Facce da ’68 di Adriano Sofri

 

Niente commemorazioni. Ma in qualche libro riscopro o scopro fatti e persone. Alcune non ci sono più.

Essendo di quelli che si asterranno dalle celebrazioni-commemorazioni del ’68, di cui fui peraltro attore secondario e ansioso di arrivare presto al ’69, seguo con affettuosa ammirazione i miei compagni e amici che si impegnano invece a raccontarlo di nuovo, l’anno travolgente. Per esempio Paolo Brogi, che dice di aver scritto il suo “68. Ce n’est qu’un début… Storie di un mondo in rivolta” (ed. Imprimatur) “per legittima difesa”. Ero altrove quando il libro uscì e guardavo una breve intervista per Teledurruti compiacendomi della bella faccia di Paolo, quando Fulvio Abbate gli ha chiesto delle facce della gente nel ’68. Brogi ha cominciato da quelle degli operai licenziati dalla Henraux di Querceta, quelli dai quali veniva il marmo di Henry Moore, così mi sono ricordato della faccia di Brogi cinquant’anni fa, seduto su una spalletta dell’Arno e un po’ scettico per la nostra dedizione militante, reduce fresco e scanzonato da qualche traversata provo. Al libro sul ’68 Brogi si è preparato, per così dire, raccontando la storia, le storie, de “La lunga notte dei Mille” (Feltrinelli 2011), che “fecero l’Italia e poi morirono presto o continuarono a combinarne di tutti i colori”. Destini incrociabili. Viene da dire che dopo cinquant’anni ciascuno ha la faccia che si merita ma no, non ce le meritavamo certe facce di oggi.

Ora esce il libro di Marco Boato, “Il lungo ’68 in Italia e nel mondo. Cosa è stato, cosa resta” (ed. La Scuola). Boato è da sempre un leggendario archivista del movimento nato alla vigilia del ’68 e, a differenza dei più, non ha smesso mai di esserne anche un attore impegnato nelle istituzioni e nella società. Il suo libro è un regesto meditato delle premesse e poi dell’attuazione internazionale dell’anno in cui le strutture dell’educazione autoritaria ed egoistica vennero scosse dalle radici, seguito da due ricche appendici di “protagonisti e domande” e “materiali”. Leggendo, ho trovato molte cose che non ricordavo e più cose che in realtà non avevo mai saputo: si andava avanti piuttosto sbrigativamente e i libri ben fatti raccontano agli stessi attori una storia diversa da quella che hanno vissuto, esperienza cui contribuisce la imprevista longevità contemporanea. Molti morirono prima del tempo, del resto, e si guadagnarono un affetto più illeso: per Boato specialmente Checco Zotti, Alexander Langer, Mauro Rostagno. C’è un brano in cui si racconta di altri due che non ci sono più, e del loro incontro alla vigilia del ’68: Silvano Bassetti, allora leader degli studenti cattolici a Milano, e Aldo Moro, allora presidente del Consiglio. Bassetti: “Ho un ricordo angoscioso di quell’incontro. C’era grandissima tensione dopo Valle Giulia. Moro mi disse di essere molto preoccupato… Mi lasciò parlare per oltre mezz’ora. Poi mi disse: ‘Se fosse in me, che cosa farebbe adesso a Roma?’. Risposi che avrei ritirato immediatamente la polizia e fatto riaprire le università. Lui tacque e mi congedò. Ho avuto un’impressione strana, quando il giorno dopo potei constatare che i presidi di polizia erano scomparsi… Aveva mostrato un’angoscia quasi fisica, quando mi chiese se non fosse in atto un processo incontrollato e incontrollabile”.

Il libro ripubblica anche per intero la famosa (“brutta”, secondo l’autore) e lunga poesia su Valle Giulia e i poliziotti figli del popolo: forse, finalmente, la si leggerà per intero, con gran sorpresa. Boato mi fa l’onore di mettere un paio di mie vecchie righe in testa al suo bel libro: “C’è solo una cosa peggiore delle celebrazioni del Sessantotto, che detesto da tempo, ed è la denigrazione di quel periodo”. Legittima difesa, diciamo. C’è un dettaglio sul quale si potrebbe discutere accanitamente, come sul “secolo breve” di Hobsbawm: se il ’68 sia stato lungo o breve. Troppo lungo, o troppo breve.

(apparso su: Il Foglio, 13 Febbraio 2018)

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