Cesare Bermani e l’altra cultura. Da Ernesto de Martino e Gianni Bosio fino a Gramsci, una vita da storico militante di Noemi Ghetti

 

Che la storia la scrivano i vincitori non è sempre vero. C’è tra gli storici una minoranza di ricercatori che potremmo definire inattuale, non nel senso di un ritardo, ma perché in anticipo sui tempi. Una minoranza che per l’originale metodo di lavoro non è largamente accolta dai contemporanei. Bisogna attendere la crisi di conformismi culturali e di ideologie radicate perché le loro scoperte vengano accettate. È il caso di Cesare Bermani che, nel solco dell’invito gramsciano, da molti decenni lavora per la totale «inversione di valori sociali e storici», corollario indispensabile alle «vere rivoluzioni, che fanno epoca nella storia». E nella certezza che nulla oppone «tanti ostacoli alle innovazioni quanto il linguaggio».

Per questo è stato tra i primi a utilizzare sistematicamente le fonti orali, usualmente ignorate dalla storiografia ufficiale. Le vive testimonianze di quelle masse subalterne che, pur non avendo mai avuto voce nella storia, da oltre un secolo la fanno sul campo. Munito, oltre che di registratore e microfono, di passione civile e rigore scientifico, a partire dai primi anni sessanta ha portato alla luce e consegnato alla storia tesori altrimenti destinati ad essere perduti.

A Cesare Bermani, che è stato tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino e collaboratore di Gianni Bosio, chiediamo di rievocare gli esordi della sua formazione di storico.

 Sono stato un militante del Partito Comunista Italiano dal 1955 al 1970. Poi nel Manifesto e in Rifondazione. Nell’estate 1963 Roberto Leydi stava lavorando al primo volume di Canti sociali italiani. Mi convinse a collaborare con lui e così iniziai una intensa ricerca sul campo, che mi portò a raccogliere in poco più di un anno un centinaio di canti sociali in molteplici versioni. Le registrazioni le facevo in casa dei compagni o nei circoli operai e, assieme alle canzoni, raccoglievo racconti e storie di vita, che mettevano in discussione quanto sapevo allora della storia del movimento operaio attraverso le letture e la mia attività politica. Che cominciò a sembrarmi, a differenza della ricerca sul campo, qualcosa che mi allontanava dalla realtà piuttosto che farmela conoscere.

In dicembre di quell’anno cominciai a lavorare a Milano alle Edizioni Avanti!, dove conobbi Gianni Bosio che stava scrivendo Il trattore ad Acquanegra sul Chiese, il primo libro di storia che utilizzava le fonti orali alla stessa stregua delle altre fonti. Rimasto purtroppo incompiuto e a lungo inedito per la morte del suo autore nel 1971, il libro potè uscire da Dedalo, curato da me, solo nel 1979. Dei Canti sociali italiani uscì solo il primo dei cinque volumi previsti, perché si capì che quel progetto era superato dall’ampiezza che aveva assunto la ricerca, e che era meglio realizzarlo con la produzione di dischi. Bosio ed io, più che Leydi che ci abbandonò per dissensi ideologici nel 1966, puntavamo a fornire al movimento operaio, attraverso i Dischi del Sole (ne abbiamo prodotti 276 tra il ’60 e l’80) e gli spettacoli del Nuovo Canzoniere Italiano, un organico repertorio di canto sociale.

Nel 1965, XX anniversario della Resistenza, la Sezione Anpi di Grignasco mi incaricò di scrivere un opuscolo commemorativo sull’82a Brigata garibaldina Osella. La ricchezza dei racconti partigiani che in quell’occasione venni registrando era tale, che non scrissi l’opuscolo ma Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia in 5 volumi che, iniziati nel 1971, finirono di uscire nel 2000. Queste esperienze di ricerca mi portarono ad ampliare le mie riflessioni sulla cultura orale e la sua importanza anche per la politica. Intensificai le ricerche sul campo studiando le migrazioni interne e documentando la vita del partito in cui militavo, dalle riunioni di sezione agli scontri di piazza.

Mi ero tra l’altro convinto che il registratore fosse uno strumento imprescindibile di democrazia, perché stendere un verbale scrivendo all’ascolto e non registrando fa sì che chi verbalizza finisca per scrivere quello che gli fa comodo, e non quanto si è effettivamente detto. Io facevo i verbali della mia sezione dopo avere registrato, cosa che mi ha portato in qualche occasione davanti alla Commissione di controllo del Partito, perché non piaceva ai funzionari non potersi eventualmente smentire.

Quale è il nesso tra studio del canto sociale e quello del canto popolare?

Spesso non è possibile razionalizzare un canto sociale senza conoscere il canto popolare che ne è stata la matrice. Per cui è bene raccogliere tutto. Io, benché ateo, mi sono occupato anche di canto popolare religioso. E ho anche effettuato un’ampia ricerca sul mondo magico dell’Abruzzo teramano.

Il volume Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria (Colibrì 2007), corredato di due CD audio, raccoglie le pubblicazioni della sua pluridecennale ricerca sull’autore italiano oggi più tradotto al mondo. Ne emerge un’immagine non canonica dell’uomo, del pensatore e del politico. Come è arrivato a Gramsci?

Gramsci nel Partito era citatissimo ma in realtà poco conosciuto e soprattutto poco utilizzato. Sin dagli anni Cinquanta ero affascinato da quanto scriveva su quello che avrebbe dovuto essere la democrazia interna di partito. Ma quel partito che Gramsci auspicava non era il P.C.I. di Togliatti, per cui anche la lettura e le censure che l’opera di Gramsci aveva subito per farla quadrare con “la linea del Partito” l’avevano snaturata.

La spinta a occuparmi intensamente di Gramsci mi venne però dall’attività che svolgevo in seno all’Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario, che mi spinse a studiare le esperienze che in precedenza si erano occupate di cultura proletaria, in particolare quelle all’interno del populismo russo e del bolscevismo. Qui mi imbattei nel Proletkul’t, in Bogdanov e Lunačarskij, persuadendomi rapidamente che proprio qui andava ravvisato uno dei poli importanti dello sviluppo del pensiero di Gramsci, incredibilmente sottovalutato dagli studiosi italiani.

La certezza di essere nel giusto la ebbi ascoltando i racconti orali di molti suoi compagni su come Gramsci intendesse la cultura proletaria. Carlo Boccardo, Giovanni Casale, Giuseppe Frongia, Maurizio Garino, Alfonso Leonetti, Aldo Magnani, Teresa Noce, Ercole Piacentini, Michele Salerno, Battista Santhià, Umberto Terracini, Carlo Venegoni e Andrea Viglongo mi permisero di capirlo, di ricostruire il periodo di confino a Turi di Bari e di venire a sapere dell’alone di sospetto che esisteva tra i dirigenti del Partito a proposito degli scritti di Gramsci, considerati pericolosi.

Interesse per la realtà umana e per i vinti della storia – donne, bambini, operai, contadini, immigrati – unito a grande trasparenza e insofferenza per le ortodossie. In un momento in cui lo studio della storia è bersaglio delle riforme scolastiche, quale messaggio per la fondazione di un nuovo umanesimo socialista possiamo lanciare ai giovani?

Se non ve la insegnano a scuola, trovate il modo di studiare egualmente la storia. Il mondo è grande e terribile, diceva Gramsci. Ed è più vero che mai oggi che il pericolo nucleare e la distruzione ambientale incombono. Seguite l’esempio di Greta Thunberg e non dimenticate che solo con la continua lotta per un mondo più umano e vivibile, non razzista, potremo sopravvivere. E andate avanti a lottare con pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, ma anche con curiosità di sapere e voglia di vivere.

(Roma, 15 maggio 2019, pubblicato sulla rivista Left)

image_pdf

Lascia un commento