Antisemitismo di ritorno di Rino Genovese

 

L’antisemitismo riaffiora, riemerge dalla latenza. Perché è una sorta di basso continuo che accompagna l’intera storia del mondo occidentale, dal medioevo a oggi; e può essere considerato un barometro circa l’aria che tira nei rapporti della nostra cultura con l’alterità in generale. Quando questi rapporti entrano in una situazione di sofferenza conclamata, rispunta un antisemitismo mai veramente scomparso. L’ebreo è l’altro interno per antonomasia, quello che da sempre è qui e da sempre ci minaccia. L’antisemitismo è un razzismo molto specifico, il suo discorso non ha bisogno neppure del termine “razza” in senso biologico per esprimersi: c’era già prima che questa nozione pseudoscientifica si affermasse, nell’Ottocento, e a maggior ragione può esserci dopo il suo declino a partire dalla seconda metà del Novecento. L’antisemitismo non è un razzismo di tipo coloniale come quello sviluppato nei confronti dei neri, dei gialli, dei rossi, le cui differenze somatiche, percepibili a colpo d’occhio, espongono a una discriminazione spesso anche soltanto implicita, tacita, inserita in una comunicazione puramente gestuale – come quando qualcuno si allontana, magari con una smorfia, vedendo salire un immigrato africano sull’autobus. No, l’antisemitismo vive di una “messa in discorso”, addirittura di un atteggiamento militante che può arrivare fino al pogrom. Per questo è adattissimo a fungere da barometro della xenofobia e dei razzismi in generale: quando dall’implicito si passa all’esplicito, e quando riappare una strumentalizzazione politica della questione dell’alterità, il discorso antisemita riprende quota. Talvolta con un curioso spostamento della prospettiva: si consideri la teorizzazione di una “sostituzione etnica”, riferita oggi agli immigrati per lo più islamici, che – per una sorta di complotto, ordito magari dal finanziere ebreo ungherese-americano Soros – si starebbero imponendo in Europa come un’etnia tendenzialmente prevalente, pronta a rimpiazzare quella occidentale tradizionale, beh, questo stesso argomento della “sostituzione” fu già usato ai tempi dell’affaire dallo scrittore antisemita Maurice Barrès, che affermò: “Che Dreyfus sia un traditore, lo deduco dalla sua razza”. Ci sarebbe stata una macchinazione mondiale ordita dall’alta finanza ebraica con l’obiettivo di rimpiazzare gli europei: all’epoca in modo diretto, oggi piuttosto per interposta persona con il favoreggiamento dell’immigrazione.

A noi – che come Fondazione per la critica sociale abbiamo in corso una ricerca intorno alla “sindrome identitaria”, con Renato Foschi, Cristina Vincenzo e altri – sembra che il passaggio della xenofobia e del razzismo dalla latenza implicita alla manifestazione esplicita abbia il suo modello nell’antisemitismo. Questo esprime infatti al massimo grado il carattere indeterminato e arbitrario proprio di qualsiasi razzismo (per cui può essere detto una “figura della fatalità” secondo Albert Memmi), all’interno di un discorso che non può non essere esplicito sia perché tradizionalmente ideologico, sia perché, con l’accusa del complotto, spinge a uno smascheramento del “colpevole”, indicandolo apertamente come capro espiatorio. Nella comunicazione sociale, intesa in senso ampio – dalle chiacchiere con il vicino alla più sofisticata comunicazione in rete mediante i nuovi dispositivi tecnologici –, la questione identitaria di un ego esposto alle mille identificazioni in quanto ricevente di una pletora di messaggi, ma pronto a passare dalla parte di alter come emittente grazie alla moderna interattività, viene sempre più in primo piano. Insieme con l’autodefinizione identitaria è l’influenza su altri la posta in gioco, per quanto limitata sia la cerchia entro cui cercare un accordo e un riconoscimento. Anche il recente caso Castrucci – un professore apparentemente mite che si palesa filonazista e antisemita su Twitter – va inserito nel quadro di un bisogno identitario declinato come desiderio d’influenza, di contare qualcosa oltre che essere qualcuno. Ciò rientra a pieno titolo nell’indagine in corso con il nostro gruppo di studio.

La ricerca intorno alla “sindrome identitaria” non mette quindi l’accento sull’aspetto cognitivo della xenofobia e del razzismo – che pure non è mai assente –, quanto piuttosto su quello comunicativo. Nel primo caso si ha a che fare con la questione della formazione del pregiudizio soprattutto in un soggetto che è quello dei totalitarismi novecenteschi (la “personalità autoritaria” di Adorno); nel secondo ci si occupa piuttosto della fissazione e diffusione delle credenze tramite un’immagine intersoggettiva all’interno dell’individualismo di massa contemporaneo. In altre parole, se ponendo l’accento sul momento cognitivo si tematizza l’instaurarsi del discorso razzista con i suoi tradizionali stereotipi ideologici, prendendo in esame i processi comunicativi si mette a fuoco come la costruzione di un’immagine dell’altro, nell’esplosione della comunicazione odierna, svolga una funzione di contrasto nei confronti della dispersione dell’identità che ne deriva. Xenofobia e razzismo passano dall’implicito all’esplicito, da una comunicazione anche soltanto gestuale all’aperta stigmatizzazione tramite il discorso verbale, in virtù di quella anticipazione di accordo (o rispettivamente di disaccordo) fornita dalla prestazione di un’immagine dell’altro. L’odierno fenomeno dell’“odio in rete” va collocato all’interno di questa prospettiva teorica che pone al centro la comunicazione, assumendo cioè le opinioni e i (ri)sentimenti che attribuiscono all’altro tutto il male possibile come momenti facilitatori nell’affrontare la questione identitaria propria di un sé del ricevente sempre troppo labile, e perciò pronto a passare nella posizione “forte” dell’emittente dei messaggi. Si può dire che, in casi del genere, un’intersoggettività bloccata nella costruzione dell’immagine dell’altro finisca con il ricoprire l’intera sfera della comunicazione, non lasciando più alcuno spazio al movimento dei punti di vista tipicamente comunicativo, quindi alla possibilità di autocorrezione del pregiudizio e dell’errore. L’effetto di anticipazione, caratteristico in generale dell’immagine in quanto rafforzamento della credenza, prevale in modo massiccio, mangiandosi il dubbio che può prodursi nel processo comunicativo. La stessa distinzione vero/falso è messa fuori causa: la notizia “falsa” diviene centrale nella sua funzione di autoconvalida delle premesse; e si sa, del resto, come la diceria, la diffusione della menzogna, siano state storicamente importanti nel propagarsi dell’antisemitismo.

L’intera costellazione qui delineata può essere osservata in termini psicologici attraverso la lente del concetto di personalità narcisistica, con tutto quanto sia da comprendere sotto la voce “disturbi narcisistici della personalità”. Il narcisismo individuale trasferito sul capo, come ben sapeva Freud, era già in causa nella psicologia delle masse al tempo dei totalitarismi. Ma nelle mille identificazioni, e nelle relative identificazioni proiettive, di una comunicazione sociale non più strettamente unidirezionale (si pensi ai monologhi del capo, spesso radiofonici, nei regimi totalitari), come quella esplosa con i nuovi media, la libido narcisistica non ottiene agevolmente il proprio tornaconto: il “Sé grandioso”, come lo chiama Heinz Kohut, è sottoposto a una minacciosa frammentazione dei propri oggetti libidici. Di conseguenza l’attribuzione da ego verso alter – qualsiasi caratteristica venga attribuita a questo alter – diventa nella comunicazione il volano di un’autoattribuzione in grado di consolidare un ego permanentemente debole, per così dire raddoppiandolo in un , indipendentemente dall’intervento di un Super-io interno o da un ideale dell’Io esterno come quello del capo. Nei populismi contemporanei, che vivono anche di una personalizzazione della leadership, il leader resta comunque una contraffazione del capo carismatico, che all’occorrenza si può lasciar cadere e sostituire. Si passa così da una personalità impostata gerarchicamente, ossessiva, basata su una proiezione unilineare di tipo paranoico, a una personalità con diversi centri e una pluralità di identificazioni proiettive secondo un’immagine dell’altro a geometria variabile, per la quale la giudeofobia può trasformarsi in islamofobia o convivere con essa, mentre l’immigrato in quanto nuovo altro interno può essere chiunque, di volta in volta il rom, l’africano, il cinese.

(pubblicato sul sito: www.fondazionecriticasociale.org, 10 febbraio 2020)

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