Intervista con Goffredo Fofi “Tutti fate inchieste nessuno fa la rivoluzione” di Enrico Di Fazio

 

Nel marzo del 2017 ha chiuso “Lo straniero”, una rivista che dalla sua fondazione (1997) si è sempre occupata di arte, cultura, scienza e società, privilegiando settori fondamentali come: movimenti e istituzioni, pubblico e privato, centri e periferie, maggioranze e minoranze, civiltà e natura, Italia e mondo, vecchio e nuovo, paure e speranze dell’umanità, e poi globalizzazione, pace, immigrazione, educazione e l’espressione artistica – teatro, fotografia, fumetto e arti visive, letteratura, cinema. Il colloquio che ho avuto con Goffredo Fofi[1] è avvenuto nei mesi precedenti la sua chiusura e da direttore era visibilmente contrariato ma di fatto lucido e micidiale nelle sue puntuali risposte. In quest’intervista sono partito tenendo a mente ciò che aveva affermato in un bel libro dal titolo La vocazione minoritaria: “L’Italia è sempre stata piena di gruppi e gruppetti minoritari il cui torto è stato quello di delegare la politica ai partiti tradizionali e a leader più o meno cinici ed opportunisti” molte associazioni,  continua, “sono diventate non una democratica fuga dalla politica, una risposta alla crisi della politica, ma un altro sottobosco della politica; non società civile che lavora concretamente sui bisogni reali delle persone ai margini, degli immigrati, nelle periferie, nel carcere, con i malati mentali, con i vecchi, con i disabili”[2]. Ho pensato così di ripercorrere la sua storia di intellettuale impegnato, facendo un parallelo tra la società odierna e i tempi in cui lasciava Gubbio per andare a “combattere” in Sicilia, al fianco di Danilo Dolci, seguendo gli ideali della disubbidienza civile di Gandhi. Goffredo Fofi ha tracciato un disegno devastante della nostra società, un quadro senza soluzione di risoluzione, un evo-ultimo per il genere umano. Al di fuori di logiche accademiche, istituzionali e di potere, Fofi si è sempre avvalso di dire la sua, senza soggezione di sorta, senza il timore di essere cacciato dal potente o sottratto del titolo onorifico o ancora di più additato di tradimento, in poche parole ha sempre agito da uomo libero, come anche in questa intervista dove non ha fatto sconti a nessuno[3].

  1. Nel 1955 ancora giovanissimo, tu parti da Gubbio per raggiungere la Sicilia dove sposi le idee del sociologo della nonviolenza Danilo Dolci, con cui sei al fianco dei disoccupati in battaglie che vanno dagli scioperi al rovescio alla lotta alla mafia. C’è secondo te qualche relazione tra quegli anni e questo nostro periodo storico?
  2. La mia impressione è che non ci siano rapporti, cioè che la mutazione in corso abbia cambiato radicalmente le cose. Credo fortemente che siamo in un evo nuovo. Il postmoderno non è una palla dei critici letterari ma è una realtà, è un nuovo mondo. Una nuova epoca storica, finito l’evo moderno siamo in questo, probabilmente evo-ultimo, della storia dell’umanità, perché è un periodo particolarmente distruttivo ed autodistruttivo. Negli anni ‘50 e ‘60 lo sfondo era completamente diverso, si usciva da una guerra mondiale e dalla fine del fascismo, c’era stata la resistenza e poi la costituzione, e il voto alle donne… insomma la ricostruzione, cioè l’idea di un mondo che, dopo i 60 milioni di morti della guerra, poteva essere cambiato positivamente. Quindi c’era slancio e anche entusiasmo abbastanza generale, soprattutto nei giovani, che portò via via verso il ’68. Pensa solo al fenomeno enorme della Nouvelle Vague che sul piano artistico è stato un fenomeno internazionale. Dovunque c’è stata questa idea di un mondo nuovo dove i giovani avessero un ruolo molto importante da svolgere. Questo era un po’ il quadro. Io sono cresciuto in una famiglia operaia socialista che trasmetteva, in modo generico, questi ideali. Poi leggevo “L’Avanti”, partecipavo alle riunioni della “Società operaia di Gubbio”. C’era un fervore generalizzato, un entusiasmo collettivo anche nelle forze giovanili dell’epoca, sia comunisti e socialisti, FGCI e FGSI, sia le ACLI, i giovani cattolici.

I sindacati ed i partiti erano modelli di aggregazione?

Sì, diciamo che c’erano delle speranze collettive che attraversavano ovviamente anche questi gruppi organizzati. Ai loro margini c’erano poi le minoranze sparse; non eravamo tanti, per questo ci si conosceva tutti, (non come adesso) cattolici e non, socialisti e anche “Quaderni Rossi”, minoranza politica all’interno della sinistra. In questa rivista c’erano Vittorio Rieser e Giovanni Mottura (anche loro già con Danilo Dolci) ed io per esempio ero in corrispondenza Rienzo Colla, segretario factotum di Primo Mazzolari che pubblicava con una piccola casa editrice di Vicenza; c’era anche Capitini, un punto di riferimento per molti di noi, che andava a Bargiana a discutere con don Milani. In poche parole c’era un movimento trasversale. Proprio di recente pensavo che tra i miei idoli dell’adolescenza c’era Garry Davis, un signore che girava il globo con un passaporto fatto da sé in cui c’era scritto “cittadino del mondo”. Aveva anche un certo seguito: in alcuni Paesi lo facevano entrare in altri lo mettevano in galera.

Un altro mito era, parlando di punti estremi, Ludwik Lejzer Zamenhof, l’inventore dell’esperanto. L’idea di una lingua universale era un fatto meraviglioso. L’Unesco all’inizio era una cosa seria, si occupava dell’alfabetizzazione nei villaggi Messicani, così come in Tailandia o in Africa o anche in Europa e in Italia. Oggi è una farsa, sono dei parassiti, dei cialtroni, con questa puttanata del patrimonio dell’umanità e nient’altro. Insomma noi pensavamo di riuscire a cambiare molte cose.

Ed oggi?

Nessuno pensa di cambiare il mondo con le forze delle piccole minoranze. Il mondo va avanti per altre strade, ci sono quelli della finanza, il dominio di pochissimi sul resto del mondo. Personalmente questo periodo lo vedo estremamente nero e pessimista.

Ma la politica?

La politica oggi è finita, a quei tempi era uno sfondo importante, c’erano in parlamento delle persone perbene, ed erano tante, per cui se c’era una lotta, c’era poi una rispondenza. Oggi sono rarissime. Allora, per esempio, avevi la possibilità di andare da Pertini o da qualche comunista o sindacalista, c’era il dialogo con le istituzioni, perché c’era la Costituzione, perché c’era la Repubblica, perché c’erano i partiti della sinistra, perché c’erano realtà forti.

È solo una mancanza di dialogo tra la gente comune e i politici?

Secondo me il vuoto della politica è totale. La politica non c’è più. Ci sono degli interessi di gruppo che finiscono in parlamento e che si giocano il potere tra di loro, mediano tra loro, litigando, magari ammazzandosi con le parole, però sempre in una logica che non riguarda la Polis. Del destino della Polis “non gliene po’ fregà de meno”.

Il paradosso è che ci sono molte piccole aggregazioni, molte iniziative, una quantità enorme, anche sotto certi aspetti entusiasmanti. Vedi io posso andare in ogni paesino italiano e trovare dei miei referenti, non perché sono ricco e famoso e vado sui giornali, ma perché mi informo e so che lì c’è, quell’associazione che fa quella cosa, quel giornaletto che fa quest’altra cosa, e c’è quel convento dove si riuniscono certi tipi di preti eccetera, e c’è quel posto che cerca di organizzare “il festivalino del cavolo” ma che però serve ad aggregare, a movimentare. Quindi ho in tutta Italia, anche nei posti più sperduti, dei fratelli. Allora c’erano le masse, oggi non ci sono più e non c’è la politica. Però c’è questa area molto vasta di persone, succubi dell’isolamento, che è uno degli strumenti del potere per fotterci tutti quanti con l’idea che basta quello, che quello è il sostituto della politica. Cioè che tu fai l’inchiesta sociale, che tu fai il gruppo con i bambini, che tu insegni l’italiano agli immigrati, che tu fai il festivalino dei giovani registi e si possono fare altri mille esempi, a me sembra che questo “fare” sia il sostituto dell’azione collettiva, che non c’è più. Quello che manca è questo. L’unico momento, l’ultimo, in cui c’è stato un brandello di azione collettiva è stato a Genova, ma poi è finito tutto rapidissimamente.

Manca un conflitto dialettico?

Manca tutto, nel senso che hai le persone perbene castrate e impotenti da questo sistema, ma anche in qualche modo complici di questo sistema. Se tu se invece di occuparti di queste puttanate di cui ti occupi facessi politica nel senso di disubbidienza civile, un movimento… e questo vale per tutti, perché neanche io faccio politica, nessuno di noi fa politica, quindi non ci sono i movimenti collettivi, non ci sono neanche i movimenti parziali! A parte il “no Tav” che in altre epoche avrebbe creato una rete di imitazione e di contatti Nazionali ed invece è rimasto isolato.

Ci sono queste piccole aggregazioni di quartiere che si mettono in azione, come per esempio nel risistemare un giardino abbandonato. È troppo poco?

Manca il quadro generale e mancano i riferimenti collettivi “ognuno per se, Dio contro tutti” dicono i tedeschi. Questo rende la situazione molto difficile perché siamo veramente castrati volontari. Ci accontentiamo e pensiamo che fare una inchiesta, venire ad intervistare un coglione come me è fare lavoro politico. Fare lavoro politico è un’altra cosa, è fare lavoro culturale e la cultura oggi a mio avviso è uno degli strumenti fondamentali per “fottere” il popolo da parte del potere. Serve a riempirti la giornata di chiacchiere, di iniziative di film, di letture, di illusioni di litigate eccetera e a non fare quell’altra cosa fondamentale che è occuparci della Polis. Pensare che siccome scrivo, leggo, ballo, canto e filmo io faccio qualche forma di politica, ma no, non è un sostituto della politica, è uno strumento che ha il potere per non farci fare politica.

Ripartire dall’educazione?

La priorità non è l’educazione, è la politica per l’appunto, il mondo di oggi funziona in questo modo, dopo di che è ovvio che nel mondo di oggi nella cultura usata come oppio in modo collettivo tu trovi gli pseudo Socrate, gli pseudo Aristotele, gli pseudo Danilo Dolci. Trovi tutti gli pseudo possibili, ne trovi tonnellate (indicando i libri accatastati sul tavolo) i libri che arrivano qui, nove volte su dieci, ti spiegano su come dovrebbe andare il mondo, i guru impazzano e tutti dietro perché gli battiamo le mani. E dicono stupidaggini o cose secondarie con grande prosopopea riempiendoci la testa di soddisfazioni parziali, ma non ci aiutano a capire che cos’è il mondo di oggi e che cosa bisogna fare per cambiarlo. Questo è il grande alibi, la grande colpa della cultura di oggi.

I network come luoghi di aggregazione?

Anche quelli sono alibi per non fare, ma ti sembra di fare. Certo una volta ogni tanto capita che smanettando alla fine organizzi una manifestazione o un evento particolarmente grande, ma ci sarebbe stato lo stesso, anche senza lo “smanettamento”, quello è lo strumento non è la chiave.

Noi siamo veramente complici e schiavi di un sistema. La comunicazione è lo strumento del potere. La parola comunicazione è stata cambiata, stravolta ne hanno fatto un’altra cosa. È una comunicazione a senso unico quindi non è una comunicazione. Di fatto è il potere che ci dice cosa dobbiamo pensare, cosa dobbiamo vedere, cosa possiamo vedere. Ci lascia degli spazi di grande carnevale, pensa al “Salone internazionale del libro di Torino” in questi giorni, situazione di grande carnevale, dove trovi insieme una grande scrittrice di nome Marilyn Robbins e Checco Zalone, ed ovviamente il grande successo va a quest’ultimo. Però anche Merilyn Robbins avrà la sua parte perché da quando l’ha scoperta Obama tanta gente ha scoperto la Robbins. È “la società dello spettacolo”, quelle cose che diceva Debord tanti anni fa, è oppio, la cultura è oppio. È usata come oppio. Berlusconi è andato al potere con la cultura, con la comunicazione, con la televisione, si governa con questo oggi, non si governa più con il manganello. Ai tempi di Mussolini si governava con due cose, la propaganda del regime, continua, ossessiva, e il manganello. Oggi del manganello non c’è bisogno, gli basta distrarci. Io credo che questa sia la chiave della questione culturale di oggi: l’impotenza, non c’è più il rapporto tra il pensare, il dire e il fare.

Mazzini pensiero e azione?

Mazzini, io lo cito spesso, lo ricordo, sì! Quando scrissi a Capitini che mi mettevo a fare un’altra inchiesta dopo quella sugli immigrati, lui mi rispose “tutti fate inchieste nessuno fa la rivoluzione”, aveva ragione allora, figurati adesso. Tutti fate festival, discutete dei massimi problemi, siete tanto intelligenti, ascoltate il guru più alla moda e poi il fare, il cambiare?

La politica, la polis va per i fatti suoi con le spartizioni, sono quei poteri lì, manipolati a loro volta dai poteri finanziari europei, dai poteri finanziari americani… perché credi che Renzi conti qualcosa? È un mondo dove i giovani, gli insegnanti, gli operatori e i cosiddetti intellettuali, sono continuamente invitati a distrarsi, a far finta di pensare, non a pensare. Sono continuamente invitati a non fare, non fare le cose che bisognerebbe fare, le cose che non possono che essere collettive, non di piccolo gruppo. Il piccolo gruppo è importantissimo, è un anello fondamentale in tutto questo, per questo dico che io in Italia ancora ci sto bene perché dove vado trovo degli amici. Però degli amici, come una grande società di castrati, di impotenti, che si soddisfano del piccolo fare, alcuni magari non se ne soddisfano. Ci sono anche le azioni collettive e si inventano i cinque stelle una volta, Di Pietro un’altra volta, queste buffonate in cui c’è l’illusione che tu partecipi, non partecipi ad un cazzo, partecipi al carnevale della cultura, il carnevale della politica, che sono uno strumento per tenerti buono per tenere buoni soprattutto quelli che potrebbero dare più fastidio: i giovani, e gli intellettualini.

Allora puntiamo sui giovani per il cambiamento?

Per me, contrariamente a queste scemenze di libri dei padri che dicono che i figli non valgono niente, mentre al loro tempo facevano il ’68 (questi mascalzoni), credo che il problema di questa società è che non ci sono i padri, non ci sono gli adulti. I giovani ci sono, ne conosco parecchi e hanno delle motivazioni, delle spinte, delle pulsioni, di taglie estremamente serie. Io con questi riesco a parlare. Le nostre generazioni sono fatte da perdenti assoluti, non hanno fatto un cazzo e si fanno belli delle proprie sconfitte.

La tua testimonianza è importante proprio perché sei fuori dal coro con la tua fondamentale esperienza storica, politica e sociale. O no?

Guarda io l’unica cosa che ho imparato da quando ero bambino l’ho imparata dalla guerra, che ho visto e sofferto, è che bisogna lavorare in gruppo, che l’io è un impiccio, non un aiuto. La centralità dell’io è una truffa. Rocco Scotellaro diceva “io sono gli altri”. Ed io ci credo. Allora tutta questa smania dell’ego è anche questa un’astuzia del sistema per fotterti. “Perché io penso che”… Che cazzo pensi. “Io sono”, “io scrivo”, e quando hai scritto? Cosa cambia? Escono tremila libri al giorno inutili, il giorno dopo sono finiti. Perché l’industria culturale macina mode e deve continuamente cambiare tutto, facce, volti. Già Baricco è l’ombra di Baricco, già Saviano è il fantasma di Saviano.

Ecco tu sei uno scopritore di talenti, come appunto Baricco e Saviano. Questi hanno mantenuto in vita il loro talento dopo il successo?

Non sono uno scopritore, facendo le riviste io sto attento a quello che viene fuori nei vari campi, non ho una mia specialità e siccome è un lavoro che ho imparato a fare bene, so individuare delle persone e per quello che posso gli do una mano. Dopo di che, alcuni… Una volta mi sono inventato una battuta di Totò, che Totò non ha mai detto, ma che ho sentito attribuita a lui: “Appena crescono si buttano a destra”… è vero! Appena crescono, se hanno veramente talento vengono scoperti da Eugenio Scalfari che li fa arricchire e diventare famosi e poi li castra, gli taglia le “palle”. Gli taglia letteralmente le “palle”. Diventano dei “bamboccetti” del sistema mediatico e pubblicitario dei poteri.

Inglobati ed imprigionati dal sistema. Ma è così difficile sfuggire a questa logica?

Lì il problema è di tipo politico, prima ancora che etico, perché qui ci vedo veramente un’astuzia del capitale, chiamiamola così: far credere a tutti di essere importanti mentre in realtà non contano niente. Baricco come Saviano per non parlare di tutti i seguaci, di tutti i premi strega, sono dei “pupazzetti” in un gioco che serve appunto a distrarre, non a far pensare ma a distrarre, e soprattutto a non fare agire.

Per tornare al discorso di prima, io sono cresciuto con l’idea del lavoro di gruppo e ancora ci credo, non credo all’individuo isolato. Certo, credo che ogni individuo ha le sue qualità, io sono bravo a fare le riviste, tu sei bravo a scrivere poesie, l’altro è bravo ad insegnare l’italiano, però questo ego è veramente di impiccio, non è d’aiuto. Se uno ci rinunciasse un po’ al suo ego saremo tutti più tranquilli, sereni e faremo delle cose più utili. Siamo in un sistema di dominio: si domina non soltanto con le armi, si domina anche con la cultura. Forse è sempre stato così, però oggi la cultura ha un potere enorme perché cattura anche tutte le istanze positive contro il potere e le neutralizza, ne fa gioco invece che azione, invece che fatti.

Inglobati e neutralizzati?

Io in passato sono stato alcune volte in Messico. Il partito rivoluzionario istituzionale (già nel nome un paradosso), ai giornali che volevano fare delle riviste politiche, estremiste e così via, gliele lasciavano fare, non solo, li finanziavano anche; però, appena passavi all’azione, ti massacravano, letteralmente. Finché sei fermo sulle parole ti fanno fare tutto, fai il film contro il regime e ti danno anche i premi, insomma come succede qui… però se passi a quest’altro piano del discorso che è quello dell’azione ti castrano, ti fanno fuori, in qualche modo ti neutralizzano.

Ma c’è qualche possibilità di sfuggire a questo tipo di sistema oppure si andrà sempre peggio?

Non lo so io questo, non posso fare previsioni. Sono sostanzialmente pessimista, te l’ho detto, però rimango un pessimista attivo come il vecchio Gramsci: “Pessimista nell’analisi ed ottimista nella volontà”. In quello ci credo, nel PCI l’ottimismo della volontà era interpretato come ottimismo della volontà in potenza, di farsi avanti; l’ottimismo della volontà vuole dire che nonostante l’analisi nera che tu puoi fare del mondo, tu fai la tua parte. Salvemini diceva “fai quel che devi accada quel che può” citando non so quale presocratico. Abbiamo il dovere di dire, testimoniare, io faccio sempre questo tipo di cose pedagogiche e culturali perché le altre cose non riesco a farle, non posso fondare io un partito e magari anche se potessi sarebbe una farsa, sarebbe di nuovo un altro Beppe Grillo.

Ma la cultura, non quella legata al potere, per esempio “nel cinema del no” un libro che hai scritto ultimamente individui forme di cinema anarchico, che cosa potrebbero fare?

Fanno quello che possono, Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino, fanno delle cose egregie, la speranza del futuro sono loro, non è certo Virzì o Andò o il cinema ufficiale.

Però ripeto quello che manca è la politica, queste cose sono tutte positive, io faccio le riviste ed è uno scandalo che “Lo straniero” venga letto da così poche persone. Voi intellettuali di merda -italiani che siete massa, che dovreste leggere le riviste, in Italia l’unica decente è rimasta quella  ve ne fregate, perché mangiate la vostra merda, vi piace la vostra merda tra professorini e professoroni… C’è un mio amico antropologo che dice che è la cultura dei cani che si leccano il culo a vicenda, si odorano il culo a vicenda, ecco voi siete così, voi cultura universitaria, voi cultura giornalistica, voi cultura editoriale, scrittori, registi e affini, siete veramente un mondo chiuso, privilegiato, tanti, perché siete tantissimi, servi, sostanzialmente servi.

Quindi non ci salva neanche la cultura?

Non so quanti siamo in Italia a campare di cultura, ma siamo milioni, la più grande fabbrica è quella, non è l’automobile, è la comunicazione, la cultura, la scuola, i musei, i giornali, l’editoria, il cinema, il teatro, la musica, il turismo… Quella è cultura, quanti campiamo di questo? Forse la metà della popolazione. Però vai a dire che siamo pezzi di un sistema al cui interno bisognerebbe organizzarsi per cambiare qualcosa! No, ognuno va per sé. Insomma è un disastro per cui non si può essere molto ottimisti. Certamente ci sono gruppi di persone che aspettano, aspettano il messia.

Aspettano un uomo forte?

No, aspettano che ci sia una rottura di questa impotenza, che ci sia l’azione; però non osano farlo loro, non osano cominciare loro. Le poche volte che ho visto azioni di disobbedienza non parolaia e non culturale è con i “no Tav”. Ce ne fossero… Questa è una strada. Il piccolo gruppo che dice no ad una legge sbagliata, ad una imposizione, che fa qualcosa, che dice la sua per dimostrare la sua negazione di quel sistema. Io credo solo in questa possibilità, e mi sento vigliacco perché non lo faccio, quindi continuo a fare il lavoro culturale che so che serve a poco, per di più essendo iper-minoritario, in un Paese dove tutti mangiano la propria merda o la merda del vicino. Se tu dici delle cose serie, dai delle fragole non se ne accorge nessuno, non gliene frega un cazzo perché la merda di Repubblica è infinitamente più interessante delle fragole che tu gli dai con le piccole iniziative.

Ma la politica che cosa dovrebbe fare?

Credo che sia un problema di rottura di questo incantesimo individuale e di piccoli gruppi. Perché se questi piccoli gruppi volessero e si collegassero tra di loro e dicessero di no a certe cose, ecco da lì nasce la politica.

la politica dal basso?

Certo nasce dai collegamenti tra gruppi e da lì nascono anche i leader, nascono le persone che sanno organizzare, che sanno ragionare, che sanno mettere insieme. Nel messia non ci credo perché se arriva si chiama Beppe Grillo. Di tutto questo credo che i cosiddetti intellettuali, compreso me, abbiano delle responsabilità enormi nell’accettazione e nel contribuire a questo stato di cose. Anche loro dovrebbero cominciare a ragionare seriamente sulla loro miseria e sulle loro potenzialità, che per fortuna ci sono. Dovrebbero andare su ciò che non fanno, non farsi belli sulle scemenze che fanno; sono transeunti e fragili. Perché poi non è che i cervelli degli “amici” cambiano il mondo, non cambiano niente. Servono a tener viva questa idea di possibile alterità ma più di quello non fanno.

Servono a creare una coscienza?

Sì e poi che te ne fai della coscienza se non la usi? A che serve? Io sono tanto buono, sono tanto intelligente ma non faccio un cazzo…

[1] Goffredo Fofi è un saggista, giornalista, critico cinematografico, letterario e teatrale. Animatore sociale e culturale dagli Anni Cinquanta a oggi, in una intervista rilasciata a La Repubblica nel 2007, “dice che in tanti anni ha imparato a fare due cose soltanto, ‘che probabilmente coincidono’, un po’ di pedagogia e le riviste”. Ha co-diretto o diretto le riviste: Quaderni Piacentini, Ombre Rosse, Linea d’Ombra, La Terra vista dalla Luna, Lo Straniero. È il direttore editoriale delle Edizioni dell’asino, la cui Associazione si riconosce nei principi della giustizia e della solidarietà sociale ed economica, della partecipazione democratica alla vita della comunità, della promozione dei diritti civili e umani in ambito nazionale e internazionale. Principi che racchiudono il pensiero di Fofi. La sua partecipazione attiva verso le minoranze e i diseredati lo ha visto tra i fondatori della Mensa dei bambini proletari a Napoli.

[2] Goffredo Fofi, La vocazione minoritaria, intervista a cura di Oreste Pivetta, Laterza 2009.

(pubblicato sulla rivista di studi umanistici ‘leússein’)

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