Pioggia e lacrime. Su certi dettagli di Maggio ’68 di Marcello Tarì

 

L’evento puro

Poco tempo prima del Maggio – ve n’è uno solo di Maggio – Gilles Deleuze dava un’intervista a Les Lettre française a proposito della sua collaborazione all’edizione delle opere complete di Nietzsche per l’editore Gallimard della quale era “responsabile” insieme a Michel Foucault. La conversazione vira molto presto verso l’attualità; un’attualità che restringere a quella del dibattito accademico sarebbe, come sempre quando si tratta di Deleuze, un errore. Alla questione su quali fossero i problemi della filosofia contemporanea Deleuze dà una lunga risposta, tuttavia qui ci interessano solo alcune righe, quelle in cui è detto «la gente non crede più granché all’Io, ai personaggi o alle persone. In letteratura è evidente. Ma è qualcosa di ancora più profondo: voglio dire che spontaneamente molta gente comincia a non pensare più in termini di Io» (Sur Nietzsche et l’image de la pensée, in G. Deleuze, L’île déserte et autres textes 1953-1974, Les éditions de minuit, p.190). Ciò che invece stava emergendo era un mondo fatto di individuazioni impersonali o singolarità pre-individuali. Insomma, quello che divinava Deleuze era un panorama che, sempre più, sarebbe stato senza Soggetto.

È questo mondo di non-soggetti che nel Maggio ’68 fa la sua violenta e catastrofica entrata nella Storia. Contro di essa. Poiché la storia moderna dell’Occidente, che è la sola storia con la S, non era stata mai altro che Storia di Soggetti – soggetto-individuo, soggetto-sociale, soggetto-classe – e quindi una storia di poteri, fino all’identificazione tecno-politica di soggetti e potere nella nostra contemporaneità. Per mantenersi in piedi il capitalismo ha infatti dovuto creare dei soggetti del tutto artificiali, vuoti, evanescenti, dei soggetti-dispositivo: la controrivoluzione è anche, se non soprattutto, un sistema di produzione di soggettività. Tuttavia, dopo di allora, mai più è comparso un Soggetto.

In questo affondamento dell’Io, insieme all’emersione di «milioni e milioni di Alice in potenza», era l’energia rivoluzionaria che fece fondere il 1968. Ed è per questo che il Maggio non appartiene alla Storia ma, come disse Deleuze più tardi, è un evento, di più, un evento puro. Un evento puro è un piano che taglia il reale e si libra sul tempo storico, una discontinuità nella vita, una biforcazione del divenire – era Blanqui che diceva già: «ogni istante avrà il suo bivio» – e in quanto tale non è prodotto da una causalità o da qualche determinismo sociale e non si produce a sua volta in alcuna necessaria continuità storica. Il Maggio è fuori e contro la Storia. En passant: il ‘68 che in Italia durerebbe 10 anni è una leggenda storicista e di sinistra, cioè una narrazione dove la cosa più importante è sempre la continuità: della storia, della teoria e ovviamente del soggetto, poco importa la sua aggettivazione (per intenderci la teoria dell’operaio sociale segna una discontinuità solo esteriormente, ma rimane quella di un soggetto operaio). Questo continuismo ad oltranza, ad esempio, è la critica che si può fare a un libro per altri versi eccezionale come è L’orda d’oro di Moroni e Balestrini. Ma è anche, forse, uno degli elementi che più in generale hanno determinato in Italia delle storture nella trasmissione rivoluzionaria di generazione in generazione, trasmissione che si è fatta discorso di movimento, opinione pubblica e pratica politica.

Invece l’evento puro è perfetto in sé: Maggio ’68 non è mai finito, perché non ha mai avuto un fine esterno a sé. Il suo gesto agì non solo in estensione, diffondendosi nella società, ma in profondità, sulla verticale dell’esistenza singolare. Maurice Blanchot lo disse chiaramente: Maggio ha compiuto la sua rivoluzione e i tratti di ciò che una politica tradizionale considera delle sconfitte, sono invece testimonianza del compimento della sua opera. Infatti, e dovremmo tenerne ben conto proprio oggi, Deleuze sostiene che esso non fu, allora, il risultato di una crisi, al contrario, è lui, il sisma del ’68 che ha scatenato la crisi «esistenziale» del comando capitalistico che stiamo viviamo sempre più intensamente. Ma proprio per questo solo un altro evento puro, un’altra coupure, un’altra interruzione generale, più potente ancora del Maggio, potrà mettervi fine e aprire dei possibili. Quali? Non lo sappiamo, non possiamo saperlo, ma non è davvero importante.

Gli eventi puri – un’insurrezione, l’apparizione di un’amicizia, l’irruzione di un amore – non solo permettono a un’epoca o a un’esistenza di approfondire la propria potenza, ma essendo qualcosa che fa fare un salto alla storia e alla vita stessa, creano un fuori e compongono un cielo, un cielo notturno del quale gli eventi più intensi sono le stelle. Per questo, anche una volta che l’insurrezione si chiude, che la rivoluzione viene asfissiata, che l’amore scompare, come le stelle restano nel cielo a illuminare i nostri cuori, le nostre esistenze impersonali, le vite clandestine nella notte. Da allora per molti e molte vale quello che Hörderlin diceva per sé: «La notte, chiara per la luce delle stelle, era diventato il mio elemento» (Iperione). E quando le belle stelle scompaiono, come i sogni davanti ai raggi del mattino, non resta che combattere ancora per l’insurrezione, comporre le forze di una rivoluzione, incontrare un viso che amerai e un amico con cui condividere tutto questo. Creare un fuori, rifare un cielo, popolarlo di astri. In quel Maggio accadde che il cielo di ciascuno si confondesse col cielo di tutti. Un firmamento di stelle filanti che incendiava il mondo, un dis/astro per il capitale.

Senza quel fuori nessun cielo, nessuna stella. Provo della pena per chi oggi crede che il fuori non sia neanche pensabile perché, scambiando il pieno del capitalismo per una totalità assoluta, essi non vedono i frammenti che brillano nella notte, non credono alla possibilità dell’evento puro. Devono essere disperati.

La «cultura» è sempre da destituire

Deleuze diceva che nella letteratura degli anni Sessanta la destituzione del soggetto-Io era già evidente prima ancora che iniziasse l’insurrezione, ma lo si potrebbe dire egualmente per il cinema, la musica, la pittura e il teatro. Attraverso la scomposizione delle forme del linguaggio e dei suoni e delle immagini, si facevano nuovi montaggi che si incarnavano in dei corpi, sfondavano la Legge e si articolavano in nuove forme d’esistenza.

Per chi ne volesse contezza, si procuri il bel libro rosso di Cristina De Simone, Proféractions! Poésie en action à Paris (1946-1969), Les presses du réel, 2018. È l’arte e non la sociologia ad anticipare sempre la tendenza. A patto che un arte vi sia e che coloro che si pongono in un divenire rivoluzionario siano capaci di entrarvi in contatto. Questo è uno dei nodi dell’epoca, voglio dire di quella che stiamo vivendo (vivendo?). Insomma, pensate davvero che il ’17 sarebbe stato possibile anche senza le tre M di Meyerhold, Maleviç e Majakovskij?

Cerchiamo di capirci un po’su questa cosa della “cultura”. Si sente da più parti del piccolo mondo dell’antagonismo enunciare un certo discorso sulla necessità di non fare gli schizzinosi e quindi di doversi interessare alle forme “artistiche e culturali” care ai cosiddetti giovani delle periferie (Oh Cristo! che siano un altro soggetto?). Benissimo, ci mancherebbe che non ci si interessi a qualsiasi forma di consumo culturale metropolitano, solo con due precisazioni. La prima è che cercare di capire non significa adeguarsi a qualsiasi cosa e che questo interesse ha senso se si prova ad alzare il livello, a sperimentarsi sulle forme, non ad abbassarsi tutti a quello che passa il convento. Ha ancora più senso se si riesce a strappare certe forme, certi significanti, dal loro contesto per farne un altro uso. Ma per fare questo bisogna anche finirla con questa missione di cui ci si autoinveste per cui si tratterrebbe di «intercettare» (i soggetti, va da sé) per poi «politicizzarli», insomma la vecchia idea della coscienza che va introdotta dall’esterno ma in una versione caricaturale. Ma no, fatevi voi intercettare, abbandonatevi al mondo, e così scendete al fondo dell’epoca che è sempre il fondo della nostra stessa vita.

La seconda precisazione è che esistono tante forme di espressività artistica, alcune delle quali sono già dentro un divenire rivoluzionario: facciamocene gli assistenti invece che assecondare qualsiasi fenomeno presuntamente «popolare». Finiamola davvero con questa retorica che la “gente” non capisce, questo sì che sarebbe avere un atteggiamento discriminatorio anche se apparentemente dalla parte del “popolo”, sottintendendo un’incapacità quasi ontologica dei proletari a potersi emancipare dalla cultura più scadente prodotta per loro. Anche ai tempi dell’Ottobre c’era chi diceva a Majakovskij che quello che faceva non era adatto al popolo: troppo elaborato, troppo raffinato, troppo “astratto” perché degli operai potessero goderne. Ovviamente era un discorso del tutto falso e, per dire, i teatri di Mosca erano pieni e vivi anche e specialmente durante la guerra civile. In ogni caso il realismo socialista che fu opposto alle avanguardie era una schifezza allora e lo rimane. E ricordiamoci che ogni prodotto della cultura occidentale è frutto di barbarie, come diceva Benjamin, e che quindi non si tratta affatto di salvarla bensì di destituire il dispositivo che fa dell’arte una dimensione separata dalla vita tanto in quanto merce che in quanto attività ristretta ai più vari codici normativi che la rendono inoffensiva.

Arriva il giorno nel quale “fare cultura” è prendere a martellate una vetrina, innalzare diecimila barricate, gettare la poesia sui muri, far scivolare la mia lingua negli angoli segreti del tuo corpo, fare di ogni incontro un accordo musicale, bruciare tutto, anche se stessi. Qu’il vienne, qu’il vienne/Le temps dont on s’eprenne.

Dettagli

Nei primi mesi del 1968 tre ragazzi greci, tra i quali ve ne sono due che diverranno celebri negli anni Settanta coi nomi di Demis Roussos e Vangelis, fuggono da Atene e cercano di raggiungere Londra. Loro sono gli Aphrodite’s Child e fanno musica, pop-rock progressivo come si diceva all’epoca. Ma arrivati al confine della perfida Albione vengono respinti come si fa con gli immigrati non graditi. Quindi restano bloccati in Francia, a Parigi, dove hanno la ventura di incontrare un discografico che gli fa un contratto e gli permette di cominciare a registrare. Fanno in tempo a incidere un solo brano, visto che siamo in Maggio e verso la metà del mese anche i lavoratori del disco entrano in sciopero come tutto il resto della popolazione. Il brano inciso porta il titolo di Rain and Tears. È una canzone d’amore, come tutte quelle dell’epoca, ma è un amore che risente dell’atmosfera parigina di quel mese. Infatti, anni dopo Demis Roussos raccontò che i torrenti di lacrime erano quelli scatenati dalla tempesta di lacrimogeni che in quei giorni investì Parigi e la pioggia era quella che cadde copiosa in quel prodigioso Maggio. Non fu il loro disco che vendette di più ma fu, giustamente, quello che restò come quello più di “culto”, poiché letteralmente impregnato di quell’epoca, di quell’evento. Un dettaglio.

Solo pochi giorni prima che venisse Maggio, un giornale francese pubblicò un articolo che diceva che la Francia si annoiava e Leslie Kaplan, in uno scritto potente che ha pubblicato quest’anno, Mai 68, le chaos peut être un chantier (P.O.L., 2018), racconta che questa noia era fatta di silenzi (silenzio sulla tortura in Algeria, silenzio sugli immigrati che vivevano nelle bidonville, silenzio sulla miseria, silenzio sull’avvenire dei giovani), di desolazione – «che non è la solitudine, ma il fatto di sentirsi soli, abbandonati, da e dentro la società» – e di altri desolanti silenzi come la connivenza, la menzogna, e «il discorso, il discorso, il discorso…» (p.12-13). È per questo che in molti identificheranno il gesto rivoluzionario del Maggio nella «presa di parola» – si diceva, «nel 1789 presero la Bastiglia, oggi prendiamo la parola», il che significa che nello stesso gesto si distrugge e si costruisce.

Scrive Leslie Kaplan:

parlare veramente significa rovesciare il mondo abituale, convenuto, mettere il mondo alla rovescia.

Avere in testa il graffito scritto su di un muro:

siate realisti, domandate l’impossibile

è un processo infinito, in ogni

senso

(p.22)

Non solo, allora, i “discorsi” sono insufficienti ma sono proprio essi, che vengano da destra o da sinistra, che impongono alla parola di liberarsi, di rifare interamente un linguaggio, un corpo nuovo.

Allo stesso momento è del modo di vivere il tempo che l’insurrezione di Maggio permette di fare esperienza, l’esperienza della sua sospensione:

inventare un tempo

essere in un fuori-tempo

un tempo sospeso

strano

ma palpabile

(p. 36-37)

Si tratta di una parola-fuori e di un fuori-tempo che risuonano in dei corpi: l’insurrezione è poesia in azione. Ed è per questo che è importante comprendere la genealogia del ’68 anche a partire dalle «ricerche sulla poesia-performance degli anni 1950-1960, le quali aspirano a una poesia definita come azione e che cercano di legare arte, vita e politica in una sola forma di impegno (…) esse aprono diversi cantieri che prendono slancio da altrettanti rifiuti: quello dello spettacolo, quello del linguaggio della propaganda politica e pubblicitaria, quello del libro» (Cristina De Simone, p.13).

In questo nuovo modo di conversare nel e col mondo emergono le singolarità, e qui la lingua non discorsiva di Leslie Kaplan ci riporta all’inizio, a Deleuze:

si tratta di singolarità, non di «identità»

l’identità, vuol dire essere conforme a una definizione

la singolarità, al contrario, è venuta fuori da un’esperienza,

da un movimento, dalla vita

essa si poggia sul dettaglio

(p. 38)

Il dettaglio, i dettagli, ecco cosa i movimenti permettono di far emergere a fronte delle grandi strutture molari. Recuperare questa attenzione ai dettagli è il compito che abbiamo da svolgere oggi, e perciò ci è necessario non solo l’esercizio del pensiero, l’esperienza del gesto sovversivo, ma la poesia, il cinema, il teatro, la pittura e tutto quello che permette di sospendere il tempo, rifare il linguaggio, rifare i corpi, rifare un mondo per creare uno spazio abitabile dalla singolarità.

Di pioggia e lacrime abbiamo bisogno. Che arrivino a fondersi di nuovo: la pioggia di singolarità, le lacrime dell’insurrezione.

Rain and tears are the same
But in the sun you’ve got to play the game

(pubblicato sul sito: qui e ora)

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