra di utilizzare uno strumento narrativo, il reportage, come pochi altri capace in questa nostra epoca di raccontare la complessità di un mondo in fortissima trasformazione, in definitiva una risposta realista a un contesto segnato dall’iperfinzione e dallo storytelling. Come Salvemini, Gramsci, Rossi-Doria, Tommaso Fiore, era convinto che “non ci può essere trasformazione d’Italia senza la trasformazione del Sud. Pertanto non c’è altro da fare che cambiare il Sud per rivoluzionare l’Italia: combattere le camorre, la fame, l’ingiustizia, sbloccare una società bloccata, creare nuove classi dirigenti”.

“Un libro funziona davvero quando introduce un nuovo sguardo sul mondo, quando mette insieme punti apparentemente slegati tra loro, quando fa intravedere un nuovo ordine del discorso, quando rivela sotto nuova luce qualcosa che era sotto gli occhi di tutti” aveva scritto. Questa era la sua dichiarazione d’intenti, quella di uno che stava sempre di più “mettendo a fuoco”, ma anche l’essenza vera del racconto sociale, la capacità di utilizzare in un impianto giornalistico quelle che sono le tecniche del narratore nell’uso espressivo della lingua, nel ritmo, soprattutto nel montaggio e la scelta di materiali efficaci e di senso, da intrecciare dentro lo stesso racconto, con lo spirito ossessivo e visionario di chi voleva stare dentro le ferite del proprio tempo, guardando oltre l’apparenza ingannatrice della cronaca.

[Questo articolo è apparso sul “manifesto”, pubblicato da Massimo Gezzi in

Parole e le cose.it]

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