Catalogna | Paesaggio dopo la battaglia di Cristiano Dan

 

Chi ha vinto in Catalogna? Dipende. Dipende dal fatto se, guardando la bottiglia (i risultati elettorali), la si considera mezzo piena o mezzo vuota. Per cominciare, però, è più facile dire chi ha perso. E i perdenti sono due. Da una parte Rajoy, dall’altra la sinistra anticapitalista, sia essa indipendentista o meno.

Rajoy, l’incendiario camuffato da pompiere.

Cominciamo da Rajoy e dal suo Partido Popular, responsabili primi della lunga crisi catalana, che non fa che proseguire e incancrenirsi. Assediati dai giudici per via dell’infinita serie di scandali che da anni aveva e ha per protagonisti dignitari e dignitarie del loro partito, i populares non avevano trovato niente di meglio che inventarsi dei nemici interni. E coerentemente con le loro origini tardo-franchiste, nulla era apparso loro più adatto del “secessionismo catalano”, una “minaccia per l’unità della Spagna”. Un nemico perfetto, che a livello di percezione popolare (come a dire, da chiacchiera da bar) era facile dipingere come ricco, arrogante, sprezzante nei confronti degli “spagnoli” e via stereotipando. Così, anni fa, il PP inizia una milionaria raccolta di firme contro l’Estatut, lo statuto di autonomia regionale che il governo catalano di allora e l’allora governo spagnolo (un governo socialista) avevano concordato. Il ricorso del PP è accolto dal Tribunale costituzionale che, sia pure con la lentezza che è tipica di simili istituzioni, finisce col fare a pezzi lo statuto, annullandolo in gran parte. Il secessionismo catalano, che sino a quel momento era più che altro uno stato d’animo coltivato amorevolmente da ristretti circoli politici e culturali, nasce a livello di massa in quel frangente, sull’onda della più che giustificata indignazione per il comportamento del governo centrale.

Molti degli attuali dirigenti secessionisti erano stati sino allora degli “autonomisti”, preoccupati più che altro di strappare vantaggi economici e maggior margini di manovra per il loro governo regionale. La coalizione che per decenni aveva governato la Catalogna, Convergència i Unió (CiU), era una coalizione di centro/centrodestra, che aveva la stessa sensibilità verso i problemi sociali e la stessa passione per l’arricchimento individuale (vedi il caso Pujol) del PP. E a tutto pensava meno che a imbarcarsi in una avventura secessionista: i settori industriali di cui era espressione le avrebbero tolto ogni appoggio (cosa che hanno poi regolarmente fatto in questi ultimi mesi). CiU era a quei tempi (1984-1986) talmente poco secessionista che s’era pure lanciata in una velleitaria operazione (l’”Operazione Roca”) mirante a costituire nel resto della Spagna un partito a sua immagine e somiglianza. L’Operazione Roca si rivelò un fiasco colossale in occasione delle prime elezioni in cui il nuovo partito, il Partido Reformista Democrático, venne testato, e non se ne parlò più. Ma val la pena di ricordarlo se non altro per contrastare certe “narrazioni” tendenti a presentare gli attuali secessionisti in possesso di immacolate credenziali indipendentiste.

Ma torniamo a Rajoy. Da quanto detto succintamente più sopra, dovrebbe risultare chiaro come sia stata la politica anti-catalana del PP ad appiccare il fuoco alle polveri indipendentiste. Incendio che si è poi cercato di spegnere non cercando di avviare trattative per trovare una soluzione concordata, ma trincerandosi dietro gli “imperativi della legge”, dietro i “dettami della Costituzione”, il che detto dal principale dirigente di un partito infarcito di ladri e truffatori fa un tantino impressione. Il grande errore di Rajoy sta tutto qui: credere che un problema politico potesse essere risolto per via giudiziaria, con l’accompagnamento d’un intervento più o meno muscolare. Che c’è stato, che andava denunciato con vigore, anche se nella concitazione di quei momenti a qualche compagna e compagno catalani è venuto meno il senso delle proporzioni, e si è parlato allora di “franchismo” di ritorno, di “fascismo”, di “colpo di Stato”, di “prigionieri politici” e via drammatizzando. Nessuno qui vuole minimizzare quanto accaduto, naturalmente. Quel che si vorrebbe evitare, in questo caso come in analoghi, è però il cadere nel grottesco. Se infatti Rajoy è la reincarnazione di Franco, cosa o chi può essere mai Inés Arrimadas, la stella nascente nel firmamento di Ciutadans, che chiedeva una repressione più dura e sistematica, e che su questa base s’è conquistata il voto di più di un milione e centomila catalani, equivalente a oltre il 25 % e a 37 seggi? E qui veniamo a un punto cruciale. Non vi sono dubbi sul fatto che Rajoy e la sua politica escano a pezzi da queste elezioni catalane. Ma, si badi bene, non perché siano state rigettate da una parte del suo elettorato, disgustato dai suoi errori e dalla sua arroganza, ma perché ritenute troppo “tiepide” nei confronti del secessionismo. Diamo un’occhiata alle cifre. Nelle precedenti elezioni autonomiche del 2015, quelle con cui tecnicamente è più corretto fare i confronti, Ciutadans aveva ottenuto poco meno di 740.000 voti, il 18 % e 25 seggi, mentre il Partido Popular aveva ottenuto poco meno di 350.000 voti, l’8,5 % e 11 seggi. In queste elezioni Ciutadans ottiene oltre un milione e centomila voti (circa 360.000 voti in più) il 25,5 % (più 7,5 %) e 37 seggi (più 12), mentre il PP precipita a 180.000 voti (meno 170.000, quasi un dimezzamento), al 4,3 % (dimezzato) e a 3 seggi (meno 8). Tirando le somme, il blocco “unionista di destra”, che ormai rappresenta il 30 % dell’elettorato, guadagna 200.000 voti (i due terzi dei voti in più che si sono avuti in seguito alla diminuzione dell’astensione), il 3,2 % e 4 seggi. Per concludere su questo punto, Rajoy perde, sì, ma sulla sua destra, fagocitato da Ciutadans, che per la prima volta nella storia quasi quarantennale delle elezioni autonomiche catalane fa sì che il partito singolo più votato sia un partito … anti-catalanista.

La sinistra anticapitalista fra Scilla secessionista e Cariddi “pel dret a decidir”.

S’è detto sopra che è la sinistra anticapitalista, nelle sue due versioni (CUP, secessionista, e Catalunya en Comú Podem, a favore del “diritto a decidere” sull’indipendenza ma non necessariamente indipendentista) a uscire con le ossa ammaccate da queste elezioni. Per la verità, la CUP, Candidatura de Unitat Popular, le ossa più che ammaccate ce le ha rotte. Nel 2015, infatti, aveva quasi 340.000 voti, l’8,3 % e 10 seggi, mentre oggi si ritrova con poco più di 190.000 voti, il 4,5 % e 4 seggi, con una perdita secca di quasi 150.000 voti, del 3,8 % e di ben 6 seggi. Nel confronto Catalunya en Comú Podem se la cava meglio: aveva un po’ meno di 370.000 voti e ne conserva oltre 320.000 (ne perde circa 44.000), aveva il 9 % e scende a 7,5 % (meno 1,5 %), i seggi erano 11 e ora sono 8 (meno 3). Ma questo se ci limitiamo al paragone col relativamente lontano 2015. Se però mettiamo nel conto anche le elezioni politiche del dicembre 2015 e del 2016 il discorso cambia. Nel 2015 e 2016, infatti, con altra denominazione, questa coalizione era stata la lista più votata, piazzandosi al primo posto, con rispettivamente quasi 930.000 voti e oltre 850.000 voti. In termini percentuali, il 24,9 % e il 24,7 %, pur se si deve tener conto dell’alto astensionismo in queste due occasioni elettorali, che rende i confronti un po’ falsati. (Lo stesso discorso non si può fare con la CUP, perché questa formazione, per principio, non si presenta alle elezioni generali, in quanto “spagnole”…)

Come spiegare questo tracollo delle sinistre anticapitaliste? Nel caso della CUP (sul quale però ritorneremo, quando ci occuperemo più dettagliatamente del “blocco indipendentista”) sembra che abbia giocato un certo ruolo il richiamo del “voto utile”. Buona parte del suo elettorato avrebbe cioè (temporaneamente?) posto tra parentesi il discorso anticapitalista per rafforzare uno dei due maggiori poli indipendentisti, e in particolare Esquerra Republicana de Catalunya (ERC). Questo permetterebbe di spiegare il fatto, altrimenti paradossale, delle pesanti perdite di voti subite dalla CUP anche in località dove faceva parte del consiglio comunale e aveva governato bene. Per quanto riguarda Catalunya en Comú Podem (CCP), invece, il discorso è in parte diverso. La sua collocazione per alcuni “né carne né pesce”, e cioè il suo insistere più sui temi sociali che su quelli identitari, pur riconoscendo la legittimità del referendum senza per questo schierarsi a favore della secessione, era abbastanza corretta, sia pure con qualche oscillazione. Ma non era certo una posizione facile. In un clima di estrema polarizzazione, CCP s’è trovata a essere il bersaglio ideale dei due schieramenti contrapposti, accusata dagli “unionisti” di essere una specie di cavallo di Troia dei secessionisti, e da questi ultimi spesso e volentieri di “tradimento” della “causa catalana”. L’enorme pressione cui è stata sottoposta (Podem ha subito pure una scissione, che ha dato vita a una formazione rimasta poi appesa per aria) non poteva non ripercuotersi pesantemente sul suo elettorato, in stragrande maggioranza di recente acquisizione. Che in parte minima può aver votato per il Partit dels Socialistes de Catalunya (ma deve trattarsi veramente di poca roba, visti i magri risultati di questo partito), e in dosi più massicce sembra essersi riversato su ERC, senza che si possa escludere del tutto l’ipotesi che porzioni più o meno consistenti abbiano addirittura fatto il salto della quaglia finendo in braccio a Ciutadans. La logica infernale della contrapposizione indipendentisti/unionisti ha fatto sì, come sembrerebbe di poter dedurre da un primo sommario esame dell’andamento del voto nelle grandi concentrazioni, che interi quartieri popolari della cintura urbana di Barcellona, fino a non molti anni fa bastioni della sinistra nelle sue svariate incarnazioni, siano passati in maggioranza dall’altra parte.

I socialisti: delusi, ma fanno buon viso a cattivo gioco.

C’è poca da dire sui risultati ottenuti dalla filiale catalana del PSOE, il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC). Appiattiti sulla difesa a oltranza della “legalità”, hanno sì cercato in qualche modo di differenziarsi dal PP, proponendo modifiche costituzionali e rispolverando lo Stato federale, ma senza molta convinzione, senza insistere troppo, nonostante che Iceta, il loro leader catalano, abbia fatto qualche sforzo in più per prendere le distanze dai settori più retrivi del suo partito-madre. Con il 13,9 %, guadagnano l’1,1 % sul 2015, con poco più di 600.000 voti (più 80.000) e 17 seggi (uno in più). Si aspettavano molto di più, speravano nella riconquista di antichi loro bastioni, ma hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco e ritenersi soddisfatti di aggiungere qualche suppellettile al loro scarso mobilio. Non è chiaro su cosa basassero le loro aspettative, ma non è il caso di scervellarsi per risolvere l’enigma.

Il “blocco indipendentista” resiste, slabbrandosi un po’.

Quello che usualmente si chiama il “blocco indipendentista” come esce da queste elezioni? Tirando un respiro di sollievo per lo scampato pericolo, ma assolutamente incerto sul da farsi. Tre elementi vanno subito sottolineati: un suo lieve arretramento, dovuto soprattutto alla maggiore affluenza di votanti (in chiaro, un arretramento in percentuale, non in voti assoluti); una profonda modifica dei rapporti di forza fra le sue tre componenti; una significativa modifica della distribuzione territoriale del suo voto.

Prima di affrontare questi tre aspetti, è necessario però prima spendere alcune poche parole sulle tre formazioni che lo compongono. Del partito del “presidente in esilio” Puigdemont s’è già detto qualcosa. Convergència Democràtica de Catalunya (CDC) è un partito di stampo liberale che ha mosso i suoi primi passi all’epoca della Transizione, nella seconda metà degli anni Settanta e che alleandosi alla più piccola e democristiana Unió Democràtica de Catalunya (UDC) ha dato vita alla longeva CiU, che per qualche decennio ha fatto il bello e il cattivo tempo in Catalogna. Mai stata indipendentista, CDC ha praticato un “autonomismo“ finalizzato alla sua permanenza al potere, pronto a prestare i propri voti nelle Cortes spagnole al partito dominante di turno, PSOE o PP che fosse. Se ha innegabilmente fatto molto per il recupero della “personalità catalana”, soprattutto in ambito culturale, è sempre stata piuttosto distratta quando si trattava di problematiche sociali. Alcuni dei tagli più feroci nel settore della spesa pubblica le vanno pienamente riconosciuti. È solo quando alcune inchieste giudiziarie scoprono la pentola del suo sistema di malgoverno e corruzione che CDC si aggrappa con più energia al catalanismo militante, nel tentativo di presentarsi come una vittima del “centralismo spagnolo”. Da questo momento in poi il partito entra in una fase tumultuosa di riorientamento politico, segnalato da diversi cambi di denominazione, fino all’attuale di Junts per Catalunya, che segna anche una deriva verso il partito “personale”, il partito dell’“esiliato” Puigdemont. Strada facendo, s’era rotta CiU e la sua ala più debole, UDC, antindependentista, s’era avviata all’estinzione (alcuni suoi esponenti si sono presentati in lista con il PSC). Oggi il partito di Puigdemont è un punto interrogativo dal punto di vista del programma politico, anche se si può star certi che in fatto di provvedimenti sociali non ha fatto e non farà alcun passo avanti.

Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) è la rifondazione di un partito storico (1931) che ha avuto tanta parte nella storia della Catalogna e della Spagna. Anche se i suoi attuali dirigenti non hanno ovviamente alcuna responsabilità di quanto hanno fatto i loro predecessori ai tempi della guerra civile spagnola, è difficile resistere alla tentazione di ricordare, con una buona dose di scorrettezza politica, che giusto ottant’anni fa le sue milizie, unitamente a quelle del PSUC staliniano, stroncarono nel sangue il tentativo degli anarchici della CNT-FAI e dei marxisti rivoluzionari del POUM di approfondire il carattere sociale della Repubblica catalana d’allora. Ci si augura, ovviamente, che l’attuale ERC sia più sensibile a questo carattere sociale, ma senza farsi troppe illusioni. Da quando è stato ricostituita, ERC ha sempre oscillato fra due poli: uno puramente nazionalista e indipendentista, l’altro “sociale”, anche se la sua “socialità” non si è mai spinta troppo oltre. Queste oscillazioni hanno prodotto un lungo elenco di scissioni e ricomposizioni che qui risparmiamo ai lettori. Negli ultimi anni ERC ha spostato sempre più l’accento sul nazionalismo catalano, in seguito anche all’adesione di settori indipendentisti (Terra Lliure e altri). Si definisce un partito repubblicano e di sinistra, anche se il contenuto del “sinistra” rimane alquanto vago.

Infine, la CUP, della quale s’è già detto qualcosa. Va aggiunto che si tratta di una formazione anticapitalista di estremo interesse, che s’è costruita e sviluppata con un meticoloso lavoro “di base”, un funzionamento interno alquanto complesso ma altrettanto democratico per quanto è dato saperne, che però presenta un limite – come dire? – programmatico di non poco conto. Il suo orizzonte operativo infatti è tutto compreso nell’ambito dei cosiddetti Països Catalans (Catalogna, Paese valenzano e Baleari, fondamentalmente) e alla costruzione di questa futura entità statale tutto o quasi viene subordinato. Ciò che spiega il suo astenersi dalla politica spagnola (si presenta, come s’è detto, solo alle elezioni autonomiche e municipali catalane, snobbando le elezioni generali). A una capacità di intervento e di organizzazione che hanno rari paragoni, fa insomma riscontro una proterva cecità nei confronti di tutto ciò che è “altro” rispetto ai Paesi Catalani: una buona dose di settarismo, insomma, che spesso e volentieri li confina nel ruolo di mosca cocchiera. Com’è appunto capitato in tutta la vicenda catalana.

Passiamo ora ai tre punti di cui sopra. Primo punto: siamo di fronte a una vittoria dell’indipendentismo in queste ultime elezioni? Se si guarda alle condizioni in cui si sono svolte (presidente “in esilio”, dirigenti incarcerati, “commissariamento” della Catalogna) la risposta non può che essere “sì”. Ma per aggiungere subito dopo che, date le condizioni eccezionali, drammatiche, in cui queste elezioni si sono svolte, è anche molto probabile che ormai l’indipendentismo catalano abbia toccato il tetto per quanto riguarda le sue possibilità. A meno che non provvedono il PP o Ciutadans a ridargli fiato con qualche altra provocazione o provvedimento repressivo.

Stiamo alle cifre, come sempre. In queste elezioni, le tre formazioni indipendentiste raccolgono insieme il 47,7 % dei voti. Molti per un movimento indipendentista, tanti da costringere chiunque a dover trattare con lui, ma ancora troppo pochi per poter sostenere seriamente di “rappresentare” tutto il “popolo catalano”. Possono aumentare in futuro? Certamente. Ma per ora stanno diminuendo: nelle autonomiche del 2015 i tre partiti (ERC e CDC erano uniti in Junts pel sí) avevano il 48,1 %, in quelle del 2012 il 49,9 % (comprendendovi Solidaritat Catalana per la Indèpendencia), in quelle del 2010 il 51,5 % (comprendendovi CiU, ERC, Solidaritat e Reagrupament Indipendentista). Come si vede, pur in presenza di cifre molto elevate, c’è una lenta erosione del potenziale elettorale delle forze indipendentiste nell’arco degli ultimi sette anni (e sarebbe ancora maggiore se procedessimo ulteriormente a ritroso). Ma non c’è solo questo fatto. Dicendo voto “indipendentista” forziamo un po’ la realtà, perché non tutti coloro che votano queste formazioni alle elezioni autonomiche, e cioè che riguardano la loro regione, si possono definire indipendentisti. Controprova: nello stesso arco di tempo nelle elezioni generali queste stesse forze hanno registrato il 32,3 % (2016), il 31,3 % (2015) e il 37,1 % (2011). Certo, alle generali non partecipa la CUP, ma è impossibile attribuire al suo solo astensionismo questo divario. Che si spiega in parte anche con il rifiuto di una frazione di elettori catalani di partecipare a elezioni che “non li riguardano”, ma soprattutto col fatto che c’è un non trascurabile settore che alle regionali vota autonomista/indipendentista e alle regionali vota per un partito “spagnolo”.

Per concludere su questo punto, un’ultima notazione. Le elezioni hanno sancito senza ombra di dubbio l’esistenza di una maggioranza parlamentare indipendentista: 34 seggi a Junts per Catalunya, 32 all’ERC e 4 alla CUP, per un totale di 70 seggi su 135. Ve ne sono 2 in meno rispetto al 2015, ma la maggioranza, per quanto risicata, resta. Maggioranza legale, che però non corrisponde come abbiamo visto alla maggioranza “materiale”. E qui conviene aprire una breve parentesi, per ricordare come sempre la sinistra abbia criticato i sistemi elettorali che con premi di maggioranza o altri meccanismi distorcono la proporzionalità. Ed è questo il caso. Per fare un solo esempio, per ogni deputato eletto di Catalunya en Comú Podem sono stati necessari, questa volta, 40.000 e rotti voti, mentre ogni deputato del partito di Puigdemont è stato eletto con poco più di 27.000 voti. E questo dipende dal fatto che in Catalogna le regioni “rurali” o periferiche (Girona, Lleida) sono favorite rispetto a Barcellona. Caso vuole che queste regioni siano, da sempre, il granaio di voti dell’ex CiU. In altre parole, in Catalogna non esiste una legge elettorale regionale, come invece è la regola di tutte le altre Comunità spagnole. In Catalogna si vota … con la legge elettorale in vigore in Spagna per le elezioni politiche, che a suo tempo è stata criticata come antidemocratica su questo sito. Questo per colpa di Rajoy? Sarebbe bello potergli attribuire anche questa colpa. La verità è che gli autonomisti catalani ieri e gli indipendentisti oggi non hanno mai voluto metter mano alla legge elettorale, che garantiva loro innegabili vantaggi.

Slittamento a destra del voto indipendentista.

Uno degli argomenti più ripetuti e in una certa misura anche fondati che la sinistra indipendentista ha impiegato per sostenere la necessità di appoggiare il procés catalano, di parteciparvi attivamente, era ed è tuttora questo: si deve appoggiare questo movimento, fidando nella sua dinamica democratica, lavorando al suo interno per farlo trascrescere, riempiendolo di contenuti sociali.

Si tratta di un argomento serio. I movimenti politico-sociali, infatti, non vanno semplicemente “fotografati” nelle loro componenti d’origine, ma anche valutati in base alla loro possibile dinamica, che può essere indirizzata verso obiettivi di rottura anticapitalistica. Era questo il caso del procés catalano? In teoria sì, nella realtà pratica no. Il movimento indipendentista aveva infatti già una direzione riconosciuta con un proprio programma politico che non prevedeva rotture con “il sistema”: e infatti, non appena il sistema “europeo” ha fatto sapere che non avrebbe accettato una Catalogna indipendente e non appena il sistema capitalistico locale ha cominciato a inviare messaggi (spostamento fuori dalla Catalogna delle sedi legali di migliaia di imprese), questa direzione politica è entrata nel pallone. Si può sospettare, con molte pezze di appoggio, che per gran parte di questa direzione politica il discorso dell’indipendenza fosse puramente strumentale, servisse cioè ad alzare la posta nelle trattative con Madrid per ottenere ulteriori concessioni. Il panico e l’impreparazione patente che è seguita all’imposizione del 155 sembrerebbero dimostrarlo. Ma non tentiamo, per ora, di verificare questa ipotesi. Ci sarà modo di farlo in seguito. Resta il fatto che le elezioni hanno evidenziato uno slittamento del movimento indipendentista in direzione opposta a quella auspicata dalla sinistra indipendentista. È questa infatti l’unica che paga un prezzo salato: con il suo dimezzamento, la CUP fa la parte del donatore di sangue a vantaggio d’una “sinistra“ moderata, quella di ERC, che però, contrariamente alle sue aspettative, viene superata, sia pure di poco, dall’ala destra dell’indipendentismo, quella di Puigdemont. Che ora rivendica, daccapo, la direzione del procés. Con quali obiettivi? Nessuno per ora è in grado di rispondere.

Accentuazione della frattura territoriale.

Non v’è stato solo uno slittamento del voto verso la componente di destra dell’indipendentismo. V’è stata anche un approfondimento della frattura territoriale, della contrapposizione fra la realtà di Barcellona e la realtà provinciale. A livello della Catalogna nel suo complesso il voto indipendentista, lo abbiamo visto, si attesta sul 47,7 %, registrando un lievissimo arretramento (meno 0,3 %). Se però passiamo a una analisi, sia pur superficiale, della distribuzione del voto nelle quattro province catalane, emerge un fatto interessante. Lungi dal diminuire, il voto indipendentista aumenta leggermente in due province: a Lleida, dove arriva al 64,6 % (più 0,6 %) e a Tarragona, dove tocca il 49,7 % (più 0,4 %). Viceversa, diminuisce a Girona (64,1 %: meno 0,9 %) e a Barcellona (44,2 %: meno 0,3 %). Si tratta, come si può vedere, di variazioni tutto sommato numericamente trascurabili, ma per alcuni aspetti significativi. Ci dicono infatti come il discorso indipendentista sia molto radicato nelle due province della Vecchia (Velha) Catalogna, Lleida e Girona, tradizionalmente da sempre anche più conservatrici. Si potrebbe paradossalmente sostenere che in queste due province il diritto all’indipendenza ha quasi raggiunto quella che è, secondo noi, la soglia minima per poterla dichiarare, e cioè almeno i due terzi dei voti. Diverso il discorso per le due province della Nova Catalunya, quelle più “meticce”: a Tarragona siamo in presenza di un fifty-fifty quasi perfetto, mentre a Barcellona l’indipendentismo è chiaramente minoritario, anche se dispone di una minoranza più che robusta. Con però un piccolo particolare, da non sottovalutare: Barcellona e la sua provincia rappresentano da sole i tre quarti di tutto l’elettorato catalano

Per concludere.

Le elezioni, come era prevedibile, non hanno risolto nulla. Hanno però reso più evidenti non solo la forza del movimento indipendentista, ma anche i suoi limiti. Hanno altresì evidenziato le difficoltà di coniugare discorso indipendentista e discorso di emancipazione sociale. I successi registrati da Ciutadans in centri di antico insediamento operaio stanno drammaticamente a dimostrarlo. Fare previsioni sul futuro della vicenda catalana è, al momento, un esercizio da chiromante: troppi sono i fattori in gioco, e troppo imprevedibili sono al momento le scelte dei principali protagonisti.

Resta il punto fermo che dovere della sinistra è quello, naturalmente, di opporsi con tutte le forze a eventuali tentativi da parte del governo spagnolo di ignorare la volontà espressa da larghi settori della società catalana. Ma anche quello di riflettere su quanto è avvenuto. La sinistra in Catalogna ha pagato un prezzo salato, ed è probabile che anche nel resto dello Stato spagnolo vi siano conti in pendenza da saldare prima o poi, di riflesso. Ciò che è comunque necessario è che una discussione seria su questi temi venga avviata al più presto. Ci proponiamo di dare la parola nei prossimi giorni ai compagni e alle compagne della Catalogna e della Spagna.

(tratto dal sito Movimento operaio, Sabato 23 Dicembre 2017)

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