Giovani trentenni e oltre di Diego Giachetti

 

Nell’introduzione al rapporto sulla Condizione giovanile in Italia (Il Mulino, 2018), si sottolinea che i giovani dell’Italia presente sono gli interpreti del proprio tempo e la loro condizione disegna il futuro del nostro paese. Prima che interpreti, i giovani sono il riflesso delle condizioni del paese, sulle quali si basa attualmente il possibile divenire. Dopo che ministri dell’economia e del lavoro li avevano chiamati bamboccioni e choosy (schizzinosi), una purtroppo possibile e nefasta profezia statistica si prospetta. Un ventenne nel 2004 impiegava altri dieci anni per costruirsi una vita autonoma. Nel 2020 dovranno passare 18 anni per raggiungere lo stesso risultato (arrivando quindi a 38 anni di età). Infine, crepi l’astrologo statistico, si paventa che nel 2030 di anni ne dovranno passare almeno 28. Ammettiamo che siano previsioni catastrofiche, ma una cosa è certa: oggi ogni ricerca sulla condizione giovanile adotta ormai una fascia generazionale che va dai 15-16 anni fino a 35 L’età “giovanile” si è dunque prolungata, rimandando nel tempo l’assunzione di ruoli e funzioni tipiche degli adulti.

Il prolungamento della condizione giovanile non è una conquista ma il risultato di come è andata organizzandosi la società capitalista post moderna nella quale il mercato, senza sé e senza ma, ha voluto avere la piena libertà d’azione e ha prodotto finora almeno due generazioni di precari, di lavoratori intermittenti, mal pagati, con scarsi o nulli contributi ai fini pensionistici. La precarietà lavorativa rappresenta un ostacolo al conseguimento dello status di adulto e alla definizione di progetto di vita a lungo termine; tutto ciò incide sui loro atteggiamenti e sulla partecipazione alla vita sociale e politica.

Giovani e lavori del XXI secolo

Gli effetti della crisi del 2008 hanno pesato sulla condizione giovanile: dieci anni fa il tasso di occupazione tra i 18-29enni era di circa il 50%, dieci anni dopo il valore si attesta al 36,5%; il 37,8% dei giovani tra il 15 e il 24 anni non trova un lavoro, il 19,1% appartiene alla categoria della di neet generation, ovvero quelli che non studiano e non cercano un lavoro. Le cose non migliorano per la classe di età compresa tra i 25 e i 29 anni, che detiene il peggior tasso di occupazione di tutta Europa, attorno al 54%. A tutto questo va aggiunto che l’Italia è il paese europeo con la più alta la percentuale di contratti atipici. Ne consegue che la famiglia continua a svolgere per i giovani una funzione importante di cura, assistenza e aiuto economico. Non per caso quindi siamo il paese in cui si esce più tardi dalla casa dei genitori, in cui le madri hanno l’età media più alta del continente alla nascita del loro primo figlio. Difatti, oggi si parla di emancipazione dei giovani-adulti nella famiglia dei genitori, di conquista di spazi di libertà in famiglia, perché non riescono ad affrancarsi da essa.

 Generazione, classi sociali, diseguaglianza

Una crisi socio-economica endemica ha segnato negativamente tutte le classi generazionali. Nel caso delle ultime generazioni si può misurare uno svantaggio generazionale dovuto mancanza di lavoro, lavoro precario, basse qualifiche e salario. Esiste quindi un conflitto tra generazioni, oppure si tratta dell’accentuarsi delle diseguaglianze sociali che riguardano tutte le generazioni? La diseguaglianza intergenerazionale non è cresciuta perché le generazioni delle età anziane hanno particolarmente migliorato la loro situazione, ma perché è peggiorata la condizione degli adolescenti e dei giovani. Nelle nuove generazioni la condizione delle donne è più critica: difficoltà a entrare nel mercato del lavoro combinata con la facilità di perderlo, una più accentuata precarietà con la conseguenza di più basse retribuzioni e instabilità economica. Il part time è cresciuto non per scelta delle lavoratrici, ma perché utile alle imprese, come strumento di flessibilità e perché sulle donne continua a ricadere in larga misura il compito del lavoro domestico e dell’assistenza ai figli o ai parenti. Eppure, alcuni “sapienti” hanno voluto segnalare, col gioco di alcuni numeri, che le differenze di genere sul mercato del lavoro si sono ridotte. Certo, ma la verità va detta tutta: si è trattato di un livellamento al ribasso, dovuto al fatto che gli uomini hanno visto peggiorare la loro situazione occupazionale e retributiva.

Scuola e lavori.

Una parte consistente dei giovani vive per molti anni all’interno del processo formativo scolastico di cui non mettono in discussione le tradizionali finalità culturali, cognitive e relazionali. Segnalano però l’opportunità di affiancare a tali obiettivi la promozione di competenze abilitanti sul versante professionale e lavorativo, una maggiore sinergia con la società e in particolare col mondo del lavoro. È una richiesta che coincide con quella della propaganda aziendale che scarica sulla scuola la difficoltà a trovare un’occupazione, tacendo ovviamente su dati strutturali di fondo che restringono il bisogno di manodopera, dovuto al nuovo processo di automazione e informatizzazione e a causa della crisi di sovrapproduzione che ciclicamente angustia il processo di accumulazione del capitale. Detto questo, cosa pretendono le aziende dai giovani che si affacciano sul mercato del lavoro? Certo competenze tecniche, ma soprattutto versatilità, adattabilità a una società dove il lavoro cambia continuamente, dimodoché si possa transitare da un lavoro precario a un altro. In generale una bassa scolarità si lega alla probabilità maggiore di avere un lavoro precario e dequalificato. Ma anche tra chi ha una scolarità più elevata, la possibilità di trovare un lavoro adeguato alle famose competenze acquisite è incerta, semplicemente perché la crisi del sistema economico e sociale coinvolge il ceto medio basso e alto in un processo di declassamento.

 Valori

Emerge una generica propensione al cambiamento e alla valorizzazione della relazione sociale: ricerca della novità, enfatizzazione delle relazioni interpersonali, promozione dell’umana convivenza (giustizia, pace, uguaglianza), sono i valori preferiti dai giovani-adulti italiani. Valori come cambiamento e novità possono essere declinati in modi diversi, ad esempio chi non ha una condizione lavorativa stabile, è a favore del cambiamento inteso come miglioramento della propria posizione sociale; d’altro canto cambiamento può essere inteso come capacità di adattarsi alle “nuove” condizioni poste dal mercato del lavoro: bassi salari, precarietà, disoccupazione intermittente. Distinguendo i giovani in due fasce d’età si scopre che questa scala di valori non è mantenuta nel tempo. Se tra i giovanissimi, fino a vent’anni, essa ha al primo posto la ricerca della novità e del cambiamento, dopo tale aspettativa tende a diminuire man mano che entrano in contatto con le difficoltà dell’inserimento nel mondo del lavoro, cioè quando scoprono che il perseguimento dei propri obiettivi può risultare faticoso e che novità e cambiamento si concretizzano in una serie di passaggi precari lavorativi che deprimono e inficiano la stessa vita sociale e intima, precarizzando anche i sentimenti e le relazioni.

La ricerca evidenzia l’interesse dei giovani per l’uso dei social network, con un atteggiamento critico volto a segnalare gli abusi e i pericoli insiti in questa nuova forma comunicativa. Altrettanta sensibilità critica è rivolta verso le problematiche riguardanti l’infertilità di coppia e le varie proposte mediche possibili per avere figli da parte di chi non è in grado di averne. Il fenomeno migratorio è percepito in modo duplice e non si discosta molto da come esso viene oggi declinato oggi. L’ambivalenza si manifesta nella distinzione che fanno tra immigrazione irregolare e quella regolare e, in quest’ultimo caso, il giudizio cambia. Le nuove generazioni sono coinvolte in una trasformazione significativa del modo di vivere la dimensione religiosa. Non piace più la religione di Chiesa, istituzionalizzata, col proprio bagaglio di verità, di regole, di gerarchie, di esperienze, si preferisce una religione soggettiva cercata e costruita in un percorso di ricerca interiore, che costruisce un trascendente a partire dalle domande di senso della vita.

 Sindacato e politica

Essendosi appena concluse le celebrazioni del mezzo secolo dal ‘68, il paragone è inevitabile. A differenza di allora le nuove generazioni sembrano una forza debole, poco attiva e poco coinvolta nei processi di cambiamento. Forte è la sfiducia nei confronti della politica e della classe dirigente in generale, accusata di incapacità di guidare il paese verso la crescita e la riduzione delle diseguaglianze e di non essere in grado di coinvolgere attivamente le nuove generazioni nei processi decisionali. La portata rilevante del calo di partecipazione è stata tale da far dire a esperti del settore che si tratta di una generazione di invisibili – piuttosto che figli del disincanto, com’erano definiti quelli degli anni Ottanta e Novanta – ripiegati su se stessi, socialmente “leggeri”, più spettatori che attori. Le nuove generazioni sono un “insieme di singoli, ognuno con una propria tattica di difesa anziché una forza sociale in grado di schierarsi in attacco per conquistare un futuro” (p.110). Procedono divisi e ognuno per sé, nella società e nel mondo del lavoro, sono deboli dal punto di vista dell’azione collettiva. Se nel passato il sindacato ha avuto un ruolo importante nel conquistare tutele, diritti, migliori condizioni di lavoro e di vita per i lavoratori, oggi le nuove generazioni non individuano più immediatamente in esso un soggetto capace di cambiare la situazione. Più dei due terzi ammette che il sindacato potrebbe dare rappresentanza al loro disagio se sapesse rinnovarsi profondamente.

Timori e preoccupazioni non vengono meno quando si parla di partiti e di politica. Il comportamento o non comportamento politico dei giovani segnala una bassa adesione ai partiti tradizionali e una forte disaffezione generalizzata. Il 35% del campione esprime un’intenzione di voto elevata per un partito, nell’ordine: M5S, Lega, Pd, Forza Italia, altri partiti di sinistra e di destra, Fratelli d’Italia. Il “partito” di gran lunga maggioritario è quello della disaffezione: circa il 40% si colloca tra coloro che non assegnano alcuna preferenza e nemmeno intenzione generica di voto. Disaffezione, disorientamento e scarsa fiducia nella politica sono collegati alla preoccupazione per la loro condizione sociale e lavorativa. Problema rispetto al quale si sentono abbandonati al solo aiuto delle famiglie d’origine in un sistema sociale considerato ingiusto e iniquo e per questo motivo responsabile di una parte dei fallimenti e degli insuccessi personali e collettivi. Ritengono che una positiva risposta a questo problema necessiti preliminarmente un deciso rinnovamento delle forme della partecipazione politica e sindacale, ma non nutrono illusioni circa la possibilità che esso avvenga, né sanno indicare modalità operative per costruire collettivamente una risposta organizzata. Unico faro è la permanenza di una partecipazione al volontariato e all’associazionismo che mostrano ancora buone capacità di coinvolgimento dei giovani, fino a forme minoritarie ma significative di impegno politico attraverso i centri sociali o la partecipazione ai movimenti di protesta.

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