Il cold case di Lotta Continua di Diego Giachetti

 

Il libro di Fabrizio Salmoni, I senza nome. Il Servizio d’ordine e la questione della «forza» in Lotta continua (Derive Approdi, Roma 2022), è una ricostruzione circostanziata della storia di Lotta Continua (Lc) – prevalentemente incentrata sulle vicende torinesi e del servizio d’ordine – svolta con l’ausilio di 15 interviste in profondità ad appartenenti all’organizzazione, con l’uso di fonti d’archivio poco note, pagine di diario e altra documentazione di pubblico dominio. Mosso da una forte motivazione alla ricerca, derivante anche dall’essere stato coinvolto nei fatti narrati, l’autore si sforza di mantenere il dovuto distacco interpretativo, dandosi come obiettivo di lasciare la parola innanzi tutto ai documenti, più che alla memoria, anche se quest’ultima spesso irrompe e impone di riaprire “il caso” Lotta Continua, ridefinendo l’istruttoria.

Differentemente da altre ricostruzioni, si propone una lettura diversa, non incentrata sulle “gesta” del gruppo dirigente, ma tesa a dare voce ai militanti di base, quelli del servizio d’ordine in particolare e al posto che occupò la questione dell’uso della forza. Di qui il titolo, I senza nome, che non vuole indicare gli esclusi dalla storia, bensì quelli dimenticati dalla narrazione corrente. Inaccettabile, scrive che della storia di Lc si sia appropriato quel gruppo dirigente che ne causò la fine. Questa la tesi enunciata con chiarezza e riconfermata nelle conclusioni: la causa principale della sua dissoluzione fu «l’abbandono del suo gruppo dirigente». Iniziata a Torino, città nella quale l’organizzazione aveva trovato la sua – non unica – ragione costitutiva, lì ritornò nella parte finale come un fiume in piena: accuse, controaccuse, rancori, boicottaggi di riunioni.

 

Ritorno al futuro

Data l’impostazione, dovuti sono i richiami alla lotta operaia alla Fiat del 1969, al tumultuoso incontro tra operai e studenti, da cui prese spunto e vita prima il giornale Lotta Continua e poi l’organizzazione a livello nazionale. Un’organizzazione che, almeno nella realtà torinese, seppe stabilire contatti e relazioni con intellettuali di matrice azionista e socialista e, con qualche difficoltà, con la militanza comunista in quell’organismo singolare che fu il Comitato Unitario Antifascista Torinese, presieduto con pazienza e tenacia dallo storico Guido Quazza. La nascita delle nuove organizzazioni della sinistra rivoluzionaria non passò inosservata a polizia, carabinieri e magistratura. Secondo i dati forniti dal giornale «Lotta Continua» del 17 febbraio 1971, 72 aderenti all’organizzazione erano in prigione. L’anno dopo nel mese di luglio furono denunciate 345 persone individuate come aderenti ai gruppi extraparlamentari torinesi a cui ne seguirono altre portando il numero complessivo dei denunciati a 587; quindi, non a caso, il processo che si sarebbe dovuto tenere fu chiamato “processo dei seicento”. Le accuse spaziavano dall’associazione sovversiva, all’istigazione all’odio di classe, all’associazione a delinquere, ricorrendo agli articoli 270 e 272 del codice Rocco. Una parte consistente dei denunciati apparteneva a Lc. Era il tentativo, come sottolineò allora l’avvocata Bianca Guidetti Serra, di mettere sotto accusa e colpire le organizzazioni politiche in quanto tali e non singoli individui eventualmente responsabili di reati.

L’antifascismo militante, come lo si chiamò, non fu una ripresa celebrativa e simbolica di un passato recente, divenne un’esigenza che maturò dall’esperienza. Fra il 1970 e il 1971 la destra scatenò un’offensiva squadristica in tutta Italia con attentati alle sedi dei partiti di sinistra e sindacali, atti di violenza contro militanti di sinistra. La ripresa delle violenze fasciste, gli attentati, le stragi, costituirono il terreno che rinvigorì l’antifascismo. Nonostante le differenze analitiche e di impostazione, fra il Pci e la sinistra rivoluzionaria, l’antifascismo costituì un terreno d’incontro e di mobilitazione.

L’organizzazione del servizio d’ordine nasceva dalla necessità per Lc di raggiungere determinati obiettivi e difenderli. Non quindi un corpo separato, ma una forma di organizzazione da costruirsi nel farsi delle lotte sociali e politiche in corso, un aspetto inscindibile dall’iniziativa di massa, senza nulla concedere ad azioni d’avanguardia sostitutive all’azione dei movimenti di cui Lc si considerava parte, anche quando si fece ufficialmente partito col primo Congresso del 1975. Interessanti sono le pagine dedicate alla dimensione politica, relazionale ed emotiva che si condensava nell’appartenenza al servizio d’ordine. La giovanissima Lc operò al tempo in cui, secondo la sua stessa definizione, si prospettava uno scontro sociale di massa e generalizzato. Erano i primi brevi intensi anni della sua costruzione organizzativa, dell’occupazione di Mirafiori, del “prendiamoci la città”, della spallata rivoluzionaria che sembrava alle porte, ma stentava a venire.

 

Cambio di marcia

Quel progetto fu accantonato dal gruppo dirigente, questa la sua tesi, per piegare sulla “scoperta della politica”, secondo la dizione di Luigi Bobbio nella sua storia di Lc pubblicata nel 1979: riconoscimento dei delegati di fabbrica dopo il “siamo tutti delegati”, spingere il Pci al governo e scelte elettorali difformi nel 1975 e nel 1976. Scelte dovute al fatto che la fase non era più rivoluzionaria, la lotta operaia aveva raggiunto lo zenit e stava ripiegando, il capitalismo ristrutturato avanzava vincente, secondo ricostruzioni a posteriori che l’autore respinge perché bisticciano coi fatti.

Quel passaggio fu l’incipit dell’intenzione di buona parte del gruppo dirigente di trasformare l’organizzazione in altra “cosa” rispetto all’impianto originario, che si esplicitò compiutamente dopo l’amaro risultato elettorale conseguito alle elezioni politiche del giugno 1976, quando l’organizzazione, nata convinta che fosse la lotta e non il voto a decidere delle sorti rivoluzionarie, s’inceppò sull’esito del risultato elettorale del cartello di Democrazia Proletaria (1,5%), dopo avervi aderito all’ultimo momento, rivedendo la posizione assunta l’anno prima di votare per il Pci.

Nella breve e intensa vita di Lc le variazioni repentine della linea politica non erano mancate, tutto sommato accettate dalla base, senza resistenze e discussioni, magari poco condivise, ignorate o portate avanti senza entusiasmo, “imprigionati” nel costrutto strategico originario consistente nel creare spazi di contropotere sul territorio da collegare alle fabbriche, erodere il controllo dello Stato, indebolirlo nelle sue articolazioni istituzionali. Una strategia a medio termine a bassa componente ideologica che portava a inserirsi in ogni situazione di lotta per organizzarla da parte di rivoluzionari non pregiudizialmente marxisti. Non fu il marxismo a muoverli, bensì la radicalità dello scontro sociale li portò a definire la propria ideologia in un marxismo critico.

Questa era l’originalità di Lc, pagata con carenze d’analisi su alcuni elementi cruciali: le trasformazioni in corso nella società e nel capitalismo, la natura del Pci, dei sindacati, la mancata indicazione di obiettivi transitori per passare dal ribellismo movimentista organizzato a una strategia di lotta politica per il cambiamento del sistema.

 

Rimini 1976

Già nel Congresso del 1975 alcuni nodi vennero al pettine a Milano nello scontro divisione tra la dimensione “operaista”, ispirata alla centralità della lotta operaia e la “nuova linea” del farsi e agire da partito. Avvisaglie del prodursi nell’organizzazione di una differenziazione tra corpo militante e quadri intermedi di apparato e dirigenti. Una maturazione di diffidenza reciproca che si formalizzava in identificazioni separate: donne, giovani, operai, servizio d’ordine. In un’organizzazione sempre più policentrica, il dialogo prima s’arrestò, poi si bloccò in una logica di schieramenti che divenne un confronto fra sordi e favorì la segmentazione in parti sociali non più contenibili in programmi, tattiche, mediazioni politiche condivise. La centralità operaia si senti “ripudiata” da quella femminile che si autodefiniva prioritaria e chiedeva che lo fosse per tutti, mentre il servizio d’ordine era accusato di essere un’organizzazione nell’organizzazione.

Il gruppo dirigente “storico” provò a pilotare la discussione per dare una nuova impostazione a Lc, che sarebbe dovuta emergere dal secondo Congresso previsto per l’autunno del 1976. Fin dall’inizio il percorso si rivelò difficile, per non dire impossibile in alcune realtà dove il confronto tra la pluralità dei soggetti sociali rivelò attriti e incomprensioni reciproche. Tutto fu lasciato alle sorti del congresso, al “bagno sacro” nel fiume assembleare (vi parteciparono circa mille persone), e al confronto di idee e tesi prodotte durante il dibattito precongressuale; cosa che non avvenne a causa di una messa in opera congressuale che sfuggi di mano a tutti e tutte.

Il resto, scrive, appartiene alla cronaca dello “psicodramma riminese”, operai e femministe che si contendevano il palco, litigavano e parlavano linguaggio diversi, in uno scenario conclusivo che richiamava le «ultime ore di Woodstock». Una finale di partito che era ed è sbagliato trattare con leggerezza perché coinvolse politicamente alcune migliaia di militanti, molti dei quali abbandonati alla loro sorte, e contribuì a rafforzare le formazioni della lotta armata. Il 4 novembre del 1976 si concludeva il congresso: nessuno aveva vinto, neanche i dirigenti. Iniziava il dissolvimento dell’organizzazione. Gli sopravviveva il giornale quotidiano le cui pubblicazioni erano iniziate cinquant’anni fa, nel 1972.

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