A zonzo per l’Europa di Cristiano Dan

In un momento di debolezza ho promesso a Fabrizio un piccolo contributo al dibattito aperto con il numero 68. Mi sono quindi diligentemente immerso nelle pagine degli ultimi quattro numeri, rileggendo alcuni interventi e leggendo ex novo altri che avevo trascurato, e sono stato preso dal panico. Il dibattito c’è, certamente, ma è come un tumultuoso fiume in piena, che travolge argini e straripa in tutte le direzioni, senza offrire alcun appiglio. O meglio, offrendone tanti, troppi, per cui si esita, ci si chiede a quale sia meglio afferrarsi. Per esempio, a quello di Andrea Cabassi, che sembra indicarci il sovranismo come una possibile via d’uscita («Il problema di fondo diventa, allora, la sovranità»)? Da fanatico censitore dei vari e pittoreschi etnopartiti (brutta parola, ma serve per capirci) europei stavo per cedere a questa lusinga, che avrebbe il merito di farci discutere un po’ meglio del problema catalano. Ma nel corso degli ultimi anni mi sono convinto, a ragione o a torto, che la via delle piccole patrie, sia pure socialiste, non ci porterebbe che al disastro. Convinto da tempo dell’impraticabilità delle vie nazionali al socialismo, non posso certo convertirmi oggi alle vie regionali, sia pure con tutti i crismi necessari (radici storiche, culturali, linguistiche eccetera). Il dibattito sull’argomento, quindi, lo rimando, magari, a un’altra occasione.

Un secondo stimolo mi è venuto dall’intervento di Diego Giachetti, che ci ricorda, opportunamente, che alcune apparenti “novità” sulla recente scena europea erano in realtà già state anticipate in Italia, in una certa misura, da Rifondazione comunista. È senz’altro vero, ma, appunto, solo in una certa misura. Mi aggrappo dunque a questo appiglio.

La grande crisi

Quasi tutte le esperienze di costruzione di nuovi soggetti politici in Europa (Rifondazione, poi, citando un po’ a caso, il Bloco de Esquerda portoghese, Syriza, la Linke in Germania; ma non Podemos) nascono dalla presa d’atto, in date diverse, sia della sconfitta del movimento operaio stalinizzato (crollo del sistema sovietico e del sistema internazionale di partiti a esso collegato), sia – anche se non tutti se ne sono accorti in tempo – del movimento operaio socialdemocratizzato, la cui funzione, dal punto di vista dei padroni del vapore, cessava di esistere nel momento in cui cessava di esistere l’“antagonista storico”: il riformismo era stato utile, dal punto di vista padronale, per incanalare all’interno del sistema le rivendicazioni della classe operaia, spogliandole di ogni significativo contenuto politico e circoscrivendole all’ambito economico. Tolto di mezzo il comunismo minacciante, anche la socialdemocrazia non serviva più: e dunque si cessava di farle concessioni.

La fine del blocco sovietico ha provocato non solo un gigantesco sconvolgimento geopolitico, ma anche una profonda e radicale ridiscussione teorica. Si dovrebbe qui lavorare di fioretto, ma lo spazio non lo consente, e allora ricorriamo all’accetta, procedendo per titoli. Non c’è stata solo la risibile proclamazione della fine della Storia, ma anche la recita del De profundis per la classe operaia, dichiarata semiestinta (anche un cretino dovrebbe rendersi conto che oggi, nella sola Cina, vi è un proletariato decine o centinaia di volte più numeroso di quello descritto nel Manifesto di Marx ed Engels. Ma tant’è. L’eurocentrismo è difficile da sradicare). Si è poi proclamata la fine delle ideologie, parola ambigua per dire che non c’era più spazio per concezioni del mondo alternative a quella del capitalismo. E c’è chi ci ha creduto, e si è convertito al pensiero unico, con qualche distinguo. Salvo poi scoprire che ideologie di ben altra natura di quelle affrettatamente sepolte covavano sotto la cenere: per fare un solo esempio, il fondamentalismo islamico. Si sono organizzate anche marce funebri per la forma-partito, espressione chic per buttare via anche il bambino assieme all’acqua sporca. A nessuno interessa il partito-in-sé, che può essere strumento delle più svariate classi e ambizioni. Quel che ci interessa è: che fare se rinunciamo al partito come strumento per agire sulla società? Risposte varie: ci buttiamo nei movimenti, che in quanto tali sono certo l’ossigeno per qualsiasi azione politica, ma che appunto in quanto tali dopo un po’ che si “muovono” o ottengono risultati concreti oppure cessano di “muoversi”, cessano di essere movimenti; o si cristallizzano in qualcosa – e cioè assumono una forma duratura nel tempo – o rifluiscono. Per altri la soluzione sta nelle nuove tecnologie, e via con gli elogi della “democrazia elettronica”: ma qui è meglio lasciar perdere. Che altro s’è proposto? Mugugni individuali, qualunquismo venato di anarchismo e viceversa, rimembranze dei tempi passati…

Alcuni tentativi di risposta

Il movimento operaio, nelle sue varie componenti, come ha reagito alla conclamata fine del “secolo breve”, del Novecento, e al ritorno al passato, all’Ottocento, in campo sociale (riforme del diritto del lavoro, smantellamento del Welfare) e politico (crisi della democrazia rappresentativa, rafforzamento degli esecutivi)? Adattandosi, chiudendosi in riserve indiane o organizzando la resistenza.

L’adattamento è venuto da parte della socialdemocrazia. La Terza Via di Blair, poi adottata da quasi tutti i principali partiti socialisti europei, non è che un adattamento al nuovo scenario, mediante la trasformazione dei partiti socialdemocratici in partiti social-liberali, che è come dire in partiti liberali tout court, data la pratica scomparsa dall’orizzonte politico di quest’ultimi, trasformatisi a loro volta in partiti conservatori. Ricordate Zapatero e gli entusiasmi da lui suscitati? Gli entusiasmi erano dovuti alle sue misure a favore dei diritti civili (tipiche di una politica liberal), che però hanno mascherato lo smantellamento di una buona parte dei diritti dei lavoratori. Ma Zapatero non è stato un’eccezione: in tutti o quasi i Paesi europei il lavoro sporco in materia è stato svolto proprio dai partiti socialdemocratici, che hanno così disfatto quel che avevano contribuito a costruire nel corso di oltre un secolo. Sarà brutale dirlo, ma è in questo modo che la socialdemocrazia ha ritrovato una sua funzione all’interno del sistema. Se ci sono dubbi, si pensi a Renzi in Italia, a Sánchez in Spagna, a Hollande in Francia. C’è, certo, qualche eccezione, come per esempio Corbyn in Gran Bretagna, da seguire con interesse. Ma le eccezioni sono poche, il quadro è pressoché uniforme. la regola confermata.

Il movimento comunista europeo ha reagito in ordine sparso. Nei Paesi dell’ex blocco sovietico l’evoluzione dei partiti è consistita in una frettolosa conversione a forme di socialdemocrazia molto spostate a destra (si pensi allo slovacco Fico), con l’unico scopo di preservare i privilegi della casta burocratica. Vi sono state poche eccezioni, e queste ultime si sono limitate quasi sempre a riproporre, in formato ridotto, i vecchi partiti comunisti, con il seguito popolare che si può immaginare. Eccezione nell’eccezione, il PC della Germania dell’Est, diventato la Linke dopo la fusione con un piccolo ma prestigioso movimento staccatosi dalla socialdemocrazia. La Linke ha però, senza entrare troppo nel merito, un grosso limite: è rimasta un partito regionale, con una base di massa nell’Est, ma scarsissimamente presente all’Ovest. Nel breve-medio termine non si vede come possa superare questo handicap.

Quanto ai partiti comunisti dell’Europa occidentale, le soluzioni sono state ancora più varie. C’è chi si è chiuso in riserve indiane per preservare l’ortodossia da possibili contaminazioni (PC portoghese e greco) e chi l’ortodossia l’ha preservata nella sostanza con qualche modesta concessione ai nuovi tempi (PC francese e spagnolo). In questi anni hanno conseguito qualche vittoria elettorale e collezionato diverse sconfitte, senza mai riuscire ad allargare significativamente il perimetro della loro influenza. In sostanza, si limitano a resistere: il che non è poco, ma non è certo sufficiente. Il PC italiano è un caso a parte. Ha collezionato una serie di trasformazioni, una peggiore dell’altra, che l’hanno fatto sfociare nel PD renziano. Ma questa è storia nota. Resta da dire di Rifondazione. Nata dal rifiuto della estinzione del PCI, Rifondazione per un certo periodo ha rappresentato effettivamente una possibilità concreta di costruzione di un partito anticapitalista all’altezza dei tempi. Cosa non ha funzionato? La storia, anche in questo caso, è nota. Mi limiterò a constatare che il tentativo di sottoporre a trasfusione con sangue nuovo il corpo invecchiato di un partito contraddistinto da una vita di sezione che si animava solo in occasione delle elezioni, della diffusione della stampa e di qualche riffa, è sostanzialmente fallito. Chi ha vissuto anche solo per pochi anni questa esperienza (è il mio caso) e ha visto con quanta facilità i giovani si iscrivessero al partito e come con altrettanta facilità se ne allontanassero, potrà forse capirmi. Fatto sta, che Rifondazione, pur avendo anticipato nel tempo altre diverse forme di ricomposizione delle forze in altri Paesi europei, come ha notato giustamente Giachetti, si distingue dagli altri casi proprio in questo: è stato un tentativo di rianimazione e di parziale trasformazione di un partito già provato e logorato, non la costruzione di qualcosa di nuovo.

Gli altri tentativi

Gli altri tentativi di risposta alla nuova situazione hanno coinvolto soprattutto forze residue della cosiddetta “sinistra extraparlamentare”, anche se a volte con il concorso di spezzoni provenienti dal movimento comunista o da quello socialista. Ve ne sono stati tanti, ma pochi hanno avuto un qualche significativo successo. E i tentativi sono stati fatti in due direzioni diverse: creare dei cartelli elettorali; dare il via a un processo graduale di fusione.

I cartelli elettorali possono essere utili e necessari, ma rappresentano soluzioni contingenti, se non si iscrivono in un progetto più ampio e non sono accuratamente preparati. Il fallimento (elettorale) può avere effetti deprimenti sul lungo periodo: com’è avvenuto appunto in Italia con la Sinistra-Arcobaleno. Più interessante è il caso di Syriza, che nasce come coalizione stabile elettorale, coinvolgendo un numero incredibile di partiti, partitini e movimenti, che si trasforma in partito unificato solo strumentalmente (per poter beneficiare del premio in seggi previsto dalla versione greca dell’Italicum, che però è anteriore alla nostra). La situazione di profonda crisi economica sociale e politica in cui era precipitata la Grecia ha spinto Syriza al potere, cui è seguito lo scontro con l’Europa e la successiva capitolazione. Quest’ultima non si può spiegare con un’unica causa, e non è certo questo il luogo per approfondire l’argomento. Quel che preme è sottolineare il fatto che, fra le varie cause, si può considerare anche questa: Syriza è arrivata al potere quando era sostanzialmente ancora una coalizione di diversi partiti, con un programma comune non troppo articolato, ma senza una concezione unitaria sufficientemente consolidata.

Un progresso rispetto ai cartelli elettorali è rappresentato, tra le altre, dalle esperienze danese e portoghese. Entrambe si sono basate sul tentativo di far confluire in un’unica struttura politica tradizioni ed esperienze diverse, con l’obiettivo di portare a compimento il “meticciato” e di dar vita a un nuovo soggetto politico unitario. L’esperienza danese della Lista unica (Enhedslisten) o Alleanza rosso-verde è la più antica, ma anche la meno nota in Italia, nonostante i significativi successi ottenuti anche in termini elettorali (8% e 14 parlamentari). Risale al 1989, quando il partito comunista danese, il partito della sinistra socialista (VS) e il Partito socialista dei lavoratori (SAP, della IV Internazionale) decidono di creare una alleanza elettorale stabile, aperta anche a indipendenti che aderivano direttamente alla struttura comune. Un passo sostanziale in più ha fatto il Bloco de Esquerda portoghese, costituito nel 1998 dall’Unione democratica popolare, un’organizzazione con un passato maoista prima e filoalbanese poi, il Partito socialista rivoluzionario (della IV Internazionale), Politica XXI, cioè la maggioranza dello storico Movimento democratico popolare, già fiancheggiatore del PC portoghese e una serie di indipendenti. Qui si è partiti dapprima con il “congelamento” dei partiti fondatori, che continuavano a sussistere in quanto tali, ma che non agivano più all’esterno se non attraverso il Bloco. Poi si è arrivati allo scioglimento degli stessi (con l’eccezione dell’UDP, mantenutasi come associazione per la diffusione del marxismo). Contrariamente a quello che si poteva temere, le componenti originali si sono, in larga misura, scomposte e riorganizzate in tendenze interne al Bloco, con una normale “dialettica democratica”. Vi sono state crisi, certo, ma sono state, almeno per ora, superate, e il Bloco è arrivato a oltrepassare elettoralmente il PC e a garantire, assieme a quest’ultimo, l’appoggio esterno al governo di minoranza del Partito socialista portoghese. Un caso unico, e controcorrente, in Europa.

Per non apparire trionfalista e troppo filo-quartinternazionalista (lo sono, ma con juicio) accennerò anche a un’esperienza fallimentare, almeno sino al momento: quella del Nouveau parti anticapitaliste in Francia. Alla sua origine sta la decisione della Ligue communiste révolutionnaire (IV Internazionale, appunto) di sciogliersi e di dar vita assieme ad altre varie componenti a un nuovo partito, unitario e indipendente. Dopo un inizio promettente, l’esperienza si è avvitata su se stessa: la sintesi fra le varie componenti (forse troppe e troppo diverse) non si è avuta, la babele delle lingue non è stata superata.

E Podemos?

Ho lasciato per ultimo Podemos proprio perché rappresenta un’esperienza diversa dalle precedenti. Queste nascono tutte, come si è visto, come risposte a momenti di difficoltà di organizzazioni preesistenti, in situazioni in genere di smobilitazione sociale. Sono state, almeno in parte, riflessi di difesa, che hanno poi innescato un ciclo, non lineare ma continuato nel tempo, di crescita e sviluppo. Podemos è invece in gran parte il prodotto, non immediato ma chiaramente derivato, della mobilitazione degli Indignados: è l’unico caso significativo, almeno per ora, di filiazione diretta movimento-partito. E non a caso si definisce movimento-partito.

Non vi è stato nulla di spontaneo però nella sua formazione. Il movimento era si rifluito, ma cristallizzandosi in vari movimenti monotematici (contro gli sfratti, per esempio), e quel che occorreva era solo qualcosa che servisse da coagulante. Questo coagulante lo si è trovato in Pablo Iglesias e nel suo gruppo informale, con un sostegno non trascurabile, anche se spesso misconosciuto, da parte dell’unica organizzazione strutturata che ha partecipato alla fondazione di Podemos, Izquierda Anticapitalista (IV Internazionale, sono recidivo), piccola nelle dimensioni ma con “quadri“ ben sperimentati. Il successo di Podemos non ha bisogno di essere sottolineato. Ma è bene non farsi eccessive illusioni. Nei giorni in cui scrivo queste righe il partito-movimento è bersaglio di una vergognosa campagna mediatica condotta da «El País». Mandato a quel paese «El País», è però vero che Podemos sta attraversando un momento difficile, che si può spiegare. Enormemente cresciuto in termini elettorali (si è parlato, senza esagerare troppo, di «macchina elettorale»), trovatosi ad affrontare problemi di tattica politica pressanti, Podemos paga ora il prezzo di alcuni errori: non aver messo a punto un buon regime interno di dibattito democratico, con una tendenza eccessiva alle soluzioni giacobine; non aver elaborato una chiara politica unitaria nei confronti delle altre componenti della sinistra, cadendo a volte nell’arroganza; e soprattutto non aver iniziato per tempo un serio tentativo di arrivare a sintesi accettabili (“meticciato”) delle varie componenti che ne costituiscono il corpo. Può essere che alcuni di questi errori fossero inevitabili, dati i ritmi molto serrati della politica spagnola negli ultimi due anni, che imponevano una continua proiezione verso l’esterno. Ma se non verranno corretti in tempi rapidi, il rischio è grosso.

A mo’ di (provvisoria) conclusione

Detto questo, resta la domanda cruciale, al centro del dibattito. Che fare, in Italia? Mi sembra evidente che nulla c’è da aspettarsi da parte del Partito democratico: la sua mutazione genetica è ormai andata troppo avanti perché sia possibile pensare a una qualche sua riconversione. Questo epitaffio vale soprattutto, ma non solo, per il gruppo dirigente dei renziani e dintorni. Quanto all’opposizione interna, le tattiche cui ricorre (a prescindere dalla loro più che dubbia efficacia) la confinano all’interno del recinto parlamentare, senza che le sue epiche “battaglie” abbiano il men che minimo riflesso nella società. E ciò è forse la prova del fatto che il PD non esiste più in quanto partito fatto di militanti organizzati in sezioni, ma si riduce ormai a un conglomerato di oligarchi locali, veri e propri comitati elettorali, che cercano la propria legittimazione in rituali made in Usa come le “primarie”, la cui cristallina purezza e trasparenza è ormai sotto gli occhi di tutti. Che alla base del PD sussistano ancora qua e là pezzi recuperabili in futuro a un discorso di sinistra è possibile, anzi auspicabile. Ma non ci si può basare solo sugli auspici. Il PD è un partito che va combattuto, è un ostacolo, e per giunta pericoloso non solo per quel che resta della sinistra, ma per la stessa democrazia borghese così come l’abbiamo conosciuta in Italia dal dopoguerra in poi. Non si commetta l’errore di sottovalutare l’Italicum: non è una qualsiasi riforma elettorale, ma un vero e proprio colpo di mano per rendere pressoché perenne la permanenza al potere di questo gruppo di spericolati avventurieri.

E al di fuori del PD? C’è per ora molto fermento, in attesa del parto di una nuova formazione “unitaria”, che però pare nascere non da una spinta dal basso, ma da un’ammucchiata di vertice il cui obiettivo sembra essere la riesumazione di formule ormai logore come l’ulivismo o il centrosinistra. Non mi dilungo sull’illusorietà di queste soluzioni. Ha fatto fallimento, a suo tempo, un robusto e sincero riformista come Nenni, che una volta ammesso nella famosa “stanza dei bottoni” ha cercato invano qualcosa su cui appoggiare l’indice. Oggi, a mezzo secolo di distanza, sappiamo che qualche piccolo bottone si trova a Bruxelles, ma quelli decisivi sono altrove, nelle stanze blindate delle multinazionali che stanno progressivamente assumendo il controllo del pianeta: il partito del famigerato 1 %.

In questo paesaggio di rovine non c’è la possibilità di alcun percorso lineare. All’orizzonte non si scorge alcun segnale che ci faccia sperare che a breve termine un segmento della società esca dal torpore e dall’apatia e dia vita a un qualche movimento sociale che sparigli le carte, metta in discussione gli equilibri politici, riduca nell’angolo questa classe politica che rappresenta o solo se stessa o interessi innominabili. E senza una spinta dal basso è difficile che qualcosa di serio prenda vita in termini di organizzazione, di partito. D’altro canto, nemmeno i movimenti (se non nella fantasia degli ultimi spontaneisti) nascono da sé, ma hanno avuto sempre e sempre avranno alla loro base azioni, iniziative, stimoli da parte di piccoli gruppi più o meno organizzati: movimenti molecolari che col tempo e in determinate condizioni favorevoli “fanno massa”, contagiano, si accumulano e si trasformano in movimenti di massa. Ne abbiamo avuti diversi esempi in Europa, anche negli ultimi anni; qualcosa del genere si sta forse manifestando in Francia in questi giorni contro il Job Act in salsa francese.

Qui comunque sta la contraddizione. Senza azione organizzata dal basso non ci sono movimenti, e senza movimenti non possono esservi partiti vitali, che non si limitino al tran tran elettorale. Da dove cominciare? Dall’uovo o dalla gallina? La risposta (la mia, ovviamente) è sfacciata: si comincia contemporaneamente. Si deve agire sui due piani. Facile a dirsi, un po’ più difficile a farsi. Ma non impossibile, come alcuni degli esempi sopra sommariamente riportati possono dimostrare.

Forze impegnate nei più diversi settori sociali ve ne sono in abbondanza in Italia, anche se non coordinate fra loro. Non è qui, dunque, che sta la carenza. La carenza sta nell’ossificazione di quel poco che resta della sinistra organizzata, nella sua difesa a oltranza di forme identitarie ormai logorate dal tempo, nell’arroccamento di non pochi gruppi dirigenti (che peraltro ormai dirigono ben poco) timorosi forse di perdere il proprio status. Certo, non è facile ammainare alcune bandiere e bandierine che, in un tempo ormai lontano, hanno comunque simboleggiato qualcosa di positivo. Ma è necessario. La via non lineare verso un nuovo partito della sinistra (e aggiungo, a scanso di equivoci: anticapitalista) passa necessariamente attraverso una serie di rinunce a pezzi della propria identità in favore di una formazione “meticcia”, che incrocia e rimescola le tradizionali culture che hanno caratterizzato il movimento operaio italiano, sia nelle sue espressioni maggioritarie che in quelle minoritarie. Nessuna di queste culture è oggi attuale, nel senso di utile, nel suo complesso. Ma in ognuna di esse si possono trovare parti ancora utilizzabili. Non per arrivare a un’arlecchinesca giustapposizione, ma per avviare una fusione. Sto parlando di un possibile partito-fucina, provvisorio, transitorio, che prepari il proprio suicidio a tempo debito, quando e se l’amalgama sarà a buon punto. Nella migliore delle ipotesi penso a qualcosa come il Bloco de Esquerda portoghese; nella peggiore mi accontenerei anche di una riedizione, migliorata e corretta, non di quello che fu il PSIUP nella realtà, ma del PSIUP che molti di noi (Fabrizio, Mirella, il sottoscritto e penso molti altri) avevano immaginato durante i loro verdi anni. Non sarebbe la soluzione, certo, ma forse un passo nella giusta direzione sì.

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