Conflitto d’interessi di monsieur le Capital di Diego Giachetti

 

Il coronavirus ha messo bene in luce il conflitto d’interessi tra salvaguardare i profitti e salvare la vita biologica, similmente a quello che si evidenzia nel rapporto tra sistema produttivo ed ecosistema, tra la vita del pianeta, delle sue specie viventi (uomo-donna compresi) e le priorità dell’economia capitalistica che non accetta limiti e costrizione ecologiche e biologiche. Anche se consapevole del pericolo, il sistema capitalistico, data la sua logica di accumulazione e di riproduzione allargata, è incapace di prevenirlo, è “costretto” ad agire sulla base dei bisogni del capitale in primo luogo, e non delle popolazioni e della natura. Difatti, nel momento in cui sarebbe necessario mettere al servizio dell’uomo conoscenze e competenze insite nelle forze produttive materiali e intellettuali di cui disponiamo, per prevenire e contrastare la diffusione del virus, si assiste invece al prevalere dell’interesse economico imprenditoriale, accompagnato dalla “comprensione” di vari esponenti politici e confindustriali che difendono la libertà di produrre e commerciare, a scapito della salute stessa delle lavoratrici e dei lavoratori.

Questa epidemia rivela la fragilità del sistema capitalista, come dimostra il crollo dei mercati finanziari presi da pandemica paura, e mette in luce la sua irresponsabilità e dannosità verso le classi lavoratrici, consegnate al produttivismo accelerato che sembra non conoscere timori e riserve verso la malattia e la crisi ecologica-climatica. Il sistema economico è infartato nei diversi settori produttivi, della distribuzione e del consumo, come fosse attaccato da un grande sciopero generale mondiale. I dati in progressione riguardanti la diffusione del coronavirus nel mondo camminano paralleli con quelli dell’obbligo di abbandonare la vita pubblica e lavorativa per centinaia di milioni di persone nel tentativo di frenare il contagio. La vita quotidiana risulta improvvisamente stravolta, sospesa in un limbo indefinito e separato, i processi associativi abituali si dissociano.

 Pandemia e diseguaglianza sociale

È di questi giorni il ritornello, non nuovo, non originale, né neutro, del dire «siamo tutti sulla stessa barca», uniti a «coorte» e «pronti alla morte», secondo le indicazioni tratte dall’Inno di Mameli, cantato assieme ad Azzurro di Celentano e Volare di Modugno dalla radio di stato e da alcuni balconi, rito scaramantico di una poco sensata religiosità laica per esorcizzare la morte di migliaia di persone. Ammettiamo pure di essere tutti sulla stessa barca: alcuni l’hanno organizzata e la guidano, gli altri sono stati costretti ad imbarcarsi condividendo scelte, interessi e scopi decisi dalla minoranza che sta sul ponte di comando. E ancora, in questo momento di navigazione perigliosa in acque infettate dalla malattia, dalla crisi economica e sociale, solo pochi sono prossimi alle scialuppe di salvataggio, tanti altri no. La pandemia attecchisce in un mondo dove non tutti possono difendersi in modo eguale, è una minaccia grave per i lavoratori e per i poveri. Si diffonde in un mondo in cui vi è un’accresciuta polarizzazione sociale, dove le grandi compagnie detengono la ricchezza: 2.153 magnati possiedono più degli altri 4,6 miliardi di persone nel mondo. Il 50% più povero ha meno dell’1% della ricchezza mondiale. L’Italia è parte integrante di questa fotografia. A metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta, il successivo 20% ne controllava il 18,8%, lasciando al 60% più povero appena il 14,8% della ricchezza nazionale. La quota di ricchezza dell’1% più ricco degli italiani supera di 240 volte quella detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione. Questi dati indicano che non tutte le persone affronteranno con le stesse possibilità e modalità la pandemia, le sue conseguenze sanitarie e la vita sociale quotidiana.

A spargere sale su queste crudeli e inumane differenze, hanno contribuito le politiche di austerità, tagli della spesa pubblica (“gli sprechi”) e la privatizzazione, messe in atto da vari decenni indistintamente da governi di destra o di presunta sinistra che hanno indebolito la struttura pubblica sanitaria. L’attuale pandemia purtroppo rappresenta un test importante per le società. In Europa i sistemi sanitari rischiano il collasso perché il trattamento dei malati gravi richiede attrezzature all’avanguardia e personale medico competente e preparato. Se il sistema ospedaliero si sovraccarica, non ha più posti adeguati di ricovero, molti pazienti curabili moriranno. Se colpisse baraccopoli, favelas e campi di rifugiati in Africa, in Medio Oriente, nel subcontinente indiano e in America Latina, dove le strutture sanitarie sono poche, male organizzate o addirittura inesistenti, assisteremo a nuovi picchi di devastazione.

In Italia, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, con una popolazione inferiore a quella attuale, c’erano 10,6 posti letto ospedalieri ogni 1.000 persone – ora sono 2,6. Le stesse proporzioni si ritrovano in tutto il mondo occidentale. Ciò comporta che in una situazione di emergenza come quella attuale, gli operatori sanitari rischiano di dover decidere chi curare sulla base del limite posto dalla capacità delle strutture ospedaliere pubbliche chiamate a curare una malattia, con un decorso che in diversi casi richiede un ricovero e una cura specialistica, per cui facilmente si rischia la saturazione. Si tratta di un terribile crollo della solidarietà e del diritto universale eguale per tutti a ricevere una cura adeguata. Non è una probabilità remota, è un incubo che si sforza di scongiurare, ma a cui esplicitamente ci si prepara secondo quanto scritto in un documento redatto dalla Società Italiana di Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva: «qualora si giungesse all’impossibilità di garantire a tutti i pazienti con indicazione della rianimazione il migliore trattamento, sarà necessario applicare criteri di accesso alle cure intensive nei quali si dovrà tenere in conto della appropriata allocazione delle limitate risorse a disposizione», si legge in un passaggio del documento, ripreso nell’articolo di Alessandro Mondo, (La Stampa, 17-3-2020). E ancora: «I criteri enunciati sono di indirizzo qualora la situazione diventasse di tale eccezionalità da subordinare le scelte terapeutiche sul singolo caso alla disponibilità delle risorse, obbligando a concentrarle su quei casi nei quali è più favorevole il rapporto costi-benefici del trattamento clinico». Tra i criteri di accesso alla terapia intensiva in caso di maxi-emergenza, l’età: meno di 80 anni.

La catastrofe è imminente e come lottare contro di essa

A quanto pare la principale misura per contenere la diffusione dell’epidemia è l’isolamento sociale, mantenendo il maggior numero possibile di persone a casa. In Italia i provvedimenti governativi hanno dimesso dal lavoro una parte importante della forza lavoro, nel settore turistico, alberghiero, della ristorazione del commercio al dettaglio e, successivamente, nei settori non essenziali della produzione industriale, con possibilità però di ampie deroghe. A tutti questi lavoratori e lavoratrici, dipendenti e indipendenti, precari, alle loro famiglie, devono essere garantite le condizioni minime necessarie a una vita dignitosa. Occorre introdurre un reddito pari allo stipendio medio di un lavoratore per tutti coloro che non hanno un lavoro o non possono più lavorare, compresi i lavoratori autonomi, del commercio, dell’artigianato.

Per chi invece è “costretto” a lavorare, ospedalieri, settore della produzione e diffusione di alimentari e generi di prima necessità, autotrasportatori, addetti alla raccolta dei rifiuti, poste, uffici inerenti alle varie istituzioni burocratiche, compartimenti produttivi industriali necessari, si devono garantire standard nuovi di sicurezza sul lavoro, rivedendo e riorganizzando le modalità stesse dell’organizzazione del lavoro. Si tratta di investire risorse in questa direzione, ad esempio andrebbe subito predisposto un piano per riorganizzare il sistema sanitario nel suo insieme, mobilitando risorse umane, tecniche e produttive, requisendo i servizi privati di assistenza, di produzione di medicinali e di attrezzature, assumendo nuovi operatori sanitari, sostenendo la ricerca medica e scientifica. Occorre inoltre garantire immediatamente la sicurezza degli operatori della salute, categoria che registra un alto tasso di contagiati dal coronavirus. Si tratta di lavoratori che operano facendo di necessità virtù, non sempre forniti di dispositivi di protezione individuale adeguati a evitare il contagio, dalle mascherine alle maschere facciali, dai camici ai guanti monouso.

I costi aggiuntivi imposti dal precipitare delle misure anti-pandemia possono essere sostenuti aumentando le tasse sui profitti, sul reddito delle imprese e sulle grandi fortune, sospendendo ad esempio, il pagamento degli interessi che lo Stato italiano paga agli speculatori per far fronte al suo debito. Si tratta ogni anno di 64 miliardi, provenienti dalle tasse dirette e indirette, pagate soprattutto da lavoratrici e lavoratori dipendenti e pensionati. Poi si potrebbe introdurre una “patrimoniale antivirus straordinaria” per racimolare allo Stato e al sistema sanitario decine di miliardi. I dati ufficiali relativi ai capitali dichiarati ci dicono che l’ammontare della ricchezza delle 35 persone più “abbienti” d’Italia è pari a 142 miliardi di euro. Subito sotto questo “picco di paperoni” stanno circa 1.700 detentori di patrimoni superiori a 100 milioni di euro. Pare, inoltre, che con un miliardo di euro si possono allestire circa 10.000 posti letto di terapia intensiva» (https://anticapitalista.org/2020/03/18/contro-il-coronavirus-paghi-chi-non-ha-mai-pagato-patrimoniale-ora/). Ecco dove attingere risorse. Sarebbe un modo concreto per iniziare a combattere le diseguaglianze sociali invocato periodicamente da anni da tante anime pie.

image_pdf

Lascia un commento