I vuoti e i pieni dell’università italiana di Andrea Toma

 

Vivalascuola. Lo stato della (delle) università

Con le dimissioni del ministro Fioramonti è stato archiviato il problema delle risorse per l’università e la ricerca. Ci ritorniamo con un articolo ampio e documentato sullo stato dell’università italiana di Andrea Toma, uscito sul n. 70-71 della rivista Gli Asini, che Vivalascuola propone per gentile concessione della redazione, a cui vanno i nostri ringraziamenti. Segnaliamo, sullo stesso numero della rivista, l’articolo Noi e gli zombetti di Livio Marchese, acuto e positivamente provocatorio sugli studenti della scuola secondaria, di cui qui presentiamo un assaggio.

I vuoti e i pieni dell’università italiana   di Andrea Toma

Non è facile districarsi nell’interpretazione dei dati che riguardano l’università italiana e i suoi risultati, perché non è chiaro l’obiettivo prioritario che l’università italiana sta perseguendo in questi anni. L’opacità dei fini – che, di fatto, ha spiazzato il contenuto dell’articolo 34 della Costituzione laddove attribuisce ai capaci e ai meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi – è figlia di un assoggettamento del ruolo dell’università a determinanti economiche (soprattutto in termini di contenimento dei costi) che ne hanno condizionato la natura e la sua organizzazione. Guardando anche solo ai momenti fondamentali dell’accesso e degli esiti degli studenti italiani, non si può non ravvisare il rafforzamento dei meccanismi selettivi che in questi anni si sono via via dispiegati, tradendo nella sostanza il contenuto dell’articolo 34. In questo senso, può essere utile ricorrere alle analisi dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Secondo quanto riportato nell’ultimo Rapporto pubblicato quest’anno (Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca, 2018), i numeri fondamentali – citati direttamente – su cui riflettere e, in seguito, fare alcune osservazioni, sono i seguenti:

Meno iscritti, meno docenti

– Nell’anno accademico 2017/18 risultano iscritti circa 1 milione e 665 mila studenti. Di questi, più di un milione (il 63% del totale) è iscritto a corsi di laurea di durata triennale, circa 305 mila studenti a corsi biennali e circa 309 mila a corsi a ciclo unico. La numerosità degli iscritti, con l’eccezione dell’a.a. 2016/2017, è in costante decrescita a partire dal punto di massimo raggiunto nel 2005/06, in connessione con gli effetti temporanei della riforma del 3+2. Negli ultimi anni il numero degli iscritti continua a ridursi, riflettendo la diminuzione dei tempi medi di conseguimento del titolo e il corrispondente aumento dell’incidenza degli studenti regolari.

– Nell’anno accademico 2017/18 gli immatricolati (iscritti per la prima volta al sistema universitario) hanno raggiunto le 290.857 unità, segnando un incremento di 22.000 unità (8,2%) rispetto all’a.a. 2013/14 e riportandosi sul livello registrato nel 2008/09; prevale ormai stabilmente la componente femminile: la quota delle studentesse è di circa il 55%. Nel 2017/18 gli immatricolati sono aumentati in misura significativa al Nord e al Centro (rispettivamente 11,2% e 11,9% rispetto al 2013/14 e 7,1% e 3,2% rispetto al 2010/11) e di poco nel Mezzogiorno (2,2% rispetto al 2013/14, ma -7,2% rispetto al 2010/11).

La percentuale di abbandoni degli studi tra il I e il II anno in quattro anni è scesa da quasi il 15% a poco più del 12% degli immatricolati nel 2016/17, per i corsi triennali, dal 9,6% al 7,5% per quelli a ciclo unico.

– La maggiore regolarità e minore dispersione nei percorsi di studio ha innalzato la quota di laureati sulla popolazione: l’aumento nell’ultimo triennio è stato pari a 2,7 punti tra i 25-34enni, riducendo il divario rispetto alla media europea di un punto percentuale; permane tuttavia un ampio ritardo, pari a 12,1 punti percentuali nel 2017. Esso è quasi interamente attribuibile alla formazione terziaria a carattere professionale, che ha ancora una dimensione trascurabile nel nostro paese, e ai cicli universitari brevi (corsi triennali). Se si restringe l’analisi ai cicli universitari di II livello (per l’Italia, magistrali o di vecchio ordinamento), la quota di laureati in rapporto alla popolazione già nel 2016 è in linea con la media europea e superiore al Regno Unito e alla Germania.

Il tasso di occupazione dei giovani laureati (25-34 anni) è salito dal 61,9% nel 2014 al 66,2% nel 2017. Negli stessi anni, quello dei diplomati è rimasto sostanzialmente stabile e inferiore al 64%. Dal picco del 2014 (17,7%), il tasso di disoccupazione dei giovani laureati è sceso ogni anno, fino al 3,7% nel 2017, livello inferiore di 2 punti percentuali a quello dei giovani diplomati (nel 2010 il divario era di segno inverso e pari a 3 punti).

– Dal 2008, anno in cui ha toccato il suo massimo storico, il numero di docenti universitari ha registrato un calo ininterrotto fino a quasi stabilizzarsi nel biennio 2016-17 su un livello inferiore del 14,9%. A causa dei limiti posti al turnover, il reclutamento è stato in media pari a un terzo del flusso in uscita, dovuto essenzialmente ai pensionamenti. Questa flessione ha innalzato il numero di studenti per docente che oggi è fra i più alti dell’area Ocse. Le carenze più acute si registrano nel Nord-Ovest, dove più intensa è stata la ripresa delle immatricolazioni. Una flessione rispetto al 2008 ancora più accentuata (15,7%) ha interessato il personale tecnico-amministrativo.

Diminuiscono le risorse, aumentano le tasse

Da questo quadro emergono alcuni segnali che la stessa Agenzia, tuttavia, non nasconde.
Da un lato entra in gioco la variabile territoriale che differenzia notevolmente gli esiti complessivi a svantaggio delle aree meridionali. Dall’altro occorre considerare il generale ridimensionamento delle risorse destinate alle università, che si è tradotto però in una differente capacità di attrazione o mantenimento degli studenti negli atenei, condizionando anche in questo caso la disponibilità di risorse per ateneo. Infine, un elemento essenziale è rappresentato dalla possibilità di spesa delle famiglie nel mantenimento agli studi in rapporto ai costi che esso determina.

Un primo passaggio selettivo è vissuto dai giovani al momento del conseguimento del titolo di studio superiore e la possibilità di accedere all’università. Prendendo in considerazione la popolazione dei 19enni riferita all’anno accademico 2017/18, pari a 582mila giovani, il numero di chi ha raggiunto la maturità nel periodo considerato è stato pari a 465mila giovani (80% circa). Di questi, 213mila si sono iscritti all’università (46%) con un calo di poco più di seimila unità rispetto all’anno accademico 2007/2008, ma in crescita rispetto ai 194mila dell’anno 2013/2014. In sostanza, su 100 diciannovenni solo 37 si iscrivono all’università. Un risultato che, alla luce del numero non elevato di laureati presenti in Italia, non sembra possa essere interpretato positivamente.

La scelta dell’università da frequentare è, poi, guidata a livello individuale da diversi fattori: i costi di mantenimento agli studi, l’eventualità di riuscita nel conseguimento della laurea (possibilmente entro tempi brevi e con garanzie più o meno solide dal lato delle opportunità occupazionali), la qualità del servizio garantito dall’università.

Anche se non esaustivi di tutti i fattori di scelta, questi citati sono però alla base di alcuni fenomeni che in questi anni sono emersi e che stanno condizionando non solo la vita degli studenti, ma anche delle famiglie e dei territori da cui provengono gli studenti.

Un primo dato grezzo, comunque influente sulle scelte, è rappresentato dalla tassa di iscrizione negli atenei. Considerando quelle statali, il valore più alto è quello del Politecnico di Milano, con 1.930 euro per l’anno accademico 2016/2017. All’opposto, l’università stata con le tasse più basse è Camerino con 383 euro. In media nelle statali si pagano 1.236 euro. Dal punto di vista regionale, la Lombardia in media presenta il contributo più alto (1.670 euro), seguita dal Trentino Alto Adige (1.463 euro), mentre le regioni con il livello più basso di contributo richiesto sono la Basilicata (775 euro) e la Sardegna (830 euro).

Fra le università non statali il contributo medio più elevato è richiesto dalla Bocconi di Milano (10.252 euro), seguita dall’Università di Scienze Gastronomiche di Bra in provincia d Cuneo. I contributi più bassi sono quelli richiesti dall’Università per stranieri di Reggio Calabria (608 euro) e, in genere, dalle università telematiche (comunque superiori ai mille euro e alcune vicine ai quattromila euro).

È evidente da questi dati che il fattore delle tasse non sembra contrastare la maggiore attrattività che le università centrosettentrionali esercitano nei confronti degli studenti meridionali. In un recente studio del Censis sul Mezzogiorno si leggeva:

Solo per l’anno accademico 2014-2015 dal Mezzogiorno al Centro-Nord si sono spostati quasi 23mila giovani, ma nel 2010-2011 il flusso aveva interessato 27mila 530 immatricolati e nel 2006-2007 già superava le 26mila unità. Nei tre anni accademici considerati la quota di immatricolati “emigrati” per studiare al Centro-Nord si è attestata intorno all’8% sul totale delle immatricolazioni. Il flusso in uscita dal Sud al Nord ha incrementato, negli anni osservati, la quota degli universitari di provenienza dalle regioni meridionali che, nell’anno accademico 2014-2015, ha raggiunto il 9,3% sul totale degli iscritti. Sia per gli immatricolati sia per gli iscritti, i flussi in “entrata”, e cioè dal Centro-Nord al Mezzogiorno, sono oggettivamente trascurabili, se non fisiologici. In breve, per quanto riguarda gli iscritti, nell’anno accademico 2014-2015, gli studenti meridionali frequentanti le università del Centro-Nord hanno raggiunto la cifra di 168mila”.

Impoverimento delle università meridionali

Ma come dare torto alla scelta di chi preferisce trasferirsi se, al di là del raggiungimento della laurea, il tasso di occupazione dei laureati a uno-tre anni dalla laurea è del 77,6% al Nord e appena del 41,3% nel Mezzogiorno? Ma nello stesso tempo come non considerare che il costo stimato per il Mezzogiorno, conseguente a questo “esodo” e proiettato nei dieci anni successivi all’anno accademico considerato, porta un effetto di impoverimento delle università meridionali che supera il miliardo e 220 milioni di euro, una differenza di spesa delle famiglie pari a 1,2 miliardi di euro e una disponibilità aggiuntiva per le università del Centro-Nord che raggiunge i 2,5 miliardi di euro?

Nel quadro di questo impoverimento dei territori meridionali e di maggiore impegno economico delle famiglie, negli ultimi anni si è anche consumato un progressivo concentramento di risorse pubbliche al Nord. Come ricorda ancora l’Anvur:

Le entrate complessive delle università statali, così come risultano dai conti consuntivi riclassificati degli atenei, sono state nel 2015 pari a 12,3 miliardi di euro, lo 0,4% in più rispetto al 2014, e il 9,3% in meno rispetto al massimo raggiunto nel 2008. In termini reali le entrate sono ancora inferiori a quelle del 2001, con un calo del 17,2% rispetto al 2008”.

Tuttavia al Nord le entrate complessive crescono in termini relativi, fra il 2009 e il 2015, dal 42% al 44,8% sul totale Italia, grazie anche a entrate come contratti, convenzioni, accordi programma con altri ministeri, con l’Unione Europea, o anche ricavate da attività commerciali, tariffe per l’erogazione di servizi agli studenti, ecc. Nello stesso tempo le università meridionali perdono peso relativo sul volume di risorse, passando nei sei anni dal 29% al 28,4%. Ancora peggiore il risultato delle università delle regioni centrali, che perdono 2 punti percentuali sul totale delle entrate. Ma, nell’ottica del processo selettivo che appare inaggirabile per l’università italiana e che le poche risorse destinate al diritto allo studio non sono in grado di contrastare, un ultimo aspetto vale la pena di considerare: la rilevanza del numero chiuso nell’accesso ad alcuni corsi di laurea o, come meglio definito dal punto di vista normativo, ai corsi di studio ad “accesso programmato”.

Il mercato del “numero chiuso”

I corsi di studio ad accesso programmato (che, come afferma l’Anvur, “consentono alle università di bilanciare la propria offerta formativa rispetto al fabbisogno del mondo del lavoro”) sono stati introdotti dalla legge 264/1999 e seguono due modalità: a livello nazionale, dove i test di ammissione sono gestititi direttamente dal Miur e riguardano i corsi di laurea magistrale a ciclo unico in Architettura, Medicina e chirurgia e Odontoiatria e protesi dentaria, e i corsi di laurea triennali e magistrali delle professioni sanitarie, e a livello locale, decisi invece dai singoli atenei che per l’anno accademico 2017/18, considerando sia gli atenei statali che quelli non statali, sono stati 994, per un totale di posti programmati pari a circa 163mila.

Su questo aspetto può essere utile riportare il contenuto di una testimonianza – diffusa su un social, ma che mantiene un apprezzabile grado di obiettività – firmata da un professore ordinario di medicina e riguardante la partecipazione del proprio figlio ai test di ammissione di Medicina.

Nella doppia veste di docente e padre, il professore ha messo in luce gli elementi deteriori di questo meccanismo che, a suo avviso, amplifica le diseguaglianze sociali e non va “nella direzione universalistica che è sempre stata propria del nostro sistema di istruzione, agevolando e selezionando i meritevoli e i capaci, benestanti e non”. Soprattutto quando costringe i ragazzi a iniziare la preparazione ai test già dal quarto anno delle superiori, a subordinare lo studio delle materie scolastiche e il raggiungimento del massimo profitto scolastico, al momento della maturità, alla preparazione dei test, ad alimentare un sistema di insegnamento privato che richiede una spesa superiore ai 10mila euro per allievo.

Nell’ultima tornata di settembre della selezione, si sono presentati in 68.694 alla prova per 11.568 posti disponibili. Supponendo che il 10% degli iscritti abbia sostenuto un costo medio di preparazione di 10mila euro, il “mercato” collegato al solo test di medicina sfiorerebbe i 70 milioni di euro… Eppure gli oppositori all’abolizione del numero chiuso portano argomenti tutti incentrati sulla “sostenibilità” degli atenei in un quadro di risorse decrescenti o comunque limitate e sulla necessità di garantire un livello adeguato nella qualità della formazione che un allargamento degli accessi condizionerebbe pesantemente. E, in effetti, il contenimento dei costi, la riduzione delle risorse e i pochi margini di flessibilità concessi per garantire l’attività delle università ha prodotto in sostanza un “congelamento” delle strutture organizzative che – come nel resto del settore pubblico – ha progressivamente sclerotizzato il sistema universitario, più deciso a garantire chi sta dentro (il costo del personale viaggia intorno al 70% delle risorse degli atenei statali; solo lo 0,2% degli ordinari ha un’età al di sotto dei 40 anni e la metà ha più di 60 anni) e sempre meno disposto a dare seguito a quanto stabilisce l’articolo 34 della Costituzione.

(Pubblicato sul sito vivalascuola, 03/02/2020)

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