Il destino dell’intellettuale /4. Il Sessantotto e la cultura di massa di Rino Genovese

 

Sarebbe possibile rilanciare oggi la funzione dell’intellettuale, anche in senso politico, sulla base dell’umanesimo, intendendo con esso la custodia vivente di una tradizione (per secoli simboleggiata dallo studio del greco e del latino e, più in generale, dalla ricerca filologica e storiografica), così come la sua proiezione in un’immagine universalistico-illuministica, punta di diamante di un Occidente messaggero di civiltà sull’intero pianeta? Questo modo enfatico, in certi casi addirittura colonialista, di presentare la “missione del dotto” è morto o no? E se lo è, se l’umanesimo fosse finito da tempo, magari già con la divisione tra le “due culture”, che ne sarebbe dell’intellettuale sempre chino sulle sorti del mondo e di se stesso[1]? Inoltre – questione più decisiva ancora –, si potrebbe considerare una politica intellettualmente connotata, cioè non pura e semplice amministrazione dell’esistente, come umanistica, una politica di rispetto dei diritti umani ovunque, nulla di più e nulla di meno?

Nell’avviarmi a cercare una risposta a queste domande, mi viene da soffermarmi sul libro del giovane amico Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere[2] (così, con due maiuscole), che, pur essendo limitato all’Italia e a una ricognizione della letteratura italiana contemporanea (in cui ha avuto la cortesia d’inserirmi, ma ciò è secondario), è un buon biglietto d’ingresso alla questione. Il nesso inscindibile tra l’essere umanisti e l’essere intellettuali in questo lavoro appare scontato. È il presupposto di ogni ulteriore presa di posizione: a cominciare da quella intorno alla condizione di “orfanezza” come la chiama l’autore, e che consiste nel ritrovarsi, trentenni, con una tradizione letteraria e civile alle spalle ormai in pezzi. Che cosa farne, dei cocci? Ridurli «ad ancora più piccoli frantumi?» (e sarebbe il caso, aggiungo io, di una critica fissata al particolare), oppure «incollarli l’uno all’altro pur sapendo che la riparazione, comunque illusionistica, reggerà lo spazio di un istante?»[3] (ed è piuttosto la soluzione di un’estetizzazione midcult). I prodotti dell’ “alta cultura” – ci suggerisce Tricomi – si danno ormai solo come scorie: a noi resta il compito di testimoniare la loro caduta e di rivisitare, da critici, i loro frammenti.

Ciò che colpisce è la sintonia di fondo tra le idee del giovane Tricomi e quelle di uno come Asor Rosa[4], quarant’anni e passa più di lui. Certo, il secondo ha dietro di sé un passato operaista tinto di nichilismo, e forse neppure da anziano sottoscriverebbe a cuor leggero la disarmata professione di umanesimo che emana dalle pagine del primo (Tricomi, del resto, influenzato da Gramsci e dalla sua lettura della storia italiana, operaista non avrebbe potuto esserlo, pur prescindendo dalla differenza di età), nondimeno il punto di accordo tra i due è vistoso: non esiste più, è stata cancellata, soprattutto in Italia, la funzione civile e pubblica dell’intellettuale o dello scrittore intellettuale, come Tricomi lo definisce facendo sua un’espressione rafforzante di Romano Luperini. Oggi, ben più che ai tempi di Liala, sembra si possa scrivere senza capire un’acca del mondo in cui si vive, solo per gioco o per cercare di far soldi con la cosiddetta letteratura. Le cause del disastro sono pressoché le stesse per Asor Rosa e Tricomi. Il primo parla di un “intellettuale collettivo”, la televisione, che avrebbe scalzato la funzione svolta dagli intellettuali un tempo[5]; il secondo evoca la “società dello spettacolo”, quella della mercificazione dispiegata secondo Guy Debord, che avrebbe distrutto la possibilità stessa di una critica della cultura.

In Tricomi, tuttavia, c’è in più l’accusa neanche tanto velata al Sessantotto (su questo punto opera lo scarto generazionale rispetto ad Asor Rosa) di avere preparato il terreno, sia pure involontariamente, alla successiva eclissi dei valori e, per quanto riguarda l’Italia, anche al berlusconismo televisivo, prima, e a quello politico dopo. La cattiva modernizzazione degli anni sessanta e settanta avrebbe fatto da prologo alla successiva catastrofe culturale italiana. Due i punti di riferimento per tale giudizio: da una parte, certo, l’influsso del Pasolini critico del movimento studentesco; dall’altra, la sostanziale continuità che Tricomi vede tra il Sessantotto e il Settantasette, con il passaggio attraverso gli “anni di piombo”, quando parla di un unico “Movimento” con la maiuscola (e qui agisce su Tricomi piuttosto l’opinione di Nanni Balestrini). A uno sguardo maggiormente differenziante, però, la stagione’68-’69, quella delle lotte operaie e studentesche, appare qualcosa di molto più circoscritto e diverso dai tempi che seguirono, fatti d’interminabili controversie tra gruppi politici tutti più o meno dogmatici, di una completa perdita d’influenza del Pci sui movimenti, di una nuova leva militante, che in parte entrò nelle organizzazioni terroristiche e in parte diede vita alla radicalizzazione priva di sbocchi del ’77. Cosicché, senza timore d’irritarlo, mi sentirei di definire Tricomi, per il modo in cui legge la storia italiana recente, un conservatore di sinistra, riecheggiando la sua definizione di Pasolini come un “reazionario di sinistra”.

In realtà il Sessantotto fu l’ultimo momento in cui un’intellettualità progressista (adopero a bella posta questo aggettivo generico e secondo molti ormai inutilizzabile), in maggioranza giovane, prese la parola collettivamente. E lo fece a Est come a Ovest rompendo gli steccati in modo indisciplinato: ciò che a qualcuno alla ricerca di nuove regole, come Tricomi, non va giù. Arriverei a sostenere che Pasolini, nonostante il suo sadomasochismo mediatico, vi rientra a pieno titolo. Nessuna delle sue provocazioni – dalle prese di posizioni a favore del “passato” e delle culture “altre”, allo scandalo dei primi nudi maschili al cinema, fino a quelle più inattuali come la contrarietà a una legge sull’aborto – può essere compresa senza il Sessantotto, che evidentemente poteva prevedere il suo stesso rovesciamento anticonformistico. Perciò, sebbene il manifesto cinematografico sessantottesco italiano sia stato firmato piuttosto da Marco Ferreri con Dillinger è morto, e la sua rabbiosa anticipazione da Marco Bellocchio con I pugni in tasca, è piuttosto nell’attività di Pasolini che va ricercato il significato di quella indisciplina: che consisté in una fame di spostamento dei punti di vista rispetto a una visione delle cose bloccata, e rispetto a una politica internazionale chiusa nella divisione del mondo in zone d’influenza.

Non si può allora sostenere, come pensano taluni, che il Sessantotto fu l’ultimo trionfo dell’ideologia (intendendo con il termine una fusione di passione e intelletto): perché fu invece un momento di modificazione ideologica, sia pure mediante l’intervento di miti che alla lunga, o anche a breve, si rivelarono illusori come tutti i miti. L’esaltazione del “terzo mondo”, delle sue possibilità liberatorie (in cui era compresa la rivoluzione culturale cinese, per quello che allora se ne sapeva o se ne voleva sapere), della resistenza vietnamita all’aggressione statunitense, la stessa mitologia operaistica, o la lotta contro le istituzioni compresa quella psichiatrica, sono da vedere come altrettante mosse per un rinnovamento dell’ideologia della sinistra fuori dalla gabbia imposta dalla guerra fredda e dalla coesistenza tra le superpotenze. Sono spostamenti del punto di vista che solo a posteriori possiamo considerare limitati oppure sbagliati; a quei tempi, però, servirono a smuovere le acque.

Tra le acque che si smossero, ci furono quelle “classiche” dell’umanesimo, che peraltro anche in precedenza difficilmente si sarebbe potuto considerare come un unico blocco di valori compatto. Persino nella versione socialista, quella certo più vicina allo spirito del Sessantotto (che tra l’altro fu l’anno della “primavera di Praga” e della sua repressione), l’umanesimo aveva conosciuto la corruzione stalinista. Come ha detto una volta Michel Foucault, che da giovane era stato iscritto al Pcf, «Stalin era umanista». Ciò non poteva che indurre il sospetto intorno all’umanesimo. Per questo il pensiero del Sessantotto (ammesso che se ne possa parlare in termini univoci), rompendo con il passato, fu implicitamente o esplicitamente critico dell’umanesimo. E appare oggi del tutto coerente che il giovane Tricomi, che si riallaccia alla sua tradizione, metta in un solo fascio la sua caduta e il Sessantotto, chiamando di volta in volta a testimoni, o collocandoli sul banco degli accusati, gli autori di cui discorre.

Sebbene con l’imputare al Sessantotto gli anni sciamannati che ne seguirono, Tricomi faccia un po’ come quelli che considerano Marx il primo responsabile degli orrori del cosiddetto socialismo reale, il suo libro, tuttavia, ci parla di un aspetto decisivo della questione: perché l’umanesimo si dà ancora nel Novecento solo per essere distrutto, senza che una sinistra intellettuale, nel frattempo delusa e dispersa, sia riuscita a elaborare un pensiero di ricambio al di là di un antiumanismo teorico reattivo quanto di breve durata. Così il secolo è tramontato, un altro se n’è aperto, senza che quel sentimento della fine che aveva accompagnato l’avventura intellettuale novecentesca sia riuscito a finire.

[1] Cfr., da ultimo, J. Habermas, Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, trad. it., Roma, Laterza, 2011, p. 8: «[…] non dovrei sottacere l’occupazione favorita degli intellettuali: essi indulgono sin troppo nel comune lamento di rito sul tramonto dell’intellettuale. Confesso di non andarne del tutto esente neppure io».

[2] A. Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea, Macerata, Quodlibet, 2010.

[3] Per le citazioni, ivi, p. 8.
[4] Si veda la “puntata” precedente di questo lavoro.

[5] Cfr. la già menzionata intervista sugli intellettuali: A. Asor Rosa, Il grande silenzio, cit., pp. 95 sgg. È appena il caso di segnalare che “intellettuale collettivo” è l’espressione con cui Gramsci designava il partito comunista: prendere in considerazione la televisione in questi termini, significa attribuirle una funzione politica di organizzazione del consenso.

(pubblicato sul sito: www.leparoleelecose.it)

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