Il mondo è del diavolo. A proposito di “Bruciare tutto” di Walter Siti. Incontro con Giacomo Pontremoli

 

Lo scandalo

Non ho capito che cosa voleva fare “La Repubblica”. Hanno fatto di tutto per essere i primi, il giorno stesso dell’uscita del libro. Un pattugliamento letterario preposto a dire come andava letto il romanzo. Anche scegliere, per recensirlo, non un critico letterario o uno scrittore, ma una filosofa morale, Michela Marzano, era significativo: volevano che il libro venisse letto in quella direzione; non mi risulta che Marzano abbia scritto altre recensioni di testi letterari. Poi l’intervista a “Repubblica” che mi hanno fatto era chiaramente un interrogatorio; io sinceramente non so cosa rispondere a domande come “Ha scritto queste cose per diventare un martire come Pasolini?”. Illazione per illazione, ero tentato di chiedere: “Lei dirige le pagine culturali del più importante giornale italiano perché vuole diventare un sex symbol come Belén Rodrìguez?”; avrebbe avuto lo stesso tasso di pertinenza. Oppure: “Un critico ha detto che il suo libro fa schifo, lei è d’accordo?”. Se fossi stato d’accordo non l’avrei pubblicato. Non sono riuscito a capire la ragione di questo tasso di aggressività. Anche perché fino a quel momento loro mi consideravano “un prezioso collaboratore”, per cui veramente non ho capito. Soprattutto non ho capito se ci fosse la volontà di sollevare la polemica in quanto tale, o se considerassero davvero intollerabile il libro e quindi volessero subito dare una direzione di lettura; non so scegliere tra queste due possibilità. Quanto a ciò che è venuto dopo, i primi giorni mi ha fatto stare molto male; soprattutto due cose mi hanno molto ferito: primo, la gratuità di dire che la mia fosse una “cinica operazione commerciale” (io so come vivo, so come faccio letteratura, questo è il mio decimo libro e anche la gente più o meno dovrebbe saperlo, anche dai miei nove libri precedenti, che non c’è niente di commerciale nella mia opera); ma è la seconda la più importante, e dimostra quale sia la ricezione dei libri oggi in Italia. Le persone che ne parlavano o non l’avevano letto, anche dicendolo apertamente, o erano poco attrezzate circa gli strumenti che di solito si usano per la letteratura. Sostenere che è un libro a tesi significa scavalcare almeno tutti i primi quattro capitoli e arrivare subito al quinto, che è a metà. I libri a tesi non sono fatti come il mio, hanno personaggi più stilizzati. La supposta “tesi” è stata tirata fuori con la forza da un libro che invece contiene molte altre cose. Sarebbe come dire che siccome Misha Karamazov dà il meglio di sé quando fa il viaggio in Siberia, allora gli errori giudiziari servono. Sostanzialmente mi è sembrato che mancassero alcune cose di base: per esempio attribuire a me, come se le avessi dette io, le parole di un mio personaggio, significa non conoscere l’abc della critica letteraria.

I giornali vogliono esaurire un romanzo nei primi dieci giorni dell’uscita: qualcuno cavandosela semplicemente con un’intervista all’autore, altri con una recensione che però cerca artificialmente la polemica, oppure schematizza subito “sì-no”… Marco Belpoliti, senza aver letto il libro, disse: “Con un argomento come questo, o è un capolavoro o è una schifezza”. Adesso ho visto che nel suo boxino uscito sull’“Espresso” ha capito che tertium dabatur, perché dice che il romanzo non è un capolavoro ma io so scrivere: evidentemente c’era anche una via di mezzo possibile. Però si inducono anche le persone che sarebbero più attrezzate culturalmente a esprimersi subito su un libro che non hanno letto, e tutto rimane molto aleatorio. Spesso poi l’attenzione dopo quindici giorni si spegne (è bastata l’allusione alla Boschi nel libro di De Bortoli perché di Bruciare tutto non gliene fregasse più niente a nessuno), quindi è tutto un po’ fantasioso. Comunque su questo libro è uscito tutto e il contrario di tutto: è stato detto che è inaccettabile e che gli italiani mi dovrebbero ringraziare, che è scritto in un modo stereotipo e assolutamente di merda e che invece è scritto benissimo, che è un libro a tesi e che è un libro con personaggi tridimensionali… A questo punto il mio atteggiamento è di lasciare che dicano, e aspettare che fra un po’ di tempo il libro venga letto per quello che è.

Quella che una volta era la critica accademica, fatta dagli universitari, è rimasta fra alcuni quarantenni chiamati “giovani critici” – Simonetti, Bazzocchi – che hanno fatto alcune letture approfondite del libro, ma che non hanno voce in capitolo nel bazar informatico; quelli che danno la linea su un libro sono i giornalisti, oppure persone non specializzate di quella materia. Invece la critica militante, cioè interventi di critici non accademici che però siano attrezzati ad analizzare la letteratura e capaci di fondare dei dibattiti magari anche stroncatori ma sul testo, entrando nello specifico letterario, non esiste più; i critici militanti non ci sono più.

Ho abbastanza riflettuto in questo periodo, avendo tempo e modo, su tutto questo. Ora credo che in realtà il vero motivo di scandalo sia stato che in Bruciare tutto non ci sono speranze e il mondo è del diavolo. Il mondo è il male. Ho dipinto un bambino talmente disperato che addirittura si uccide. Questo è ciò di cui vengo incolpato. L’unica speranza per tutti sono i bambini, perché sono per definizione il futuro. Nel romanzo, invece, il bambino muore, si suicida. Peraltro del suo suicidio è stata data un’interpretazione molto restrittiva, a proposito di forzare una tesi: si ucciderebbe perché il prete non ha abusato di lui. A parte il fatto che lui non chiedeva affatto al prete di abusare di lui; ma è evidente che si uccide perché ha dei genitori di merda e perché lui stesso non riesce a integrarsi con gli altri bambini. Si uccide perché è solo e soffre. È un romanzo che infastidisce la delirante positività coatta, obbligatoria, che domina tutti i media di oggi.

Il male

Questo dell’esistenza del diavolo (cioè il male, il negativo, l’ombra) e dell’impossibilità di eliminarlo è anche un tema religioso, cristiano e non solo cristiano; biblico. Quando uno dei bambini al doposcuola chiede: “Ma se Dio è il più forte, perché non ammazza Satana?”, fa una domanda lecita. Non lo “ammazza” perché non può.

Viene obbligatoriamente, continuamente chiesto e imposto il “messaggio positivo”: non ti chiedono qual è il messaggio del tuo libro, ti chiedono qual è il messaggio positivo. Ma non necessariamente i messaggi devono essere positivi. Sappiamo nel nostro intimo che le cose stanno volgendo verso il peggio e non verso il meglio, ma c’è questa enorme negazione collettiva, o coda di paglia, per cui non si può dire, per nessuna delle cose di cui si parla, che non c’è speranza. È una breccia da cui può entrare la disperazione. Nell’incontro che abbiamo avuto con Michela Marzano a Milano, a Tempo di Libri, il 23 aprile, mi ha colpito molto una cosa, verso la fine, che non abbiamo potuto approfondire perché era scaduto il nostro tempo. Abbiamo parlato della frase che io avevo letto sul deep web e riportato nel romanzo: quella sul bambino morto sulla spiaggia, fotografato e utilizzato da tutti i media, noto come “il piccolo Aylan”. Marzano, una persona onesta che ha detto quello che pensava, mi ha attribuito come colpa di aver dato a quella frase “dignità letteraria”, trasferendola da internet alla letteratura. Ecco: mi sembra che questa accusa implichi, come sottotesto, che ciò che è sotterraneo (per esempio il deep web) debba restare sotterraneo. Ma è la negazione di quello che la letteratura dovrebbe fare: portare in superficie tutto quello che è rimosso, sia nell’individuo (cioè nell’inconscio personale), sia nell’inconscio collettivo (quello che la collettività non vuole vedere). È questo il problema di fondo. La pedofilia è violentemente tabù, ma altri brani del romanzo su temi altrettanto gravi, come le pagine sull’Isis (ricavate da Dabiq) o quelle religiose, sono state totalmente eluse.

Dal punto di vista del protagonista che ho scelto, don Leo Bassoli, il mondo cattolico è l’unico mondo. Leo è cristiano, ma non sono sicuro che sia cattolico. Si pone continuamente dei problemi al limite dell’eresia. È ossessionato, assediato, da Dio. Per lui l’alternativa non può che essere la promessa cristiana di un nuovo cielo e una nuova terra. Ha una prospettiva di speranza, a un certo punto si dice che “il cristiano è obbligato alla speranza” perché ci sarà la Resurrezione: non puoi accettare Cristo sulla croce senza accettare la sua resurrezione. Il cristiano deve per forza immaginare che ci sia un “dopo”. Per Leo questo “dopo” è radicale. Siccome intorno non vede altro che negatività, questo nuovo cielo e questa nuova terra sono come l’Angelus Novus di Benjamin, qualcosa di semi-rivoluzionario che si proietta nel futuro. Però non ci sono nel libro esempi di resistenza civile che non abbiano a che fare con la fede e che funzionino. L’unico momento in cui si parla di sinistra parlamentare, cioè di Pd, è quando lui vuole organizzare questo sciopero dei bambini e gli unici due che non ci stanno sono i genitori del Pd perché temono le strumentalizzazioni! La sinistra laica non è molto ben rappresentata. E anche l’antipolitica viene criticata. Uno degli ospiti del rifugio a un certo punto ha una strana teoria linguistica, dice che si parlano tante lingue nel mondo perché “i politici hanno deciso” che gli uomini non dovevano intendersi; ricostruisce Babele in termini antipolitici. È quello che sta succedendo oggi: si dà la colpa alla politica di cose che hanno un’origine più profonda, economica e psicologica. Il discorso diffuso contro i politici mi sembra un alibi, un facile capro espiatorio. Non si può per esempio vedere il fenomeno della migrazione, con milioni di individui che si stanno spostando per ragioni che sono davvero le più diverse, e poi dare la colpa ad Alfano. Non c’è proporzione tra queste due cose! Anche la cosa del “costo della politica”: con tutte le cose totalmente inutili che noi paghiamo! Quello che paghiamo per la nostra indifferenza, dalla pelliccia regalata alla mamma anziana per poterla poi lasciare alla badante, all’obolo che dai al ragazzo di colore all’angolo per startene tranquillo, oppure comprare cose semplicemente perché ce le ha il vicino e la moglie rompe se tu non gliele compri… Con tutto quello che spendiamo per il diritto all’inerzia, all’indifferenza, alla tranquillità, le cose già pronte, il diritto alla comodità, l’insalata già tagliata per non faticare a tagliarla tu a casa col coltello… Addirittura ho trovato, da certi fiorai del cimitero Monumentale milanese, alcune preghiere già prestampate! Non te la devi neanche inventare: la compri e la depositi sulla tomba. Con tutti questi soldi qui, chiederci quanto costino i politici è veramente ipocrita.

A proposito di elusioni, è curioso che, pur essendoci tre preti nel libro, si parla sempre e solo di uno. In realtà ci sono anche gli altri due. Sono completamente diversi: uno è un prete di compromesso, che non vuole “disturbare Dio”, che fa’ il suo dovere, ha una donna e quindi sa di essere un peccatore però senza dare scandalo a nessuno, un prete di quelli che usano la religione come una vecchia ciabatta comoda, utile per i parrocchiani perché ha sempre una parola comprensiva per tutti; l’altro invece è uno di questi entusiasti che girano adesso, che vede tutto in chiave positiva, per cui la religione è amore, il peccato quasi non esiste, Adamo ed Eva sono soltanto una svista e l’inferno sostanzialmente non c’è perché c’è solo il paradiso. Sono due tipologie di preti oggi esistenti; Leo non è né l’uno né l’altro, va continuamente a scavare nelle mancanze, nelle mancanze proprie e altrui.

Don Leo e don Lorenzo

Ho già spiegato che la dedica “all’ombra ferita e forte di don Lorenzo Milani” ha un significato oppositivo: di omaggio a Milani e distinzione dal mio protagonista. Leo e don Milani si distinguono in moltissime cose. La prima è che Leo non ha volontà; le uniche cose che riesce a fare sono autolesionistiche (per esempio il rifiuto del cibo nelle prime pagine), ma è come se non avesse disciplina per costruire. Si perde immediatamente; confonde continuamente il sano pessimismo con la disperazione. Non è mai riuscito a domare davvero i suoi demoni interiori: non agisce, ma subisce i propri pensieri oscuri, si abitua a dire che devono passare come se fossero dei temporali che bisogna lasciare passare perché sennò è peggio, però si eccita non appena i due gay molto integrati – quelli che fanno i giochi sadomaso ma facendoli diventare teatro, entrambi due temperamenti antitragici – parlano del loro rapporto, Leo si rende conto che quel desiderio non l’ha mai veramente domato. A un certo punto dice o pensa: “Il modo peggiore per arrendersi al desiderio è averne paura”. E lui ha molta paura. Mentre l’idea che io ho di don Milani è invece di uno che paura non ce l’aveva. Non aveva paura e usava la volontà per costruire delle cose. Questa è la cosa fondamentale. Inoltre Leo non ha nessuna idea su come potrebbe cambiare la realtà: sa soltanto che dovrebbe essere simile al Regno dei Cieli. Quando ha a che fare con un po’ di persone ricche, quando dialoga con il broker, non gli dà quasi ascolto quando l’altro fa dei discorsi pratici su come si può uscire dalla crisi economica, perché lui non pensa in questo modo, è come se la realtà materiale quasi non esistesse. Tant’è vero che quando poi la parrocchia, che è un dato di realtà, gli presenta tutta una serie di problemi, perché arrivano lì a confessarsi, a raccontargli, lui non fa altro che crear loro altri casini: non li aiuta; non è un prete che possa dare una mano ai parrocchiani che vanno da lui, semmai ne moltiplica i problemi.

Lo apparenta invece a don Milani un modo franco e a volte sboccato di parlare, e un certo sentirsi ossessionato da Dio; don Milani si confessava tutti i giorni, come se Dio lo avesse addentato e non lo mollasse. Anche l’istinto pedagogico li distingue. Don Leo un po’ lo prova, tant’è vero che utilizza la frase famosissima di Milani “dicesi maestro chi non ha interessi culturali quando è solo”; però poi, di fatto, quando si tratta davvero di organizzare queste cose, molla molto presto. Lo sciopero dura tre giorni, dopo non ci pensa più, è occupato da altre cose. Soprattutto, ha paura dei bambini; si vieta di essere davvero un maestro perché non vuole averci a che fare. Ha paura che se ha a che fare con loro succede poi chissà cosa. La sua sigla vera è la paura, e sarà la sua caduta nel finale. Quella di don Milani, invece, è il coraggio.

La paura è una cosa mia che ho proiettato su don Leo. Per tutta la vita ho avuto paura dei miei desideri. Da una parte li sentivo indomabili, pur sapendo che alcune cose mi stavano portando a delle azioni che avrebbero rovinato me, che non avrebbero fatto bene all’altra persona, e che erano anche socialmente negative; però le facevo lo stesso. Mi sembrava di non riuscire a comandare il desiderio. E poi mi ha sempre fatto paura perché ho sempre avuto l’impressione che l’unico modo che io avevo per pensare l’assoluto passasse attraverso una cosa negativa. Non potevo rinunciarci perché avrebbe significato tarparmi tutte le ali possibili e vivere una vita dimidiata; e però se invece facevo questa cosa, riuscivo a viverlo solo nell’altro senso. Ma il mio bisogno di prendere tutto, trovando l’assoluto, attraverso questi corpi enfatizzati muscolarmente, dimenticava che il tutto e l’assoluto sono già qui, siamo noi; io ci sono già, dentro al tutto. Quindi qui c’è una mia mancanza di fondo: ho bisogno del negativo per passare all’assoluto. Questo mi ha sempre fatto paura. Ho proiettata questa paura sul mio prete.

Una seconda trilogia

Bruciare tutto è molto vicino ad Autopsia dell’ossessione: fra tutti i romanzi che ho scritto, è il più vicino a quello. Nella mia testa, alla mia prima trilogia di autofiction corrisponde quella composta da Autopsia dell’ossessione (2010), Resistere non serve a niente (2012) e Bruciare tutto, perché per illuminare alcune zone inconsce e lontane da me, non potevo usare l’Io e dovevo scrivere in terza persona, che è la forma di tutti e tre questi romanzi. Il sadismo, tema di Autopsia dell’ossessione, è estraneo alla mia persona e alla mia vita; la passione per il denaro, tema di Resistere non serve a niente, anche questa non la conosco, perché sono povero, non so cosa vuol dire; la pedofilia (Bruciare tutto) ugualmente non mi riguarda, perché i corpi che desidero devono avere alle spalle almeno dieci o quindici anni di palestra, quindi chiaramente non possono avere meno di venti-venticinque anni. Quindi erano tre cose per le quali ho avuto bisogno di tre controfigure: Danilo Pulvirenti in Autopsia dell’ossessione, Tommaso Aricò in Resistere non serve a niente, e don Leo Bassoli in Bruciare tutto. Però c’è un legame fra il primo e l’ultimo che lascia fuori il secondo: il tema dell’ossessione. La cosa che mi ha preso di più di don Leo è il fatto che lui, contrariamente a Pulvirenti che invece ci si dedica tutta la vita, cerca di espellerla da sé senza però liberarsene mai; continuamente c’è questa specie di ritorno della sua immaginazione. Dall’ultima fantasia frenetica, quella compiuta prima di svenire, si capisce che sono delle fantasie totalmente irrealizzabili: a un certo punto è messa in discussione persino l’impenetrabilità dei corpi, questi angeli che hanno sei ali e non si capisce dove le mettano, forse lo spazio è multidimensionale… Sono fantasie non realizzabili nella realtà. E proprio per questo completamente ossessive. Per cui in realtà non è neanche perverso: la pedofilia in quanto agìta è una perversione, per esempio l’altro prete, pedofilo seriale, trasferisce la fantasia in atto e quindi in qualche modo la scarica. Così fanno i perversi: si organizzano una vita in cui il desiderio viene scaricato. Da questo punto di vista sono brechtiani, non sono aristotelici: si vedono mentre lo fanno, si teatralizzano. Invece l’ossessione è per eccellenza ossessione per qualcosa che non può essere mai realizzato fino in fondo. Così come i “miei” corpi, quelli della prima trilogia, finiti con Pulvirenti, sono corpi per definizione inesistenti, perché c’è sempre uno che può avere più muscoli di un altro; in quello effettivamente si verifica l’ossessione. Come diceva Pavese parlando del mito, l’ossessione è il desiderio di qualcosa che è già stato, che è già successo e che tu cerchi di riprodurre però non sai neanche come, perché è una cosa che ti sei dimenticato; cerchi allora continuamente la “venuta dal mare”. Ho l’impressione che quella di don Leo sia un’ossessione più che una perversione: quegli angeli che desidera superano il tempo e lo spazio. Perché Leo non ama la realtà; direi di più: non ci si sente dentro, come se non appartenesse alla realtà. Questa è una caratteristica che penso appartenga proprio agli ossessi. Voler essere sempre altrove.

Milano

Milano, dov’è ambientato Bruciare tutto, racchiude tutto il meglio e tutto il peggio del presente. È una città energica, che ha voglia di muoversi, dove il futuro esiste, ci sono gru e costruzioni. Alcune cose di fondo le mantiene: mi colpisce molto, per esempio, che la criminalità popolare sia così poco permeabile con la borghesia. Non c’è quella terra di mezzo tipicamente romana in cui partendo dagli impicci dei borgatari si può risalire all’avvocato e all’architetto – non parlo della politica, parlo proprio di una mescolanza di ceti sociali, che potrebbe anche essere un interclassismo positivo ma che a Roma si risolve infelicemente. Non c’è neanche questa nuova ondata di corruzione dilagante in Italia. Tra le città italiane che conosco, Milano è quella che ha ancora alcune distinzioni di fondo tra bene e male, e voglia di agire. Però è bifronte: i discorsi che sento sono un po’ lunari, surreali, propri di una città totalmente conquistata dalla nuova economia. Spesso vado a mangiare in questi posti eleganti dove mi invita un amico che dirige un hedge fund: andiamo da Trussardi alla Scala, andiamo in questo posto che si chiama “Langosteria” alla Galleria del Corso, e ci sono tutti questi che lavorano in banca, tutti con la giacca e la cravatta, come fossero in batteria, parlano continuamente d’affari, dicono cose improbabili che io colgo così, tipo al volo (“Gramsci lo mettiamo solo nella broshure” – che non capisco cosa voglia dire! Avrà sicuramente un senso…). Strane frasi così. Oppure parlano spesso in inglese, mescolano l’inglese con l’italiano… C’è un certo senso di irrealtà. Anche il quartiere dove abito: ogni tanto si vede gente vestita come se fosse un eterno carnevale, con stranissimi pantaloni. La prima volta che sono andato in macelleria – abitavo qui da pochi giorni – e ho chiesto lo spezzatino, mi hanno detto: “No, spezzatino no: abbiamo però dei morceaux de viande”! Da questo punto di vista mi sembra una città molto disponibile a vivere in questa irrealtà contemporanea! Tutto sommato è una città simpatica, dove io mi trovo bene, però con questo sospetto che forse bisognerebbe andare più in periferia. Io all’inizio ho chiesto se c’erano i quartieri operai, ma mi hanno spiegato che non ci sono più nemmeno gli operai, non solo i quartieri. Quindi uno ha a che fare o con la moda, o con la finanza, o con i ricchi di famiglia. In questo è perfino troppo postmoderna; però non è neanche quella specie di immobile groviglio che è Roma. È una città europea, somiglia a Barcellona o a Francoforte. Non sapendo abbastanza la lingua, non so se anche a Barcellona e a Francoforte ci sia un’accettazione così totale di questo mondo irreale dei soldi che non si vedono, degli affari che si fanno soltanto sulla parola, del virtuale. L’altro giorno ho sentito un milanese che diceva: “L’idea che ho di me è completamente virtuale”.

(foto: Lucifero di Gustave Doré)

(tratto dal sito della rivista gli ‘Asini’ – http://gliasinirivista.org30 maggio 2017)

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