Il comizio di Salvini a Pisa di Chiara Portesine e Alessandro Brizzi

 

Chiara Portesine

Ieri sono stata al comizio di Salvini; per curiosità, soprattutto, e per capire.

Per uscire dal circuito autoreferenziale e sostanzialmente confermativo delle mie relazioni personali, su cui quotidianamente misuro il mio dissenso, e perché gli unici ‘comizi’ a cui fossi stata, dal vivo, erano quelli organizzati dalle feste dell’unità a Genova, prima della fase Renzi; un discorso di piazza del tutto inattuale se non nostalgicamente vintage.

Per elaborare un’analisi, soprattutto, e per misurare la mia responsabilità.

‘Il capitano’ arriva all’improvviso dalle retrovie, gli smartphone si sollevano come nuovi accendini che salutano l’ingresso di una rockstar. Da politico scaltrito, si presenta al pubblico raccontando di aver appena ricevuto una telefonata (in realtà, aveva già discusso della notizia, poche ore prima, a Siena) che lo informava di una nuova nave con a bordo 239 migranti; la folla grida “no”, Salvini risponde che se ne sta già interessando, e il dissenso si trasforma in sollievo. Tutti si sentono, per un attimo, protagonisti in presa diretta della storia, stanno vivendo l’evento insieme ai potenti, vengono per la prima volta messi a parte (artificialmente) di un evento politico prima e in alternativa alle istituzioni. Al pubblico senese e a quello pisano viene data la stessa illusoria speranza di sorprendere la politica nel suo farsi, di poterla, attraverso il megafono-Salvini, orientare e telecomandare come una macchinina semplice, che gli intellettualoidi della ‘vecchia politica’ (le presunte “cooperative rosse”) volevano dipingere come un dispositivo complesso soltanto per truffare la gente perbene. Salvini, invece, sembra vero, in tempo reale, senza che alle sue spalle esista un palazzo, nella sua infallibile retorica è tutto e sempre decidibile nella scenografia della piazza.

Qualcuno si sta occupando di tutti loro, i telefoni certificano la presenza concreta di un volto che qui ed ora si sta impegnando personalmente per rispondere ai fantasmi lasciati per troppo tempo latenti negli sgabuzzini della coscienza. Lui è arrivato a esibirli in piazza, ad assegnare loro la dignità di discorso, promette come individuo di sostenere sulle proprie spalle larghe il peso di un disagio sociale che si trova finalmente legittimato a esistere come posizione politica, senza alcuno strascico di sensi di colpa (saranno i buonisti di sinistra, al massimo, a piagnucolare e a invocare vecchi illuminismi umanitari per élite).

L’ironia di Salvini mi spaventa. Riconosco il tono canzonatorio del bullo che al liceo sfoderava un repertorio di battute pronte (“signora, non mi parli di pensioni; prima sognavo l’uomo nero, oggi sogno la Fornero”), che non dialoga con l’antagonista politico ma lo squalifica a priori (“tu sei l’unico con la maglietta rossa in tutta la piazza”). L’unico fondamento logico del suo sarcasmo è, in fondo, la diversità, è un’ironia separativa, che per confermare la maggioranza ha bisogno di capri espiatori ben visibili, di cui si ammette l’esistenza solo per beffa, senza cercare mai un reale confronto argomentativo. All’avversario Salvini spesso non imputa colpe precise, ma la persona stessa del nemico giustifica l’irrisione (“ormai se passa un giorno senza che la Boldrini mi contesti, allora significa che quel giorno ho sbagliato qualcosa”); Balotelli, Saviano, Gad Lerner vengono citati come puri nomi che in sé fanno ridere il pubblico, non importa il discorso specifico di cui si siano fatti, di volta in volta, portatori.

Salvini raramente commette gaffe, non ha il talento dell’ultimo Berlusconi di risultare inopportuno e maldestramente inattendibile; non presenta dati smaccatamente ‘sbagliati’, ma semplici illazioni, slogan inverificabili, porta alla ribalta frasi di senso comune che assistono alla propria legittimazione pubblica per un semplice effetto ottico di prospettiva e di tranfert. Sopra la tribuna, in giacca e cravatta, un politico può diventare il megafono per la pancia della gente, può permettersi di ripetere esattamente quei discorsi da bar della stazione che prima ciascuno si sarebbe vergognato di sostenere nel passaggio alla dimensione pubblica del discorso sociale.

Salvini è un maestro nello scendere in picchiata da un livello general-nazionale alla cronaca aneddotica locale (il noir un po’ morboso che tradizionalmente appassiona), e cita un episodio del giorno precedente – l’arresto di un trentenne tunisino che, durante una rissa, ha ferito il proprietario di un celebre locale-discoteca pisano. L’espatrio non è stato possibile perché il colpevole è sposato con una donna italiana incinta. Silenzio volontario, aspetta e ottiene la risata del pubblico; la notizia in sé viene letta come se fosse una barzelletta. Salvini sorride, commenta con l’eloquenza dei gesti, sottolinea maliziosamente di non voler entrare nella camera da letto degli italiani ma consiglia alle donne di scegliersi un marito italiano (ancora meglio, pisano). Non importa se alla notizia della donna ‘ingravidata’ dal migrante qualcuno dal pubblico abbia urlato “abbattiamola”, e che la risposta, attorno, sia stata un riso di consenso, al massimo uno sguardo bonariamente torvo di chi pensa ‘è una bravata, ma in fondo ha ragione”.

È troppo facile e semplicemente controproducente etichettare Salvini attraverso le definizioni di razzista, fascista o populista; è semplice e inutile sentirsi ‘dalla parte giusta’ sfoderando i temi, gli slogan e la contestazione dell’antifascismo storico, in cui la coscienza dell’uomo di centrosinistra può sentirsi pacificata e legittimata nel rifiuto di ascoltare o dialogare con questa fetta consistente dell’elettorato italiano.

La retorica di Salvini procede per auto-legittimazioni causali: io sono una persona perbene, do per scontato che il mio elettorato sia composto da persone per bene (frase che Salvini ha adoperato quando un giornalista, poche ore prima a Siena, gli aveva domandato se sapesse che, in prima fila al suo comizio a Rosarno, si trovassero persone affiliate alle cosche mafiose), quindi tutto quello che dirò sarà l’espressione del buonsenso ‘giusto’ della brava gente. I commercianti, la brava gente che si sente orgogliosa e compiaciuta di essere inclusa in questo paradigma morale, viene ulteriormente rassicurata dall’insistenza percussiva di clausole come “a Dio piacendo” o “nel giorno del Signore”. Quando Salvini si propone come padre di famiglia e uomo di Chiesa, sembra del tutto naturale accompagnare con un boato di cieca violenza e rifiuto la proposta di edificare una moschea, perché la moschea diventa, in questo regime di discorso, il nemico delle persone oneste. Se una piazza gremita può accettare e applaudire il passaggio logico secondo cui la sinistra risolve il problema della bassa natalità regalando alle giovani coppie senza figli i migranti ventenni già cresciuti (“senza che ci sia bisogno di portarli all’asilo o di curarli”), allora significa che con la auto-giustificazione di essere ‘brava gente’ si può accettare ogni argomentazione, è una sorta di passepartout ideologico che legittima e manleva dalle conseguenze di qualsiasi spregiudicatezza retorica. Io sono perbene, dunque tutto quello che dirò sarà legittimato e accettabile senza necessità di verifica.

Se questi comizi oggi sono possibili è perché non si è formato un contro discorso, una prospettiva politica alternativa che spieghi che le migrazioni internazionali non sono né il problema né la soluzione. Se Salvini aizza le folle spiegando che i rom non pagano le tasse, bisognerebbe chiedere a quegli stessi pisani stipati in Piazza Carrara (i commercianti, la brava gente) se loro stessi paghino diligentemente le tasse, producano fatture e scontrini fiscali, nel loro quotidiano fieramente italico e pisanissimo. Nella mia esperienza di studentessa e ‘cittadina pisana’ da cinque anni, che abita nel centro della città e che prende spesso il treno in quella stazione paragonata ieri a Nairobi, posso dire che i problemi non sono quelli posti sotto i riflettori da Salvini, e vorrei una politica che spiegasse che un altro discorso è possibile.

Se, tuttavia, è possibile assistere a un comizio che si appoggia soltanto su premesse indimostrabili e facili giochi di amplificazione, forse è anche colpa nostra, di quelli che Salvini apostrofa come “sfigati”, gli intellettuali che “vivono chiusi nelle biblioteche”. Rivendico orgogliosamente il fatto di studiare e lavorare per acquisire conoscenza e per comprendere il mondo, Salvini non potrà fare in modo che io viva la mia istruzione come una colpa e una sottrazione rispetto a un presunto ‘fare quello che vuole la gente con il linguaggio che vuole sentire la gente’ ; eppure, quando la musica epica accompagna la fine del comizio, sento che qualcosa, nel mio ruolo di intellettuale, è storicamente fallito.

È fallito perché sembra troppo facile mostrare le contraddizioni logiche del discorso di Salvini e dei presentatori leghisti che l’hanno preceduto (“il candidato di sinistra ha partecipato per anni alle sedute in Consiglio e non è stato capace di fare nulla” – stacco di dieci minuti “il candidato di destra ha l’esperienza politica di essere stato in Consiglio per anni, non è ignorante come lo dipingono i giornali rossi”). Il tradizionalista tecnobofo che non vuole far crescere i figli di fronte al Grande Fratello e agli schermi televisivi, conclude il comizio invitando gli elettori ad avvicinarsi al palco per ricevere la loro dose di selfie quotidiana, ma l’ossimoro logico non viene percepito come tale, tutto fa brodo. Sembra così facile da decostruire, sembra non valerne la pena.

È fallito perché se l’unico discorso da opporre alla propaganda salviniana è quello che si limita aristocraticamente a considerare sbagliate e razziste le posizioni di Salvini, la sinistra ha perso la capacità di orientare e costruire una posizione politica autonoma che prescinda dall’ormai fantomatico ‘buonismo alla Fabio Fazio’.

È fallito, in fondo, perché il modo classico di contestare un linguaggio che giudico inaccettabile non è più possibile, perché l’atto stesso della contestazione contribuisce soltanto ad alimentare il circolo vizioso del ‘solito centro sociale’ (i figli di papà annoiati – stereotipo che reintroduce anche, in forme paradossali, una sorta di ‘lotta di classe’) che minaccia la libertà d’espressione di un onesto cittadino virtuoso. Perché non si riesce a spostare il discorso pubblico su altri temi, riempire i non detti di Salvini con interpretazioni che non suonino come sterili antagonismi che si limitano a misurarsi (da perdenti) sullo stesso terreno discorsivo? Salvini ha criticato i contestatori che non sanno godere della bellezza di una cena su un Ponte di Mezzo barricato, ma quanti tra i presenti al comizio hanno davvero potuto usufruire di quella sofisticata opportunità gastronomica, e non hanno, invece, visto sottrarsi la possibilità di spostarsi in uno spazio pubblico che appartiene alla cittadinanza? Quante persone hanno applaudito al presentatore leghista quando ha accusato i rom che rubano i portafogli di disincentivare il turismo e impedire a Pisa di diventare una delle città più ricche d’Italia, quando il problema per i turisti è perlopiù costituito dai pisani stessi e dalle strutture/modalità per l’accoglienza dei turisti presenti sul territorio italiano? Forse quegli stessi commercianti, supportati da una medesima e contraria operazione di propaganda, si scaglierebbero contro i turisti che ‘sporcano’ la città e diminuiscono il tasso di una presunta pisanità, se Pisa diventasse realmente una città-vetrina assediata dalle migrazioni ricche del turismo globale.

Credo che ci sia bisogno di costruire un discorso, senza partire dallo stesso meccanismo perverso di degradazione retorica e snobistica dell’avversario e dell’opinione altrui, e senza appellarsi a un astratto quanto pericoloso buon senso. C’è bisogno, in fondo, di un pensiero dialettico.

 

Alessandro Brizzi

Chiara Portesine fa un ottimo resoconto del comizio di Salvini a Pisa, a cui aggiungo alcuni elementi:

– La composizione anagrafica e sociale della piazza. L’età media era di circa 50-60 anni: pochi i giovani, molti i baby-boomers. Non a caso, il riferimento costante (del candidato Conti, ma anche di Salvini) erano gli anni ’80, descritti come un’età di spensieratezza e tranquillità. Dal punto di vista sociale, mi è parso che prevalessero di gran lunga i pensionati e quelli che – in assenza di una definizione migliore – chiameremmo piccolo-borghesi, soprattutto per marcare la differenza rispetto alla cena tenuta poco prima dalla Confcommercio. Rimane sempre il rischio di usare vecchie categorie, connotate in senso spregiativo, e di farsi sfuggire il rapporto che intercorre tra la composizione sociale della piazza e quella della città, che sembra caratterizzata dalla prevalenza dal commercio al dettaglio, della produzione artigianale, del lavoro impiegatizio o nei servizi. Se non si conosce Pisa e la sua evoluzione storica, economica e sociale (e qui ammetto la mia ignoranza), è difficile parlare di un comizio per le elezioni comunali pisane.

– Tra i pochi giovani presenti, c’era un divario piuttosto netto (ma per nulla sorprendente) tra i pisani e gli universitari fuori sede, a cui si aggiungevano alcuni studenti medi dei giri militanti. Girando per la piazza, cercavo di distinguere i curiosi dai sostenitori, intercettando molte occhiate, bisbiglii e segnali di ostentato straniamento. Qualche volta ho sorpreso amici e conoscenti, imbarazzati quanto me per essere sgattaiolati oltre i cordoni e le transenne “per vedere di nascosto l’effetto che fa”. Credo che molti condividessero un senso di impotenza e frustrazione, reso ancora più palese alla fine del comizio, quando Salvini si è prestato alla cerimonia dei selfie. Lì sarebbe stato semplice contestarlo, complice lo sbandamento di una piazza di anziani, poco adatti alla fusione mistica nella folla per più di due ore. Eppure, come ci ha rimproverato uno studente Erasmus, non si è fatto niente. Vero, ma forse in molti abbiamo condiviso la percezione che il problema più pressante – l’incontro tra una cultura politica reazionaria e gli strumenti del potere normativo e repressivo – non si risolvesse nel carisma di cui la piazza investiva Salvini, ma che andasse oltre. Non è una valutazione secondaria, soprattutto se ci aiuta a ridimensionare – in parte – l’ansia che ci deriva dai confronti sommari con gli anni ’20 e ’30. Dove sono le folle di studenti universitari, nerbo dei movimenti nazionalisti e fascisti? In maniera più provocatoria: dove sono i fascisti?

– I temi. Dovrebbe essere la parte più importante, nel resoconto di un comizio, ma devo ammettere che non ricordo esattamente il discorso di Salvini. Nella mia vita ho visto tre grandi comizi elettorali a Torino (Veltroni 2008, Bersani 2013, Grillo 2013), e per ovvie ragioni questo della Lega si può confrontare solo con l’ultimo. Di quello di Grillo mi è rimasta soprattutto una certa insistenza sull’olio tunisino, che faceva il paio con la filippica di Salvini contro il riso cambogiano “impastato con il cemento”. Quello che stupisce è la disposizione del discorso, l’associazione dei concetti, che non fa che rafforzare strutture di senso consolidate. La questione dei rom, per esempio, è stata liquidata con del sano “buon senso”: se paghiamo le tasse per i loro campi, perché non possiamo controllarli? Al ministro dell’Interno è bastato dire questo, perché poco prima il deputato Ziello era riuscito ad associare, nel suo discorso, la presenza dei campi rom alla rovina economica di Pisa. Si è parlato di diverse cose, che andavano dalla politica nazionale a quella cittadina. Ziello ha scelto di puntare tutto sulla cristianità e sulla comunità; la sindaca Ceccardi ha parlato dell’assegnazione delle case popolari; Salvini, più degli altri, ha legato il discorso dell’identità nazionale a quello dell’accesso ai servizi sociali. Eppure, quando si parlava di scuole e ospedali, si registravano pochissimi applausi: molti di più, in ordine crescente, sui parcheggi e sulle strisce blu, su spesometro e redditometro, sul degrado della stazione, sullo spaccio, sull’immigrazione e sui barconi, sulla moschea (vero boato), fino all’uscita che ha riscosso più consenso in assoluto: quella contro quei “quattro sfigati dei centri sociali”, invitati a studiare e a farsi una vita. Di quei quattro sfigati, quei pochi presenti in piazza, che fossero studenti medi di tutte le estrazioni sociali, studenti fuori sede (in affanno o meno tra studio, affitti e lavoro) o normalisti privilegiati, si sono sentiti chiamati in causa per la prima volta. E credo che un po’ di loro si siano guardati intorno e abbiano pensato che la dicotomia classista tra “figli di papà” e “onesti produttori” non dicesse molto della differenza che correva realmente tra loro, il pensionato con la polo e la sigaretta elettronica al loro fianco, il professionista di mezza età con il toscano e la camicia bianca (che applaudiva meno degli altri e sorrideva) o i veri “figli di papà” traghettati dalla cena di Confcommercio al comizio e pronti a farsi il selfie con la fidanzata e con Salvini. Molti sinceri democratici vorrebbero che la differenza fosse tra intelligenti e analfabeti funzionali; i nazionalisti rispondono che è tra classi produttive patriottiche ed élites cosmopolite e idealiste. Conviene sfuggire a questa tenaglia.

– Sipario. Alla fine del comizio, mi avvicino alla zona selfie, in cui Salvini sta incontrando i fan. Sono a un metro e mezzo da lui e devo combattere la tentazione di dirgli, anche in maniera calma, che lo trovo spregevole. Vengo però distratto da una discussione tra due ragazze e un trentenne: capisco subito che le prime sono di sinistra, mentre l’altro è difficilmente identificabile. Loro gli dicono, con molta foga, che il nemico non è l’immigrato, ma il padrone; che il problema è il capitalismo, e che non possiamo pensare solo ai soldi, ma dobbiamo concentrarci sulle persone. Lui dice che sono tutti bei discorsi, ma bisogna partire dalle cose concrete: i cambiamenti vanno fatti passo per passo, non si può essere idealisti; per lui Salvini, su alcune cose, ha il merito di individuare dei problemi concreti. Mi intrometto, e scopro che il ragazzo è un netturbino che dovrà pulire la piazza alla fine del comizio; ha votato Movimento 5 Stelle e su alcune questioni sostiene questo governo, ma è contrario alla flat tax. Le ragazze gli chiedono di pensare a un cambiamento complessivo della società, ma lui obietta che non vede come si possa cambiare tutto così, da un giorno all’altro: chi farebbe lo spazzino, se non esistessero forme di coazione al lavoro? Allora ci mettiamo a parlare di reddito, di automazione, di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, delle difficoltà a cui andrebbe incontro un’economia nazionale isolata se si facesse carico delle questioni sociali; poi ancora di hotspot per i migranti e di canali umanitari, del sistema dell’accoglienza, dell’assenza di solidarietà europea. Sulla questione dell’immigrazione rimaniamo in disaccordo, anche perché su quelle ho potuto sentire e leggere le rivendicazioni dei migranti organizzati; sul resto, però, troviamo molti punti di contatto. In qualche modo, entrambi lasciamo la piazza più sereni.

[Una prima versione di questi interventi è apparsa su «Facebook», 25 giugno 2018 Pubblicato da Le parole e le cose]

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