Il libro Bruno Trentin. Teoria e pratica di un sindacalista militante (Torino 2019), scritto da Nino De Amicis, merita una dovuta attenzione perché introduce con abilità e scioltezza narrativa il percorso umano e intellettuale di Bruno Trentin (1926-2007), figura complessa e articolata, compenetrata tra tipologia caratteriale e azione sindacale che fa tutt’uno con quella politica. Una militanza intellettuale la sua, vissuta con forte senso etico, ma a volte in bilico tra impegno e solitudine. La chiarezza e la linearità espositiva rende il libro fruibile a ogni tipo di lettore, anche quello poco affine alle tematiche sindacali, e serve da introduzione a una parte importante della storia del movimento operaio, dei suoi protagonisti, che sarebbe opportuno non dimenticare, a cominciare da chi fa sindacato oggi.
Bruno deve al padre Silvio, esponente di Giustizia e Libertà dal 1929, il suo essere un comunista liberale, come lo aveva definito con simpatia Norberto Bobbio, un marxista eretico gobettiano, un azionista, qual era stato da giovane, di ascendenze gramsciane. Partigiano con Giustizia e Libertà, arrestato e condannato, finita la guerra non ostenterà mai quella mentalità da reduce che è stata un tratto comune a tanti che avevano preso parte alla lotta partigiana.
Entra nella Cgil nel 1949 su proposta di Vittorio Foa e poco dopo si iscrive al Partito comunista. Sono anni duri sindacalmente e politicamente ai quali ben poco cede della sua autonomia di giudizio. Con Di Vittorio Trentin critica l’intervento sovietico in Ungheria nel 1956 e con esso il sostegno dato dal Partito comunista all’impresa repressiva. Così come nei primissimi anni Sessanta produce un’analisi del neocapitalismo opposta a quella dominante ai vertici del Pci e della Cgil, ancora attardata ad una raffigurazione di un capitalismo italiano arretrato e “straccione”. Posizione la sua che, malgrado non vi siano mai riferimenti diretti, era simile a quella che stavano sviluppando i Quaderni Rossi e Raniero Panzieri.
Pienamente coinvolto come dirigente sindacale nelle lotte operaie dell’autunno caldo, fu tra i promotori della svolta sindacale che portò al riconoscimento dei consigli di fabbrica da parte del sindacato, al superamento delle commissioni interne e all’unità sindacale che si incarnò nella Federazione Nazionale dei Metalmeccanici (Flm), da lui considerata l’incontro felice della componente marxista e cattolica. Esperienza che entra in crisi a partire dalla sconfitta subita dopo 35 giorni di lotta alla Fiat contro la richiesta della direzione di messa in cassa integrazione a zero ore di 23 mila dipendenti. Nel 1977 aveva lasciato la direzione della Fiom e nel 1988 era stato eletto segretario della Cgil. Incarico che accettò non senza titubanze personali dovute all’insidiosa, ricorrente e mai superata tendenza depressiva.
Leader con oratoria eloquente, colta, che non prevede cadute di stile populiste (si direbbe oggi) e ammiccamenti demagogici, Trentin introduce il tema del sindacato dei diritti della persona in quanto soggetto di diritti universali individuali e collettivi quali l’informazione, la formazione culturale e professionale, tutte qualità da riprendere e considerare alla luce della crisi del modello fordista per lui irreversibile. È un Trentin che riprende e ripensa a tutto tondo con incursioni e recuperi nella controcultura hippies, nelle varie esperienze delle comuni, nell’università alternativa di Berlino. Un pensiero vivace e acquisente che risentiva direttamente dello spirito di quel tempo che egli afferrava negli incontri e assemblee di vario tipo dove quella sensibilità circolava tra i lavoratori più giovani. Così come attingeva dal pensiero anarco-cristiano, senza timore di uscire dalle righe strette di un marxismo troppo scolastico, per addentrarsi nello scavo dell’utopia.
Pensiero e azione riflettevano un carattere contraddittorio. Da un lato appariva riservato, schivo, austero. Trasmetteva una sensazione di distacco, un dirigente con il loden in un periodo in cui tutti indossavano eskimi e giacconi vari; dall’altro però, la sua attenzione alle tematiche giovanili e movimentiste sfatavano questa sua rigidità, se mai era rigoroso e puntiglioso anche quando si apriva alle novità culturali e di mentalità.
Rimane fermo nella sua biografia l’accordo firmato nel 1992 sull’abolizione della scala mobile e il blocco della contrattazione articolata, pur essendo contrario come dichiarò in seguito. Subito dopo la firma si dimette, faticano a fargli ritirare le dimissioni e a farsi rieleggere. Nel 1990 fu eletto al parlamento europeo per i Democratici di sinistra (oggi Pd). La sua riflessione ricca di suggestioni assorbite da più parti con tratti di eclettismo creativo ha per tema la globalizzazione e la rivoluzione informatica che gli pare dischiudano orizzonti nuovi di una possibile umanizzazione del lavoro, che permetta l’autorealizzazione di sé e metta fine all’alienazione connessa al lavoro salariato.
Coglie la crisi del fordismo e con essa quella della sinistra storica – che si va delineando col crollo dei paesi a socialismo reale in Europa e in Urss – e la coniuga con la ridefinizione del lavoro e delle professioni, nella speranza che ciò consenta una “liberazione” dei lavoratori dal giogo della produzione seriale di massa. Previsioni che, si può dire col senno di poi, non si sono realizzate nei termini da lui pronosticati. La storia del lavoro ha preso un’altra via: perdite di posti di lavoro, precarizzazione, frammentazione, flessibilità atta a intensificare lo sfruttamento della manodopera. Le sue speranze sono state mangiate e digerite dal rigenerarsi del capitalismo.
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