L’Autonomia operaia è uno dei fenomeni più nominati e peggio trattati, la notorietà del termine è inversamente proporzionale alla sua conoscenza. Benvenuto quindi questo libro (Gli autonomi. Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio), sesto volume che prosegue la meritoria opera della casa editrice Derive Approdi per dare fiato alla storia dell’Autonomia operaia nel decennio Settanta del secolo scorso. In questo caso si tratta di una storia come autobiografia, che si fa storiografia, come scrive Mimmo Sersante nell’introduzione, nel senso che i due narratori, Giacomo e Piero Despali, sono stati protagonisti di primo piano di quelle vicende. Un intreccio fecondo tra memoria e storia che valorizza con scrupolo la fonte orale, per definizione non oggettiva, per cui gli storici di professione spesso preferiscono l’uso della documentazione scritta. Quest’ultima ha dei limiti, non è in grado di restituire al lettore l’intensità e la passione vissuta nell’esperienza. La fonte orale, legata alla forma discorsiva del racconto, invece è in grado di ridare luce a quei sentimenti che dalla sola lettura delle carte non traspaiono. Carte e documenti che non mancano nel libro nel quale sono raccolte altre testimonianze di compagne/i, utili per completare il quadro, schede di approfondimento sull’operaismo, il leninismo, il maoismo e documenti politici e organizzativi tratti dalla “memoria cartacea”.
Da Potere Operaio ai Collettivi politici
Il racconto-memoria si dipana in un lungo e intenso percorso narrativo, ricco di suggestioni, collocato nel tempo storico con precisi riferimenti all’ambito territoriale e nazionale, che inizia con l’esaurimento dell’esperienza del gruppo Potere Operaio, luogo di formazione politica e teorica di molti militanti che daranno vita all’esperienza dei collettivi veneti. Si trattava di militanti formatisi, come scrivono, tra letture di Tronti e Negri, poco dopo l’autunno caldo del 1969, nella convinzione che tra le tante letture di Marx, quella di Negri fosse la più consona a capire il momento che stavano vivendo. La crisi prolungata dell’esperienza politica di Potere Operaio e poi la sua fine, che non avvenne automaticamente al congresso di Rosolina del 1973, fu letta e vissuta come necessità di cambiare passo politico, ridefinire un progetto radicato sul territorio grazie alla possibilità di utilizzare una direzione militante che si era formata nell’ambito del laboratorio operaista. Da quel laboratorio furono prese e tradotte in strumenti d’inchiesta le analisi e le ipotesi sui processi della ristrutturazione produttiva in atto verso la metà degli anni Settanta, che definivano le categorie di «fabbrica diffusa» e «operaio sociale», i nuovi protagonisti precari e non garantiti caratterizzanti la nuova composizione della classe operaia. Individuarono la nuova tipologia di studenti che frequentavano l’università mantenendosi col lavoro nero. Non più corpo separato in quanto studenti e neppure potenziale forza lavoro in formazione in attesa di un posto fisso, ma già lavoratori, erano l’incarnazione pratica del concetto di operaio sociale.
Ridefinendo la pratica politica di radicamento territoriale si organizzarono in collettivi politici divisi per ambiti di lavoro: fabbrica, scuola, università nonché la costruzione di gruppi sociali, pensati come centri di aggregazione giovanile: cineforum, assemblee e presentazione di libri. Una struttura reticolare che coinvolse non solo le grandi città, ma i paesi della provincia, non solo la grande fabbrica ma anche quelle piccole, con pochi dipendenti e che trovava una sintesi in una commissione politica formata da sei compagni in rappresentanza dei collettivi. Nell’anno fatidico del ’77 ritennero fosse possibile lavorare per costruire un movimento dell’Autonomia organizzato a livello nazionale. Col giornale Rosso per il potere operaio, proposero a tutte le componenti dell’area un programma di lotte centrato sui temi della riduzione dell’orario di lavoro, della spesa pubblica, repressione e carcere, stato nucleare e produzione di morte. Ma la proposta di federare gli spezzoni dell’Autonomia per tante ragioni non funzionò.
Combattenti comunisti sì, clandestini no
Senza alcuna difficoltà riconoscono che la loro era un’organizzazione politico-militare, completamente diversa però dalle Brigate Rosse che criticavano soprattutto per la scelta della clandestinità, perché ritenevano che la rivoluzione sarebbe stata possibile solo lavorando alla luce del sole e l’illegalità doveva essere parte di un agire del movimento di massa e non sostituirsi ad esso. Verso la fine del ’76 e fino al ’78, in sintonia con le tematiche e le pratiche di lotta avanzate dai collettivi politici, iniziarono gli espropri spontanei nei negozi del centro per soddisfare i bisogni di proletari: cibo, abbigliamento e altro a cui si affiancarono vere e proprie azioni militari rivendicate con sigle varie: Organizzazione operaia per il comunismo, Proletari comunisti organizzati, Fronte comunista combattente. Tutte forme definite di illegalità di massa che i giornali riassunsero nella categoria di «notte dei fuochi» a indicare decine di attacchi in contemporanea in varie città della regione.
L’irruzione degli arresti del 7 aprile 1979 e gli altri avvenuti nei mesi seguenti coinvolsero i collettivi veneti con due tipi di accuse: possesso di armi da fuoco, partecipazione a banda armata, 150 furono i condannati per questo reato. Gli accusati decisero di affrontare il processo per ribadire la dignità della loro storia politica, non rifiutarono il confronto sul piano giuridico, contestarono di volta in volta con i loro avvocati i singoli fatti a loro addebitati.
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