Socialismo e rivoluzione in Rosa Luxemburg di Franco Toscani

 

Pubblichiamo questo interessante saggio di Franco Toscani su Rosa Luxemburg.

Socialismo e rivoluzione in Rosa Luxemburg   di Franco Toscani

 

  1. Il marxismo libertario di Rosa Luxemburg e il dibattito su riforme e rivoluzione

 

Nell’ambito della storia del marxismo la figura di Rosa Luxemburg (1871-1919) assume un ruolo di particolare rilievo non solo per il notevole contributo teorico dato allo sviluppo del pensiero marxista,[1] ma anche per la sua vicenda umana e per la sua personalità ricca e complessa.[2] La rivoluzionaria ebrea polacca naturalizzata tedesca fu anche grande giornalista e oratrice, instancabile attivista/educatrice politica, nel 1893 contribuì a fondare il partito socialdemocratico polacco in cui svolse la sua prima militanza, lavorò poi soprattutto come dirigente nelle fila della socialdemocrazia tedesca (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Spd) tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, fu nominata nel 1907 insegnante di economia nella scuola di partito in sostituzione di Hilferding, concludendo la sua vita con la militanza nello Spartakusbund tra la fine del 1918 e il gennaio 1919.

Nella sua cultura politica è costante il tentativo di coniugare le istanze del movimento e del partito, della spontaneità e dell’organizzazione, della democrazia e della rivoluzione. La stella polare di tutto il suo percorso fu la partecipazione popolare al potere, il potere dal basso, il movimento cosciente delle masse, la valorizzazione di tutte le forme di democrazia diretta, il protagonismo dei soggetti sociali, il rapporto di corrispondenza/omogeneità tra mezzi e fini nel processo rivoluzionario. Di qui il suo netto rifiuto – come vedremo meglio più avanti, a proposito delle sue osservazioni sull’azione dei bolscevichi e sull’esito della rivoluzione d’Ottobre – di ogni progetto politico autoritario/repressivo, di ogni modello di “rivoluzione dall’alto” e di società irreggimentata, di ogni teoria della “coscienza esterna”, di ogni forma di blanquismo, putschismo e sterile insurrezionalismo.

Il marxismo a cui si richiama Luxemburg – come leggiamo nello scritto Die Theorie und die Praxis, apparso nel 1910 su “Die Neue Zeit” – è profondamente libertario, “un grande movimento ideale, (…) una Weltanschauung che si è fatta le ossa nell’aperta e libera lotta delle idee e solo in essa può garantirsi dalla sclerosi”.[3] Libertà e lotta per la dignità umana, generosità nell’impegno politico e culturale, aperto e schietto confronto delle idee furono centrali nella sua vita. Va qui sottolineato il suo concetto di libertà radicale, mai a mero uso dei funzionari di partito o di un apparato burocratico, di un governo, di uno stato o di un partito-stato; piuttosto, una libertà intesa come libertà di tutti, di chi la pensa diversamente, libertà di pensiero e di espressione, di stampa e di associazione, richiedente  un’ampia articolazione politica, libere elezioni, pluripartitismo; senza questa pienezza di libertà, domina solo un terribile e asfittico apparato burocratico-istituzionale, di qualsiasi colore esso sia.

In Sozialreform oder Revolution? (Riforma sociale o rivoluzione?,1899, cfr. SC, 53-154) – testo che prende posizione nel cosiddetto Bernstein-Debatte e rappresenta una risposta di ampio respiro alle tesi revisionistiche espresse da Eduard Bernstein nel suo Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899) – è fondamentale la dialettica Bewegung-Endziel (movimento-meta finale), che serviva a superare le deviazioni e gli opposti scogli dell’anarchismo e dell’opportunismo, del settarismo e dell’abbandono dell’Endziel.

Due sono infatti i grandi obiettivi polemici in Sozialreform oder Revolution?: da un lato (e soprattutto) l’opportunismo/revisionismo di Bernstein e dell’orientamento maggioritario della politica socialdemocratica, dall’altro il blanquismo che, nel suo insurrezionalismo e nell’affidare tutto al colpo di stato di una “minoranza risoluta”, si rivela avventurista, attua la politica controproducente degli “spari di pistola”, ignora che la vera posta in gioco è la conquista del potere politico da parte delle grandi masse popolari coscienti e che la rivoluzione sociale esige una lotta quotidiana, lunga e ostinata, sorretta dalla maturità politica e dalla visione dell’Endziel (cfr. SC, 137-139).

Più tardi, anche la Juniusbroschüre – scritta nel 1915 e pubblicata nel 1916 a Bern col titolo Die Krise der Sozialdemokratie. Von Junius. Anhang: Leitsätze über die Aufgaben der internationalen Sozialdemokratie (cfr. Sc, 463-520) – si pronuncia in modo deciso contro ogni putschismo, contro ogni avventurismo ed estremismo minoritario e velleitario: “L’effettivo svolgimento di grandi manifestazioni popolari e azioni di massa in questa o in quella forma, è deciso da tutta una serie di fattori economici, politici e psicologici, dal livello di tensione del contrasto di classe, dal grado di educazione, dal punto di maturazione raggiunto dalla combattività delle masse, elementi tutti imponderabili e che nessun partito può artificialmente manipolare” (cfr. Juniusbroschüre, 1916, SC, 495-496).

Nell’opuscolo Massenstreik, Partei und Gewerkschaften (Sciopero di massa, partito e sindacati, 1906, cfr. SC, 245-257) si confida nel ruolo decisivo dello sciopero di massa, interpretato in un senso welthistorisch, e della prassi rivoluzionaria, capaci di esprimere la presenza dell’Endziel nella Bewegung. Molto significative sono a questo proposito le riflessioni sul rapporto tra le organizzazioni e le lotte. Nel pensiero della rivoluzionaria polacco-tedesca le organizzazioni (partiti e sindacati soprattutto) non detengono mai un primato assoluto, non trovano mai nella loro inerzia e routine burocratica il loro fondamento, ma sono da porre sempre in relazione col movimento e con le lotte, sono generate dai bisogni e dalle lotte, da ciò che ella chiama Klassenaufklärung (illuminazione di classe): “Lo stereotipato modo di vedere meccanico-burocratico non concepisce la lotta altrimenti di un prodotto dell’organizzazione a un certo livello di forza. Al contrario, il vivente processo dialettico fa sorgere l’organizzazione come un prodotto della lotta” (SC, 252). La leva decisiva è dunque quella della coscienza e della diretta azione rivoluzionaria delle masse. Non vi sono però in Rosa movimentismo e spontaneismo esasperati, anzi vi è una forte rivendicazione del ruolo di indirizzo e di direzione del partito politico, ruolo a cui la socialdemocrazia tedesca rinunciò allo scoppio della prima guerra mondiale, nel mezzo della grande crisi storica, votando i crediti di guerra il 4 agosto 1914 (cfr. Juniusbroschüre, SC, 496-497).

Nel rapporto partito-masse si sperimenta una peculiare compenetrazione di disciplina e libertà, come osserva giustamente Michele Cento: “il partito per Luxemburg non è mai semplicemente un’opzione, ma una necessità che interviene una volta che le lotte sono esplose per dirigerle verso la meta finale. Non c’è un’ingenua idealizzazione delle masse in Luxemburg, tanto più che, afferma all’indomani della rivoluzione bolscevica e guardando quindi anche al modello leninista del partito dei rivoluzionari di professione, ‘solo un partito che sappia dirigere, vale a dire spingere avanti, è in grado di procurarsi seguaci nella tempesta’. (…) La centralità dell’esperienza maturata nelle lotte è speculare al rifiuto di formule politiche predeterminate e valide in ogni tempo e in ogni luogo. L’esperienza diventa così il crocevia di un percorso di maturazione politica delle classi lavoratrici e del partito che passa tanto dalla presa di coscienza della necessità di una disciplina collettiva, quanto dalla pretesa in massa della libertà. (…) E’ in primo luogo una disciplina di sé, che i singoli individui esperiscono fianco a fianco nella lotta per le riforme e la rivoluzione e che il partito deve promuovere, non imporre. E’ per questo una disciplina di libertà. A sua volta, il partito è all’altezza del suo compito rivoluzionario solo se diventa lo strumento in cui si esprime la libertà delle masse. Viene meno alla sua missione se si trasforma in un’élite di tecnici del parlamentarismo, di burocrati delle riforme e anche di rivoluzionari di professione sordi alla pretesa di libertà della classe operaia. Libertà e disciplina non sono dunque concetti opposti in Luxemburg, ma poli dialettici che si intersecano continuamente e che rendono possibile una costante compenetrazione tra partito e masse”.[4]

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il dibattito teorico-politico interno alla socialdemocrazia tedesca (al quale possiamo qui solo accennare) si fa incandescente e Luxemburg prende apertamente posizione nella lotta. In Sozialreform oder Revolution? la sua tesi fondamentale consiste nel ritenere le lotte sindacali e parlamentari per le riforme sociali solo un mezzo in vista dello scopo essenziale della rivoluzione sociale, ossia del rovesciamento radicale dell’ordine capitalistico esistente, della trasformazione complessiva della società e della conquista del potere politico. Formalmente il parlamentarismo borghese esprime all’interno dell’organizzazione statale gli interessi dell’intera collettività, ma nella realtà dettano legge gli interessi delle classi dominanti (cfr. SC, 96-97). Le istituzioni sono formalmente democratiche, ma vi è in realtà un limite formale della democrazia borghese e la prassi politica prevalente nel movimento socialdemocratico tiene conto solo di questo lato formale, trascurando invece il contenuto reale, il lato sostanziale e appiattendosi sulle posizioni del liberalismo borghese. Il dominio borghese non esita a sacrificare le stesse forme istituzionali democratiche quando la democrazia, sulla spinta del movimento operaio, tende a farsi più sostanziale e a riempirsi di contenuto sociale. Per la borghesia, infatti, la democrazia risulta in parte d’impaccio e in parte superflua, ma per il movimento operaio essa è preziosa, imprescindibile, perché solo in essa il proletariato sviluppa la sua coscienza di classe, può tendere ai suoi compiti storici e realizzare forme politiche (come l’autonomia amministrativa, il diritto di voto, etc.) per trasformare la società borghese (cfr. SC, 135-136). Il proletariato non è dunque contro la democrazia; esso contesta soltanto il limite formale borghese di essa, ma lotta per una democrazia radicale e integrale, consapevole che solo nella lotta per la democrazia e nell’esercizio dei suoi diritti può diventare cosciente dei propri compiti storici.

La polemica contro l’opportunismo socialdemocratico si svolge anche sul fronte del rapporto tra violenza e rivoluzione. Già in un articolo pubblicato su “Die Neue Zeit” nel 1902 col titolo Und zum dritten Male das belgische Experiment (E per la terza volta l’esperimento belga, SC, 189-217), intervenendo a conclusione di un dibattito sull’impostazione data dal Partito operaio belga alla lotta per la revisione del diritto elettorale, Luxemburg affrontava il tema della violenza rivoluzionaria, sostenendo l’esigenza imprescindibile per la socialdemocrazia di assecondare le leggi della lotta di classe e di utilizzarle,  senza opporsi alla necessità storica della rivoluzione proletaria e senza dunque appiattirsi su di una teoria legalitarista del socialismo. Eliminare la rivoluzione dalla lotta di classe vorrebbe dire non considerare più la violenza come un fattore della storia moderna. Il “dottrinarismo opportunista”, abbracciando acriticamente il mero parlamentarismo e la teoria della legalità borghese, non avverte più che la violenza è alla base dell’ordine politico costituito e che la “legalità borghese” nasconde essenzialmente la violenza della classe dominante, il mantenimento dei privilegi di classe. Si tratta invece per Rosa, in Und zum dritten Male das belgische Experiment, di riconoscere che l’uso della forza si rende necessario sia da parte borghese sia da parte proletaria. Ella riconosce un merito alla “revisione” operata dalla socialdemocrazia tedesca nell’ammettere che la rivoluzione violenta non debba essere più considerata come l’unico metodo e come lo strumento valido in ogni tempo della lotta di classe, ma questo riconoscimento non deve negare il possibile uso della violenza. Pur prendendo le distanze da ogni culto/idolatria della violenza e da ogni “romanticheria rivoluzionaria”, Luxemburg afferma che l’uso della forza rimane l’ultima ratio anche per il movimento operaio, come una “amara necessità storica”, aggiungendo subito dopo che la rivoluzione violenta “nelle odierne condizioni è un mezzo di impiego estremamente arduo e a doppio taglio”, che espone a notevoli rischi di ogni tipo e a cui si deve ricorrere solo se rappresenta l’unica via pratica per l’avanzata del movimento operaio, solo in determinate circostanze storico-politiche e in presenza di rapporti di forza in grado di garantire una certa possibilità di successo. Essa non può comunque essere esclusa in linea di principio (cfr. SC, 216-217).

In Sozialreform oder Revolution? Rosa contesta la tesi di Bernstein secondo cui “dieses Ziel, was immer es sei, ist mir gar nichts, die Bewegung alles” (“questa meta, quale essa si sia, è per me nulla, il movimento tutto”), che trasforma la riforma sociale da mezzo a fine della lotta di classe e finisce col perdere di vista il sovvertimento sociale. La meta socialista è però il punto decisivo che distingue il movimento socialdemocratico dalla democrazia e dal radicalismo borghesi; escludendo dall’orizzonte l’eliminazione dell’ordimento capitalistico, viene dunque meno la ragion d’essere del movimento socialdemocratico, al di là di ogni questione meramente tattica. E’ la consapevolezza del fine che deve guidare tutta l’azione del movimento; se invece si fa della riforma sociale un fine autosufficiente, non si può in alcun modo pervenire alla meta socialista (cfr. SC, 98-100).

 

  1. La “patria” della letteratura e della cultura. La necessità storica del socialismo

 

La posta in gioco è davvero alta, non si tratta di faccende esclusive degli accademici, perché “tutta la forza del moderno movimento operaio riposa sulla conoscenza teorica” (SC, 64). La corrente opportunistica rende omaggi formali alla dottrina marxiana, ma di fatto la svuota di potenzialità e di efficacia, soprattutto spoglia i lavoratori del punto di vista del socialismo scientifico, ossia della loro più “fidata e affilata arma” nella direzione di una società diversa (cfr. SC, 61-65). La scientificità del marxismo che viene qui richiamata non vuole essere dogmatica, ma è tale in quanto si àncora alla storia, alle circostanze e opportunità storiche, “non pretende di avere a disposizione le toppe per tutti i buchi prodotti dallo sviluppo storico”, leggiamo nel saggio del 1908 Kwestia narodowościowa i autonomia (La questione nazionale e l’autonomia, cfr. SC, 284). E’ qui da sottolineare la grande considerazione che Luxemburg ebbe sempre per l’autonomia relativa della cultura e della teoria, per quanto politicamente impegnate e orientate.

Assai significativa risulta da questo punto di vista l’Einleitung – scritta nel luglio 1918 nel carcere di Breslavia e pubblicata nel 1919 – alla propria traduzione tedesca del testo di Vladimir Korolenko Die Geschichte meines Zeitgenossen. Korolenko, che per discendenza era contemporaneamente polacco, ucraino e russo, si salvò dal conflitto delle tre nazionalità trovando rifugio, la sua vera patria nella grande letteratura russa del XIX secolo, in cui si palesa una grande Weltanschauung e il cui principio di vita “è stata la lotta contro l’oscurantismo, la barbarie e l’oppressione. Con forza disperata essa ha scosso le catene sociali e politiche, si è dibattuta ferita tra di esse, e ha pagato onestamente col proprio sangue il prezzo della lotta” (cfr. SC, 525, 528-529). La letteratura diventa qui anche il rifugio dell’umanità oppressa, tendente alla liberazione.

Sull’importanza della visione del mondo fornita dalla grande letteratura si rileva nell’Einleitung citata: “Weltanschauung è appunto la coscienza sociale che sottilmente vibra nella letteratura russa, ciò che ha reso così straordinariamente acuta la sua penetrazione psicologica dei diversi caratteri, tipi, situazioni sociali; è la compassione dolorosamente sofferta, che ha immesso nelle descrizioni colore di tale luminoso splendore; è la ricerca, il frugare senza requie gli enigmi sociali: è questo che gli ha permesso di esaminare con occhio artistico la costruzione sociale in tutta la sua grandezza e il suo intimo intreccio e di fissarla in potenti opere” (SC, 532).

Ammirando i vari autori della letteratura russa del XIX secolo Luxemburg conclude la sua Einleitung nel modo seguente: “Così la letteratura unisce all’alto pathos etico l’intelligenza artistica per l’intera scala di sentimenti umani, così essa in mezzo al grande carcere, alla miseria materiale dello zarismo ha dato vita a un vero e proprio regno di libertà spirituale e di rigogliosa cultura, nel quale si poteva respirare e prendere parte agli interessi e alle correnti spirituali del mondo civile. In questo modo essa fu anche in grado di costituire in Russia una forza sociale, di educare generazione dopo generazione, e di diventare per i migliori, come Korolenko, un’autentica patria” (SC, 539). Non si scrivono queste cose se non si ama profondamente la cultura e la sua libertà espressiva.

Rosa si rese conto del fatto che l’ostilità e la diffidenza dei revisionisti per la “teoria” erano sintomi di un’involuzione, tendevano a separare la prassi dalla teoria, consegnando la prassi al prassismo più deteriore, all’abbandono dei principi e della meta. Perciò ella salutò e interpretò con entusiasmo (forse anche sopravvalutandoli) i dati sull’affluenza degli operai nelle sale di lettura (cfr. l’articolo pubblicato in “Die Neue Zeit” Die Revolution in Russland, La rivoluzione in Russia, 1905, SC, 243); e, in un articolo apparso nel 1903 sul “Vorwärts” di Berlino in occasione del ventesimo anniversario della morte di Marx, sottolineò il valore e l’esigenza profonda di una rivoluzione etica e culturale che, a partire dal movimento operaio, poteva e doveva rinnovare l’intera società: “La sete di sapere della classe operaia è uno dei più importanti fenomeni culturali contemporanei. Eticamente la lotta operaia significa il rinnovamento culturale della società” (Stillstand und Fortschritt im Marxismus, Ristagno e progresso nel marxismo, 1903, SC, 228).

Profondamente marxiana fu Rosa nell’attenersi al principio-guida degli Statuti scritti da Marx per la Prima Internazionale, secondo cui “l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera della loro classe stessa” (cfr. l’articolo Der Sozialismus in Polen, Il socialismo in Polonia, 1897, SC, 33).

Molto marxiana Luxemburg sarà sempre anche nel ritenere che il socialismo si realizzerà, attraverso la prassi rivoluzionaria del proletariato nei vari paesi capitalistici europei, “con la necessità di una legge di natura” (cfr. l’articolo Die Revolution in Russland, La rivoluzione in Russia, 1905, SC, 231-244). Come sappiamo, questo necessitismo marxiano e luxemburghiano sarà storicamente smentito.

Rosa segue lo schema marxiano della struttura delle crisi (indicato da Marx nel I e nel III volume di Das Kapital e da Engels nell’Anti-Dühring), crede fermamente nella “teoria del crollo” del capitalismo (Zusammenbruchstheorie), convinta che il suo sbocco non possa essere altro che “un crack economico generale”, che la crescente anarchia dell’economia capitalistica – unitamente alla progressiva socializzazione del processo produttivo (intesa come presupposto positivo del futuro ordine sociale) e alla maturazione dell’organizzazione e della coscienza di classe proletaria (come fattore propriamente attivo del rivolgimento) – debba inevitabilmente e piuttosto rapidamente condurre alla scomparsa del sistema capitalistico (cfr. Reform oder Revolution?, SC, 70-71, 80-81). Qui come altrove la rivoluzionaria polacco-tedesca confida fortemente nel risveglio delle masse, nella loro coscienza di classe, nella loro vicina maturazione politica in senso rivoluzionario, quando invece prevalsero più spesso l’inerzia e l’immaturità storico-politica delle masse stesse.

Negli anni durissimi della prima guerra mondiale, di cui aveva compreso tutto l’immenso orrore e sfacelo, ella riteneva che la questione decisiva riguardasse la capacità d’azione delle masse: “Il problema specifico imposto dalla guerra mondiale ai partiti socialisti, e dalla cui soluzione dipendono i futuri destini del movimento operaio, è la capacità d’azione delle masse proletarie nella lotta contro l’imperialismo. Non di rivendicazioni, di programmi, di parole d’ordine soffre carenza il proletariato internazionale, ma di fatti, di capacità di resistenza attiva, di qualificazione a cogliere il momento decisivo per l’assalto all’imperialismo precisamente nella guerra, e a tradurre in pratica la vecchia parola d’ordine ‘guerra alla guerra’. Qui il Rhodus, dove è d’uopo saltare, qui il punto cruciale della politica proletaria e del suo avvenire più lontano” (Juniusbroschüre, SC, 508-509).

Rosa è convinta della contrapposizione fra due tipi di necessità storica. Da un lato, vi è quella, per le classi dominanti, di trasformare il pianeta intero in un immenso mercato mondiale capitalistico, imponendo a tutti i costi il primato del profitto, sterminando popoli, annientando civiltà antiche, riducendo a schiavi salariati tutti i lavoratori della terra; si tratta di una “brutale marcia trionfale del capitale attraverso il mondo, spianata e accompagnata da ogni specie di violenza, di rapina e di infamia”. Dall’altro, vi è la necessità storica per il movimento operaio internazionale di non capitolare di fronte alla necessità storica dell’imperialismo e della sua guerra, di fare appello alla fraternità e alla solidarietà fra i lavoratori di tutto il mondo, di ergersi a protagonista dell’abbattimento dell’egemonia mondiale dell’imperialismo, diventandone il “becchino” e dimostrando di avere “il fiato più lungo” (cfr. Juniusbroschüre, SC, 509-510). La necessità (Notwendigkeit) storica del socialismo s’impone, insomma, con la stessa ineluttabilità di una legge naturale, per salvare il mondo dalla sventura.

 

  1. Capitalismo, nazionalismo e militarismo. Crisi della socialdemocrazia e ‘Juniusbroschüre’

 

Luxemburg aveva compreso ben presto, già alla fine del XIX secolo, il nesso sempre più stretto fra capitalismo, nazionalismo e militarismo. Sulla questione nazionale e sulle ideologie nazionalistiche Rosa aveva cominciato ad esprimersi con chiarezza ben presto (cfr. alcuni scritti come Kwestia polska na międzynarodowym kongresie w Londynie, La questione polacca al Congresso internazionale di Londra, 1896, Der Sozialismus in Polen, Il socialismo in Polonia, 1897 e la sua tesi di laurea Die industrielle Entwickelung Polens, Lo sviluppo industriale della Polonia, 1898, cfr. SC, 3-22, 23-41, 43-51). In Reform oder Revolution? si afferma che il militarismo è diventato per il capitalismo una “necessità imprescindibile” in quanto strumento di lotta nella concorrenza fra gli interessi dei vari gruppi nazionali, come il più importante genere di investimento per il capitale industriale e finanziario, come strumento del dominio di classe in funzione anti-proletaria. Ella sottolinea già in tutti i paesi la corsa agli armamenti, “la fatalità dell’esplosione che si approssima” e il fatto che il militarismo, inseparabile dalle ideologie nazionalistiche, è diventato da “forza motrice” dello sviluppo capitalistico una “malattia capitalistica” (cfr. SC, 94-96).

Nello stesso periodo, nello scritto Miliz und Militarismus (Milizia e militarismo, cfr. SC, 155-187, che raccoglie una serie di articoli apparsi nel febbraio 1899 sulla “Leipziger Volkszeitung” in risposta polemica agli scritti del deputato socialdemocratico Max Schippel a favore del miltarismo), il militarismo viene denunciato come il miglior sostegno del dominio capitalistico. La lotta al militarismo e al nazionalismo appartiene dunque all’essenza della concezione politica della socialdemocrazia e quei politici opportunisti socialdemocratici che lo difendono non solo non comprendono la specifica funzione del militarismo nella società capitalistica, ma si appiattiscono di fatto sulle posizioni della cultura e dell’ideologia borghese. L’ispirazione anti-nazionalistica è ripresa da Luxemburg nella più forte continuità con lo spirito internazionalistico e solidaristico già ben presente in Marx e nella Comune di Parigi, alla cui valorosa esperienza ella si rifà costantemente nei suoi scritti.

Queste convinzioni si rafforzano in Rosa nei primi anni del Novecento, man mano che si preparano le condizioni per il dilagare della guerra imperialistica mondiale. Più di tanti altri, Luxemburg s’era resa conto del cancro terribile della diffusione delle ideologie militaristico-nazionalistiche e dell’esigenza assoluta di rispondere ad esse rilanciando la proposta dell’internazionalismo socialista, a proposito del quale ella fu accusata da parte del socialsciovinismo – insieme a Trockij, Pannekoek, etc. – di wurzellosen Kosmopolitismus (cosmopolitismo senza radici). Rosa aveva invece compreso lucidamente che la guerra come tale è “l’orrore degli orrori” e rappresenta la sconfitta di tutto il proletariato europeo, al di là della vittoria o della sconfitta di ciascun paese (cfr. Juniusbroschüre, SC, 507, 512).

Il 4 agosto 1914 la votazione all’unanimità da parte del gruppo parlamentare socialdemocratico dei crediti di guerra rappresenta una sorta di spartiacque; quell’anno la guerra mondiale imperialistica sancisce la crisi e il crollo ignominioso della Seconda Internazionale dei lavoratori, in particolare della sezione socialdemocratica tedesca, quella che doveva essere l’avanguardia del proletariato internazionale. Inorridita dalla scelta sui crediti di guerra della SPD, Rosa comincia subito a opporsi alla guerra e a richiamarsi ai principi di fraternità del movimento operaio internazionale, a darsi da fare come può, scrive lettere e appelli – sovente con la collaborazione di Karl Liebknecht, Klara Zetkin e Franz Mehring -, nonostante i gravi impedimenti dello stato d’assedio e i tanti anni di prigionia che dovrà subire. Soprattutto, manifesta subito apertamente il proprio dissenso e quello dei suoi compagni di battaglia dalle scelte scellerate della maggioranza del partito socialdemocratico tedesco.

In una lettera del dicembre 1914 indirizzata al settimanale londinese “Labour Laeder”, dell’Indipendent Labour Party, Rosa si batte strenuamente affinché i partiti operai dei vari paesi non rigettino i principi dell’internazionalismo proletario e non accolgano la teoria e la prassi borghesi, “per le quali dovrebbe essere naturale e inevitabile che i proletari delle diverse nazioni in guerra si scannino reciprocamente agli ordini delle loro classi dirigenti, e successivamente si scambino ancora reciproci fraterni abbracci, come se nulla fosse. Un’Internazionale, che in questo modo riconoscesse scientemente la spaventosa rovina attuale quale prassi normale anche per l’avvenire, e pure pretendesse ancora di esistere, sarebbe soltanto una rivoltante caricatura del socialismo, un parto dell’ipocrisia, esattamente nei termini della diplomazia degli stati borghesi, delle loro alleanze e dei loro trattati internazionali. No! Lo spaventoso macello reciproco di milioni di proletari, al quale oggi con orrore assistiamo, queste orge dell’imperialismo omicida, che hanno luogo sotto le ipocrite insegne di ‘patria’, di ‘civiltà’, di ‘libertà’, di ‘diritto delle genti’, devastano paesi e città, disonorano la civiltà, calpestano la libertà e il diritto delle genti, rappresentano un autentico tradimento del socialismo” (SC, 443-444).

In questa lettera del dicembre 1914 Rosa vuole esprimere questa “amara verità” per trarre tutti gli insegnamenti possibili dagli errori commessi e spera ancora che “l’Internazionale proletaria risorga dalle ceneri quale unica salvezza dell’umanità dall’inferno di un dominio di classe in sfacelo e storicamente superato. Già ora, a pochi mesi dall’inizio della guerra, sta svanendo anche in Germania la sbornia sciovinistica tra le masse lavoratrici, piantate in asso nelle grandi ore storiche dai loro capi, ritorna la coscienza e giorno per giorno aumenta il numero dei proletari, ai quali quanto ora va accadendo, accende in volto un rossore di vergogna e di collera. Da questa guerra le masse popolari ritorneranno sotto la nostra vecchia bandiera con ancora più vivo impulso, non per tradirla nuovamente alla prossima orgia capitalistica, bensì per difenderla risolutamente contro l’intero mondo capitalistico, contro le sue mene delittuose, contro le sue infami menzogne e la sua miserabile retorica a base di ‘patria’ e di ‘libertà’, e per piantarla vittoriosamente sulle rovine dell’imperialismo sanguinario” (SC, 444).

La Juniusbroschüre (o Die Krise der Sozialdemokratie) è indubbiamente uno dei testi in cui con maggiore forza e incisività viene alla luce la vasta portata della tragedia della socialdemocrazia tedesca, la sua rinuncia ad un punto di vista critico ed autonomo, ad essere una guida politica del paese, abbandonato al destino spaventoso della guerra imperialistica. Non v’era alcun bisogno di votare i crediti di guerra, che sarebbero stati comunque approvati dalla maggioranza borghese dei tre quarti del parlamento, ma con la volontaria votazione dei fondi la frazione socialdemocratica al Reichstag ha contribuito a dare il via libera al massacro imperialistico e si è assunta la “corresponsabilità morale della guerra” (cfr. Juniusbroschüre, 494-495).

Mentre la combinazione micidiale di militarismo, nazionalismo, capitalismo e imperialismo semina guerra, spaventosa violenza, immani lutti, indicibili sofferenze, con grande cuore e mente lucida Rosa è costantemente rivolta a coloro che pagano maggiormente il prezzo della guerra, alle classi subalterne, alle masse popolari concepite come mera “carne da cannone” (cfr. Juniusbroschüre, SC, 483, 490) a disposizione degli interessi delle classi dominanti. Davvero notevole nella polemica luxemburghiana contro il militarismo e l’imperialismo è il tema ricorrente della fratellanza proletaria, il rifiuto etico-politico o etico prima ancora che politico di rivolgere le armi omicide contro i fratelli stranieri, il forte richiamo – che rimarrà inascoltato – alla solidarietà internazionale fra i lavoratori di tutti i popoli e paesi. E’ un grande afflato etico che la indigna, la spinge a scrivere anche in carcere, in condizioni disperate e ancor oggi ci colpisce e commuove.

 

  1. L’ “omicidio organizzato” della guerra imperialistica e la sofferenza del proletariato mondiale. L’afflato internazionalistico del pensiero etico-politico di Rosa Luxemburg

 

Nella Juniusbroschüre si evidenzia pure un altro aspetto di straordinaria attualità del messaggio di Rosa Luxemburg, che ci piace sottolineare in questi primi decenni del XXI secolo: in lei non v’è alcun eurocentrismo e, anzi, si rintraccia un profondo rispetto per le differenze etniche e culturali, per la libertà e autonomia dei vari popoli. Sferzante è la sua ironia sul “mondo civile” europeo, sulla “cosiddetta grande opera di civiltà nei paesi primitivi. Per gli economisti e i politici borghesi-liberali le ferrovie, i fiammiferi svedesi, la canalizzazione stradale, e i bazar sono ‘progresso’ e ‘civiltà’. Di per sé quelle opere innestate su condizioni primitive non rappresentano né civiltà né progresso, perché vengono pagate da una subitanea rovina economica e culturale dei popoli, che hanno a godere in una volta sola tutte le calamità e gli orrori di due epoche: dei rapporti di dominazione tradizionali su base di economia naturale e del più moderno e raffinato sfruttamento capitalistico. Solo come presupposti materiali del superamento del dominio del capitale, dell’abolizione della società classista in generale le opere che segnano la vittoriosa marcia capitalistica per il mondo portano l’impronta del progresso in più esteso senso storico. In questo senso l’imperialismo ha in ultima analisi lavorato per noi” (SC, 510).

Rosa sente vicine a sé le sofferenze di tutti i popoli della terra, in tutte le latitudini, ovunque vi siano sfruttamento, oppressione, colonialismo, ingiustizie, privilegi, diseguaglianze. La sua è una lotta a tutto campo nel segno della difesa della dignità umana universale. Non c’è nessun “popolo eletto” avente una missione storica particolare da svolgere. A questo proposito ella scrive dal carcere di Wronke il 16 febbraio 1917 a Mathilde Wurm: “Che cosa vuoi dire con le sofferenze degli ebrei? A me le povere vittime delle piantagioni di gomma a Putumayo, i negri dell’Africa con i cui corpi gli europei giocano a palla, mi sono altrettanto vicini. Ti ricordi ancora le parole nell’opera del grande stato maggiore sulla spedizione von Trotha nel Kalahari: ‘E il rantolo dei moribondi, e il folle grido degli assetati echeggiavano nel sublime silenzio dell’infinito’. Oh, questo ‘sublime silenzio dell’infinito’, in cui echeggiano senza essere uditi tanti gridi, risuona in me così forte che non mi rimane nel cuore nessun angolino particolare per il ghetto: mi sento a casa mia in tutto il mondo, ovunque ci siano nuvole e uccelli e lacrime umane”.[5]

Nella Juniusbroschüre troviamo una denuncia implacabile dell'”ipocrisia borghese” secondo cui ogni popolo è pronto a riconoscere la barbarie e l’infamia solo negli altri popoli e nelle altre civiltà/culture, non riconoscendole invece mai nel proprio seno stesso (cfr. SC, 511-512). Nel momento in cui si viene tratti all’ “omicidio organizzato” che la guerra è in sé stessa la barbarie ricade su tutti i popoli impegnati nella carneficina. L’ “imperversare della bestialità imperialista” vede il “mondo civile” assistere senza “occhio inorridito” e “cuore agghiacciato” alla “distruzione in massa del proletariato europeo. Mai una guerra ha sterminato in questa misura interi strati di popolazione, mai da un secolo a questa parte aveva coinvolto in tale misura interi paesi europei di grande e antica civiltà” (SC, 512). Mai s’era visto un simile massacro di massa, in cui a pagare maggiormente i pesi della guerra sono i lavoratori delle città e delle campagne. Il capitalismo mostra qui senza pudori il suo “volto di morte”, colpendo mortalmente la civiltà socialista futura, proprio quelle forze che hanno nel proprio grembo le maggiori potenzialità di avvenire dell’umanità, le sole forze che possono “portare in salvo, in una società migliore, i preziosi tesori del passato” (SC, 513). Già con la pubblicazione di Die Akkumulation des Kapitals alla fine del 1912, Luxemburg coglie il fatto che con il progressivo imporsi dell’imperialismo capitalistico si ha la piena affermazione e onnipervasività della forma-merce – che tende a investire tutte le manifestazioni della vita umana e sociale – e dell’ “autovalorizzazione del capitale”, della sua espansione senza limiti, per cui la guerra diviene lo strumento di risoluzione delle crisi di sovrapproduzione.

Con l’affermazione del suo “volto di morte” nella prima guerra mondiale, il capitalismo inaugura quella lunga stagione della “cultura della morte” – definita anche sovente della “bella morte” sui campi di battaglia -, il cui culto verrà ripreso e sviluppato nelle varie forme di fascismo e nazismo che sorgeranno non soltanto nei paesi europei alla fine della prima guerra mondiale e avranno il loro compimento nell’altra immane tragedia della seconda guerra mondiale.

La guerra mondiale in corso è, nel contempo, un omicidio e un suicidio della classe lavoratrice europea; una guerra in cui i lavoratori dei vari paesi europei sono chiamati a massacrarsi vicendevolmente con l’unico risultato di rafforzare il capitalismo, capace di speculare e di trarre giovamento anche dalla più spietata carneficina: “Il delirio cesserà e lo spettro infernale sparirà solo a condizione che i lavoratori di Germania e di Francia, di Inghilterra e di Russia sappiano finalmente riscuotersi dalla loro ubriacatura, stringersi fraternamente per mano e sovrastare il coro bestiale della canea imperialistica così come le roche strida delle iene capitalistiche, col vecchio e possente grido di guerra del lavoro: Proletari di tutto il mondo, unitevi!” (cfr. SC, 513-514).

I Leitsätze über die Aufgaben der internationalen Sozialdemokratie (Tesi sui compiti della socialdemocrazia internazionale, SC, 514-520) che appaiono come Appendice della Juniusbroschüre fanno appello alla solidarietà e fraternità internazionale del proletariato, insistono sul fatto che la rivoluzione sociale liberatrice non può che avere protagonisti i lavoratori sfruttati e oppressi di tutti i paesi del mondo, non può che avere un respiro internazionale. I Leitsätze sanciscono la crisi definitiva e il crollo della Seconda Internazionale dei lavoratori e l’urgenza di fondare una nuova Internazionale operaia. La vera Heimat dei lavoratori è infatti l’Internazionale socialista da rifondare.

Nel discorso pronunciato a Friburgo nel marzo 1914 a propria difesa in uno dei processi subiti, Rosa ribatte con fierezza, dignità e coraggio al pubblico ministero che “scopriva le sue carte” contrapponendo il patriota tedesco chiamato a preservare l’onore e la moralità del Reich tedesco al suo essere una “creatura senza patria”, ribadendo la sua appartenenza a una patria ben più vasta, la patria dell’umanità planetaria offesa, violentata, sfruttata ed emarginata: “Quanto al mio essere senza patria, non vorrei cambiare con il signor pubblico ministero. Ho una patria grande e cara come non l’ha alcun pubblico ministero prussiano (…). Cos’è la patria se non la gran massa degli uomini e delle donne che lavorano? Cos’è la patria se non l’elevamento del tenore di vita, l’elevamento della moralità, l’elevamento delle forze intellettuali della grande massa che costituisce il popolo?”.[6]

La lotta di Rosa e dei suoi compagni è strenua e disperata. Ella si rende conto, concludendo la Juniusbroschüre, non solo che le masse vengono decimate dalla guerra mondiale in corso, ma anche del fatto sconvolgente che viene compromesso e distrutto il lavoro pluridecennale di agitazione, propaganda ed educazione socialista; infatti, “perché il socialismo avanzi e vinca, ci vuole un proletariato forte, combattivo, istruito, ci vogliono masse, la cui forza riposi nel numero non meno che nel proprio livello spirituale” (SC, 513).

Proprio questo tipo di proletariato cosciente, istruito, forte, organizzato e combattivo, su cui Luxemburg contava, verrà drammaticamente a mancare ai suoi compiti storici. Da questo punto di vista il sesto principio dei Leitsätze, nel richiamarsi all’esigenza fondamentale della lotta di classe contro l’imperialismo, si poneva come die nächste Aufgabe (il compito più immediato) del socialismo la “liberazione spirituale” del proletariato dall’influenza delle ideologie nazionalistiche e si proponeva di denunciare la stessa fraseologia nazionalistica come espressione ideologica dell’egemonia borghese. Ora, si può rilevare quanto meno che tale nefasta influenza si rivelerà purtroppo più consistente e duratura del previsto; di più, sulle macerie della prima guerra mondiale, si alimenteranno anzi ulteriormente le spinte e le ideologie nazionalistiche, sino alla formazione delle ideologie fasciste e naziste che condurranno infine, nel XX secolo, alla nuova tragedia della seconda guerra mondiale.

Pensando ancora alla fondamentale esigenza di “liberazione spirituale” delle masse popolari, anche nella Rede zum Programm tenuta il 31 dicembre 1918 al congresso di fondazione della Kommunistische Partei Deutschlands (Spartakusbund), Luxemburg afferma che la vera pace mondiale, stabile e duratura, coincide con l’avvento della rivoluzione mondiale proletaria, con l’affermazione del socialismo e della rivoluzione.[7]

Sempre in questa sede ribadirà che la votazione del 4 agosto 1914 sui crediti di guerra non può essere in alcun modo considerata come una svolta inaspettata piovuta per caso dal cielo, ma è stata preparata nei decenni precedenti dal richiamo soltanto formale al pensiero di Marx proprio del marxismo ufficiale socialdemocratico, che è a lungo servito come copertura ideologica della rinuncia a una prospettiva di radicale superamento della società capitalistica.[8]

 

  1. Rosa Luxemburg e l’ “esame critico” della rivoluzione russa

 

Per quanto siano rimasti per lo più allo stato di abbozzi e frammenti incompiuti, è difficile sottovalutare l’importanza di alcuni degli ultimi scritti di Rosa Luxemburg dedicati all’ “esame critico” della rivoluzione russa. Fra di essi troviamo uno dei Politische Briefe (successivamente pubblicati nella raccolta Spartakusbriefe[9]), intitolato Die russische Tragödie, pubblicato anonimo in “Spartacus” (n. 11, settembre 1918) e scritto durante la prigionia a Breslau probabilmente tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1918 (cfr. La tragedia russa, SC, 541-555).

Qui l’autrice è perfettamente consapevole dell’estrema difficoltà in cui versano la situazione storico-politica mondiale e la politica rivoluzionaria russa dopo la pace di Brest-Litovsk, che di fatto ha condotto, a suo avviso, a un rafforzamento della politica imperialistica pantedesca, a un indebolimento delle chances rivoluzionarie in Germania e a un accerchiamento-strozzamento della rivoluzione russa. L’articolo è notevole anche per l’atteggiamento complessivo mostrato nei confronti della politica di Lenin e compagni; un atteggiamento di sostanziale forte solidarietà e vicinanza, senza però rinunciare a un punto di vista critico, a partire dal riconoscimento esplicito dei non pochi errori commessi dai bolscevichi, errori comunque inevitabili in qualsiasi rivoluzione e ancor più comprensibili in una situazione grave e difficile come quella russa: “Se i cosiddetti capi del socialismo tedesco, in una situazione fuori del normale, perdono la cosiddetta testa già per una votazione al Reichstag, e già là dove il semplice Abc del socialismo indica chiaramente la strada, se la fanno addosso e dimenticano tutto il socialismo come una lezione male imparata, come pretendere che non commetta errori un partito in una situazione storica veramente scabrosa ed inaudita, in cui esso vuole indicare al mondo vie totalmente nuove?” (SC, 553-554). E’ un compito disperato quello di perseguire la trasformazione socialista in un singolo paese circondato dal dominio reazionario imperialistico e nel quadro della “più sanguinosa guerra mondiale della storia umana”.

Ma è convinzione di Rosa che la situazione difficile in cui si trovano i bolscevichi e la maggior parte dei loro stessi errori siano da attribuire alle colpe del proletariato internazionale e della socialdemocrazia tedesca piegatasi agli interessi dell’imperialismo tedesco: “La colpa degli errori dei bolscevichi la porta in ultima analisi il proletariato internazionale e innanzi tutto la bassezza pertinace e senza esempi della socialdemocrazia tedesca, di un partito che in pace pretendeva di marciare alla testa del proletariato mondiale, presumeva indottrinare e guidare tutto il mondo, contava nel proprio paese almeno dieci milioni di aderenti di ambo i sessi, e ora da quattro anni mette in croce ventiquattro ore al giorno il socialismo come mercenari medievali agli ordini delle classi dominanti” (SC, 554-555).

In una situazione in cui la rivoluzione russa è accerchiata, affamata, strozzata e fatta a pezzi, soltanto la sollevazione rivoluzionaria delle masse tedesche potrà costituire il segnale di un’inversione di rotta sul piano internazionale, potrà salvare l’onore e le sorti del socialismo internazionale (cfr. SC, 555).

Ma è soprattutto alle note manoscritte pubblicate postume per la prima volta da Paul Levi nel 1922 col titolo Die russische Revolution. Eine kritische Würdigung (cfr. La rivoluzione russa. Un esame critico, SC, 557-616) e stese negli ultimi mesi della vita di Rosa (con ogni probabilità nell’autunno 1918), che occorre prestare attenzione, per i motivi che presto evidenzieremo. Questo prezioso manoscritto – che ci sembra ancor oggi di straordinaria importanza, nonostante la sua incompiutezza – era destinato ad essere ripreso e approfondito in una più ampia trattazione storico-politica che l’autrice voleva dedicare alla rivoluzione russa, ritenuta “l’avvenimento più importante della guerra mondiale” (SC, 565).

Il testo inizia prendendo le distanze dalla tesi condivisa dagli opportunisti russi e tedeschi secondo cui in Russia – per le sue caratteristiche di paese prevalentemente agricolo e per le sue condizioni di immaturità/arretratezza storica – ci si doveva fermare, dopo l’abbattimento dello zarismo, ad una rivoluzione soltanto borghese. Qui il bersaglio polemico di Rosa è costituito dalle posizioni espresse da Karl Kautsky in alcuni testi scritti nel 1918 come Die Diktatur des Proletariats, Demokratie und Diktatur e Demokratie oder Diktatur, che ribadivano l’assoluta priorità della democrazia. Come ha notato giustamente Luciano Amodio (cfr. SC, 563), Rosa polemizza duramente con Kautsky (cfr. SC, 572-573), ma, come vedremo presto, ne accoglie, almeno parzialmente, gli argomenti proprio sul tema della democrazia. Secondo lei, le tesi kautskyane non tengono comunque conto del fatto che l’andamento della guerra e della rivoluzione russa hanno dimostrato soltanto “la fatale inerzia delle masse tedesche”, l’apatia e l’immaturità del proletariato tedesco e internazionale nei confronti dei propri compiti storici. Perciò: “Che i bolscevichi fondassero completamente la loro politica sulla rivoluzione mondiale del proletariato, è veramente la più splendida testimonianza della loro lungimiranza politica e della loro saldezza di principî, dell’ardito piglio della loro politica” (cfr. SC, 568-569).

Luxemburg elogia l’intraprendenza e l’arditezza dei bolscevichi, condivide completamente la loro parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” del proletariato e dei contadini e riconosce al partito di Lenin e di Trockij la capacità di direzione e spinta in avanti, di “procurarsi seguaci nella tempesta”, sino al punto di trasformarsi, attraverso la tattica rivoluzionaria, da minoranza in maggioranza in grado di padroneggiare la situazione.

I bolscevichi, come “eredi storici dei Livellatori inglesi e dei Giacobini francesi”, hanno “l’imperituro merito storico” di avere davvero perseguito “le mete finali socialiste” e hanno riabilitato il socialismo internazionale, dimostrando nei fatti la loro capacità d’azione rivoluzionaria, venuta invece meno alla socialdemocrazia occidentale (cfr. SC, 577-578). Tutto il movimento spartachista aveva sostenuto e condiviso il potere dei consigli, senza sciommiottare i bolscevichi e pure senza risparmiare alcune critiche ad essi. Rosa Luxemburg non lesina le critiche ai bolscevichi e ne sottolinea errori gravi, come quelli sulla politica agraria o sullo slogan dell’autodeterminazione nazionale (nationale Selbstbestimmung), errori che hanno portato acqua al mulino della controrivoluzione (Gegenrevolution) e alla “liquidazione in senso controrivoluzionario dell’intera guerra mondiale” (cfr. SC, 589). Ella è convinta del fatto che Lenin e Trockij, “le teste forti alla direzione della rivoluzione russa”, abbiano talvolta agito e preso delle decisioni con intima esitazione e ripugnanza, costretti dagli enormi ostacoli e difficoltà incontrati, “nel vortice agitato degli avvenimenti”; dunque, essi sarebbero i primi a riconoscere come fuori posto “l’ammirazione acritica e la zelante sciommiottatura” nei confronti del loro operato (cfr. SC, 569).

Detto ciò con chiarezza, si rende più che mai necessaria eine kritische Würdigung, “un apprezzamento critico”, una libera valutazione, un esame critico della rivoluzione russa, ai fini di una maggiore e più matura capacità di iniziativa rivoluzionaria del proletariato internazionale in una prospettiva storica, perché soltanto la coscienza e la comprensione della “tremenda serietà”, della “complessità dei compiti”, soltanto la “maturità politica”, “l’indipendenza spirituale”, l’ “attitudine al giudizio critico delle masse” (cfr. SC, 569-570) potranno invertire il rovinoso corso del mondo.

 

  1. Democrazia, socialismo e rivoluzione in Rosa Luxemburg

 

Nell’autunno 1918 occorre dunque muovere dall’ “amaro riconoscimento” che le terribili e fatali circostanze storiche mondiali in cui si è svolta la rivoluzione russa non le hanno consentito finora di realizzare “né democrazia né socialismo, ma solo dei primi rudimenti impotenti e deformati di entrambi” (SC, 568). Tutto ciò misura l’enorme portata della responsabilità del proletariato internazionale circa gli esiti della rivoluzione russa, data “l’importanza risolutiva di un unitario atteggiamento internazionale da parte della rivoluzione proletaria, come condizione basilare, venendo meno la quale anche la più fervida attività e gli estremi sacrifici del proletariato in un singolo paese finiscono inevitabilmente per perdersi in un mare di contraddizioni e di sbagli” (SC, 569).

Il potere assoluto di Stalin non si è ancora imposto, siamo ancora lontani dall’affermazione piena e incontrastata del regime totalitario staliniano, ma l’ammonimento di Rosa Luxemburg è qui già molto chiaro e suona quasi profetico.

Rosa punta l’attenzione in particolare sulla “famigerata dissoluzione dell’Assemblea costituente” da parte dei bolscevichi nel novembre 1917 e sull’ “interessante opuscolo” di Trockij Dalla rivoluzione d’ottobre al trattato di pace di Brest (1918). Ella sottolinea in Lenin e Trockij una pericolosa “concezione schematica e rigida” degli istituti rappresentativi e del rapporto tra  movimento rivoluzionario, società e nuovi poteri/istituzioni, tendente a esaltare le “irrigidite insegne di partito” e a svalutare l’apporto decisivo della concreta e pulsante vita del popolo, la calda e vitale partecipazione dei movimenti sociali al processo rivoluzionario, il “vivente movimento delle masse”, la “vita politica attiva, libera ed energica delle grandi masse”, la loro “pressione ininterrotta” (cfr. SC, 592-594). Detto con chiarezza, il rimedio a ciò che Trockij chiama “il faticoso meccanismo delle istituzioni democratiche” non sta nell’ “accantonamento in generale della democrazia” (come intendono Lenin e Trockij), ma nel potenziamento di tali istituzioni democratiche e nella massima valorizzazione della democrazia in tutte le sue espressioni.

Anche il diritto elettorale elaborato dal governo bolscevico, “concesso solo a coloro che vivono del proprio lavoro e rifiutato a tutti gli altri” in un contesto sociale reale in enorme crisi e difficoltà come quello russo, costituisce “uno stupefacente prodotto della teoria bolscevica della dittatura”, dato che esso non prevede una reale rappresentanza popolare come esito di elezioni generali (cfr. SC, 595). In Die russische Revolution si ribadisce dunque che ogni soffocamento e restrizione della vita pubblica è deleterio e che i partiti e le istituzioni statali, per non sclerotizzarsi, hanno bisogno come l’aria del libero movimento della società. Più che mai comprensibili sono la difesa della rivoluzione, il ricorso a misure repressive e anche al pugno di ferro contro la reazione borghese, ma non ha alcun senso e anzi è del tutto fuorviante un diritto elettorale che priva di diritti larghi strati della società (cfr. SC, 595-597).

Molto grave da parte del governo sovietico è pure per Luxemburg “l’abolizione delle garanzie democratiche più importanti di una sana vita pubblica e dell’attività politica delle masse lavoratrici”, in particolare della libertà di stampa, del diritto di associazione e di riunione per tutti gli avversari del governo bolscevico. Le argomentazioni portate a questo proposito dai dirigenti bolscevichi sono del tutto insufficienti e infondate. Infatti, “senza illimitata libertà di stampa, senza libera vita d’associazione e di riunione è proprio il dominio di larghe masse popolari a presentarsi assolutamente impensabile” (cfr. SC, 597-598); senza tutto ciò, viene meno la ragione stessa del socialismo. I dirigenti bolscevichi, “con il soffocamento della vita pubblica, hanno bloccato la sorgente dell’esperienza politica e il proseguimento dello sviluppo” (SC, 598). Non è sufficiente la presa del potere e ancor meno lo è il culto feticistico-idolatrico del potere se si bloccano tale sviluppo, “l’accumulazione di esperienze” e il processo di istruzione/educazione politica delle masse. In questo modo non si costruisce più un’autentica società socialista imperniata sul protagonismo politico delle masse popolari. Con grande lucidità Rosa scorge qui i germi e i segni di una pericolosa involuzione/degenerazione autoritaria e di una errata concezione idolatrica del partito, tendente all’aberrante identificazione di un partito unico con lo stato: “La libertà solo per i seguaci del governo, solo per i membri di un partito – per numerosi che possano essere – non è libertà. La libertà è sempre unicamente libertà di chi la pensa diversamente (Freiheit ist immer Freiheit der Andersdenkenden)” (SC, 599, sottolineatura nostra). La libertà, insomma, non è privilegio e monopolio dei bolscevichi al potere. Proprio il “coraggio” e la “decisione” con cui i bolscevichi hanno affrontato i giganteschi compiti storico-politici esistenti esigono la più ampia libertà e partecipazione delle masse allo sviluppo del processo rivoluzionario. Col soffocamento della democrazia si snatura il socialismo, anche il richiamo ai soviet si rivela inutile e soltanto strumentale. La costruzione del socialismo non può essere affidata alle scelte di ristretti gruppi di potere e non è monopolio di un partito rivoluzionario avente in tasca una ricetta miracolistica, già pronta per le cucine dell’avvenire. Questo sembra essere però “il tacito presupposto”, gravissimo e pesantissimo, della concezione della “dittatura del proletariato” secondo il bolscevismo (cfr. SC, 599).

Con un riferimento alla metafora marxiana del “rovesciamento” materialistico della dialettica hegeliana, in Die russische Revolution l’autrice cita il Lenin di Stato e rivoluzione (1917), laddove il leader russo afferma che lo stato socialista mostra una certa corrispondenza con lo stato borghese nel tratto del dominio di classe, esercitato dal primo contro la classe borghese e dal secondo contro la classe proletaria, ragion per cui lo stato socialista sarebbe semplicemente “uno stato capitalistico posto sulla testa” (cfr. SC, 598). Questa impostazione di Lenin appare però a Rosa una semplificazione inaccettabile e pericolosa, perché astrae dal fatto essenziale che nella nuova società socialista “l’istruzione e l’educazione politica delle masse popolari” è “l’elemento vitale, l’aria” propria di una autentica “dittatura del proletariato” nel senso marxiano, la quale è inconcepibile senza le più ampie garanzie democratiche (cfr. SC, 598).[10]

Del resto, già nell’articolo del 1904 Organisationsfragen der russischen Sozialdemokratie (Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, pubblicato in tedesco in “Die Neue Zeit” e in russo in “Iskra”), Luxemburg aveva criticato Lenin per la sua concezione del primato assoluto del Comitato centrale del Partito, sostenendo all’opposto  che il movimento socialdemocratico deve ovunque operare per favorire la soggettività, l’organizzazione, l’azione diretta e autonoma delle masse. La concezione leniniana del partito, col suo “centralismo organizzativo”, è caratterizzata dallo “spirito sterile del guardiano notturno” e dunque nel modo stesso di concepire il partito può annidarsi il germe di una futura involuzione autoritaria dello Stato sovietico: “I passi falsi che compie un reale movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del migliore ‘comitato centrale’ “.[11] Non ci sono dunque per Rosa ricette infallibili rivoluzionarie preparate da dittatori, comitati centrali, decreti e istanze di partito. Come ella scrive anche nella Juniusbroschüre (1916): “Le rivoluzioni non vengono ‘fatte’ e grandi movimenti popolari non vengono inscenati con ricette tecniche tratte pronte dalle istanze di partito” (SC, 495). Nella visione politica dello Spartakusprogramm da lei redatto (1918) non vi è alcuna utilizzazione o manipolazione strumentale delle masse, ma sempre in primo piano il loro protagonismo, il loro auto-governo e la loro auto-organizzazione.

Condividiamo perciò il giudizio fornito nel 1963 da Hannah Arendt su Die russische Revolution: “La sua critica della ‘teoria leninista-trotzkista della dittatura’ non ha perso nulla della sua pertinenza e della sua attualità. Senza dubbio la Luxemburg non poteva prevedere gli orrori del regime totalitario staliniano, ma le sue parole profetiche di ammonimento contro la soppressione della libertà politica, e con essa della vita politica, suonano oggi come una realistica descrizione dell’Unione Sovietica”.[12]

Secondo Rosa, il programma rivoluzionario fornisce certamente alcune valide indicazioni generali, segnalanti la direzione da seguire, ma poi la realizzazione pratica del socialismo non può essere astrattamente predeterminata anticipatamente ed è anzi “una faccenda completamente immersa nelle nebbie del futuro” (cfr. SC, 599-600).

 

  1. Socialismo libertario, bolscevismo e stalinismo

 

Nessun partito può predeterminare e ingabbiare il futuro: “Il sistema sociale socialista sarà e può solo essere un prodotto storico, nato dalla scuola stessa dell’esperienza, nell’ora della realizzazione, del divenire della storia viva, che esattamente come la natura organica, di cui in ultima analisi è parte, ha la bella abitudine di produrre continuamente assieme a una necessità sociale reale, anche il mezzo del suo soddisfacimento, contemporaneamente al compito la sua soluzione” (SC, 600). Per sua natura il socialismo non può essere “oggetto di autorizzazione” o “introdotto con ukase” e con semplici decreti da pochi intellettuali dirigenti; esso presenta sicuramente un aspetto negativo, critico-demolitorio necessario per oltrepassare la vecchia società borghese, ma poi ha bisogno dell’apporto delle concrete esperienze, della partecipazione  “senza impedimenti” e della “vita fermentante” di tutta la massa del popolo, per “aprire nuove strade”, in mezzo a “mille problemi”; ha bisogno insomma come l’aria della democrazia radicale, della “democrazia della vita quotidiana” (come la chiamerà in seguito Lukács),[13] intesa come “viva fonte di ogni spirituale ricchezza e progresso” (cfr. SC, 600).

Se viene impedito tutto ciò, se impiega dei mezzi che sono in contraddizione col raggiungimento dei fini, il socialismo si snatura e si corrompe. L’imposizione del regno del terrore, il soffocamento della vita politica nel paese, l’impedimento di elezioni popolari generali sono destinati a svuotare di senso la stessa parola d’ordine “tutto il potere ai soviet!”, dei quali non è difficile prevedere la paralisi: “Senza elezioni generali, libertà di stampa e di riunione illimitata, libera lotta d’opinione in ogni pubblica istituzione, la vita si spegne, diventa apparente e in essa l’unico elemento attivo rimane la burocrazia” (SC, 601); in tal modo, si rafforzano ristretti gruppi di potere, si radicano privilegi, si alimentano il conformismo, l’obbedienza servile ai capi e alle cricche, vengono meno l’ “idealismo rivoluzionario”, l’ “illimitata libertà politica”, l’intenso attivismo sociale delle masse (cfr. SC, 603); insomma, cresce la degenerazione burocratica, sorge un nuovo regime repressivo, la dittatura sul proletariato e su tutta la società, ma non la “dittatura del proletariato” di marxiana memoria, che nel disegno del fondatore doveva avere un carattere provvisorio ed essere costituita dal potere della stragrande maggioranza della società a difesa della rivoluzione contro la reazione borghese, nella fase di transizione dal capitalismo al socialismo.

Su questo punto i bersagli polemici di Rosa sono due: da un lato la teoria leninista-trockijsta della “dittatura proletaria”, che finisce in realtà col trasformarsi nella “dittatura di un pugno di persone”; dall’altro l’opzione di Kautsky per la democrazia borghese, da lui posta in alternativa al sovvertimento socialista. Questi poli contrapposti rappresentano un falso aut-aut e sono accomunati dallo stesso allontanamento da un’autentica politica socialista. La marxiana “dittatura del proletariato” prevede certamente l’azione più energica e inflessibile, l’adozione di misure socialiste “senza riguardi”, non può non usare anche la forza, ma dev’essere “la dittatura della classe, non di un partito o di una cricca, (…) col concorso della più vasta pubblicità, con la più attiva e libera partecipazione delle masse popolari, in regime di democrazia illimitata” (SC, 604).

Per quanto riguarda poi la “democrazia borghese”, essa prevede eguaglianza e libertà formali, che nascondono diseguaglianze reali e asservimento sociale; tale formalismo è come un guscio vuoto, che va riempito di contenuti sociali; non si tratta dunque di rigettare la “democrazia borghese”, il “guscio vuoto” in quanto tale o di “abolire ogni democrazia”, ma di non accontentarsi del mero “guscio vuoto” e di costruire una democrazia socialista (cfr. SC, 603-605). Questa è per Rosa la vera via socialista, questa è la vera alternativa sia al kautskysmo sia al boscevismo. Ella ora critica le posizioni di Kautsky, col quale era stata in precedenza alleata nel corso del Bernstein-Debatte, perché esse riconducono il socialismo in un mero ambito liberale-borghese e indulgono a un determinismo influenzato dalla concezione evoluzionistica del processo di civilizzazione.

Come scrive Tito Perlini: “La Luxemburg rimprovera ai teorici e ai politici del ‘centro’ kautskyano un ottimismo che le sembra destinato a tradursi, sul piano politico, in imbelle rassegnazione, nell’accettazione, cioè, di un ruolo subordinato del movimento operaio nei confronti del potere capitalistico. Il fatalismo cui questi teorici s’inducono è imbevuto di ottimismo, si basa ancora sulla mitologia positivistica del progresso rettilineo; è fiducia nel corso oggettivo delle cose, che si vede, in ogni caso, volto verso il meglio. (…) Il determinismo produce un atteggiamento fatalistico in cui si snerba l’impulso rivoluzionario. Il fatalismo esclude da sé ogni ricorso alla soggettività, reputando, nello stolido ottimismo che lo contraddistingue, che di questa non ci sia bisogno, poiché le cose, già per conto proprio, sarebbero indirizzate verso il meglio (bastando, pertanto, assecondarne il corso)”.[14]

Solo la leva della soggettività rivoluzionaria, solo l’intervento decisivo di un proletariato cosciente e combattivo può invece garantire un nuovo corso della storia. Così riassume ancora Perlini il pensiero di Rosa: “Il capitale è senza futuro; il suo sbocco è la catastrofe. Solo il riemergere della soggettività repressa, cioè il costituirsi del proletariato, in termini di coscienza di classe esplicante il proprio potenziale eversivo in una prassi politica finalisticamente orientata, come negazione totale del capitale e delle sue prospettive rovinose, può restituire all’umanità il futuro che le spetta, il suo futuro, impedito ad insorgere dal capitale medesimo, l’avvenire catastrofico del quale ne rappresenta l’alienazione”.[15]

Quando scrive Die russische Revolution. Eine kritische Würdigung, l’autrice non dispera ancora che i bolscevichi sappiano rimediare ai loro errori e riprendere il buon cammino rivoluzionario nell’interesse dell’umanità planetaria. Come è possibile pervenire a una nuova società caratterizzata dalla fraternità e dalla democrazia radicale, dalla realizzazione dell’eguaglianza e della libertà? Il bolscevismo ha posto il problema, ma non lo ha risolto: a questo livello si pone il decisivo contributo specifico del pensiero politico luxemburghiano.

Il suo atteggiamento è ispirato dalla fraternità e dalla solidarietà rivoluzionaria, non v’è in lei alcuna alterigia, anzi è esplicito il riconoscimento del fatto che, nelle durissime condizioni storiche allora date in Russia, non si possono pretendere in alcun modo miracoli. Dopo le critiche dure mosse ai bolscevichi, ella sottolinea ancora il loro enorme “merito storico”, il “deciso atteggiamento rivoluzionario, la loro esemplare energia e la loro scrupolosa fedeltà al socialismo internazionale”, ma non può fare a meno, nel contempo, di evidenziare i pericoli di involuzione autoritaria legati a una concezione del socialismo e della rivoluzione che si va consolidando nel nuovo stato (cfr. SC, 605-607).

L’incomparabile “merito storico” di Lenin, Trockij e compagni consiste nell’aver riproposto all’ordine del giorno il problema della rivoluzione sociale dopo decenni in cui la prassi concreta della socialdemocrazia tedesca e, sulla sua scia, della Seconda Internazionale dei lavoratori avevano fatto del socialismo un “innocuo slogan elettoralistico pertinente al sol dell’avvenire”. Risvegliando la coscienza della antitesi di classe tra capitale e lavoro, “la rivoluzione russa ha destato in tutte le classi possidenti del mondo un sentimento ardente, rabbioso, vibrante, misto di timore e odio, contro il minaccioso spettro della dittatura proletaria, quale può essere commisurato solo coi sentimenti della borghesia parigina durante i massacri di giugno e il macello della Comune” (cfr. SC, 612-613).

Il “bolscevismo” è diventato così il riferimento essenziale del proletariato e del socialismo rivoluzionario internazionale. Al di là dei suoi errori e delle sue mancanze, è questo l’indubbio merito storico del bolscevismo, sottolinea Luxemburg a circa un anno dall’inizio della “rivoluzione d’ottobre”. E’ evidente la sua forte speranza in una piena ripresa del genuino spirito socialista della rivoluzione russa. E non a caso, verso la fine di questo scritto steso febbrilmente e incompiuto che è Die russische Revolution, ella si scaglia ancora una volta con forza contro i “deliri nazionalistici” e contro lo schieramento internazionale della controrivoluzione borghese, rivolti a reprimere duramente il proprio nemico mortale, il proletariato rivoluzionario e la Russia bolscevica, “lo spettro gigantesco della rivoluzione sociale mondiale”. Ma il socialismo è una “necessità storica” e la rivoluzione mondiale è ai suoi occhi inevitabile; le maggiori difficoltà risiedono nella immaturità del proletariato stesso e, soprattutto, dei suoi dirigenti politici (cfr. SC, 614-616).

Come ripagherà lo stalinismo le analisi lucide, stimolanti e dense contenute in Die russische Revolution? Già nel 1925, a pochi anni dalla morte della rivoluzionaria polacco-tedesca, il “marxismo-leninismo” dell’epoca, come dottrina ufficiale della Terza Internazionale, nel promuovere la “bolscevizzazione” dei partiti dell’Internazionale, indicava tra i maggiori “errori teorici” diffusi tra i comunisti quelli del “luxemburghismo” e dei marxisti olandesi come Gorter e Pannokoek. Secondo il terzinternazionalismo, gli “errori” concernevano in particolare la questione del rapporto tra “spontaneità” e “coscienza”, tra “organizzazione” e “masse” e l’ “incomprensione” del ruolo dirigente del partito nel processo rivoluzionario. Avviando il tempo delle scomuniche e pur rendendo omaggio formale all’opera della “grande rivoluzionaria”, il Komintern considerava il “luxemburghismo” una deviazione dal “marxismo-leninismo”, inteso come unica bussola dei partiti comunisti del mondo intero (cfr. La Terza Internazionale e Rosa Luxemburg, SC, 741-744).

Lo stesso György Lukács, nel saggio Kritische Bemerkungen zu Rosa Luxemburgs ‘Kritik der russischen Revolution’ (apparso nel 1922 su “Die Internationale” e poi ripubblicato in Geschichte und Klassenbewuβtsein, 1923), segue – sia pure in un modo più argomentato e sottile – la linea di lettura leninista del luxemburghismo inaugurata dalla Terza Internazionale (fondata nel marzo 1919 su diretta ispirazione bolscevica) e ritiene la nostra rivoluzionaria responsabile di una errata sottovalutazione del ruolo del partito nel processo rivoluzionario.[16]

Per gli stalinisti e i neo-stalinisti, nell’intero corso del XX secolo, il “luxemburghismo” e in generale ogni richiamo all’opera e al pensiero di Rosa Luxemburg divennero sinonimo di spontaneismo, movimentismo, revisionismo e “deviazionismo piccolo-borgese”, rifiuto del ruolo del partito e dell’organizazione. Niente di più sbagliato e falso, per una donna come Rosa che per decenni lavorò come dirigente di partito, visse e operò credendo nella forza organizzata delle masse. L’insistenza luxemburghiana sul movimento delle masse, sull’autogoverno e sulla democrazia radicale non fa mai venir meno in alcun modo il ruolo più che mai necessario di direzione e orientamento politico, di progetto e di indirizzo politico del partito.

Malgrado le numerose e aspre critiche, gli “errori” riscontrati nella sua opera, due anni prima della sua morte Lenin considerò prezioso il ricordo dell’ “aquila” Rosa Luxemburg, auspicò la pubblicazione delle sue opere complete e apprezzò come “utilissima” la sua lezione per l’educazione del movimento operaio nel mondo intero. Non così, invece, Stalin, che nel 1931, in una lettera minacciosa alla redazione della rivista “Proletarskaia Revolutsia” su Alcuni problemi della storia del bolscevismo, condannò duramente “lo schema utopistico e semimenscevico della rivoluzione permanente” della Luxemburg (oltre che dell’intera sinistra socialdemocratica), rinnegò completamente il suo patrimonio teorico-politico, pronunciò un verdetto che per più di vent’anni mise fine alla pubblicazione dei suoi scritti e alle ricerche sulla sua opera nell’Urss post-rivoluzionaria.[17]

 

  1. Rosa Luxemburg e i moti rivoluzionari in Germania del 1918-1919

 

Gli ultimi mesi della vita di Rosa Luxemburg coincidono per lei e per i suoi compagni con i convulsi tentativi di avviare un processo rivoluzionario in Germania dopo la sconfitta bellica. Già nel febbraio 1914 Rosa era stata condannata a un anno di carcere (con sospensione della pena per le sue condizioni di salute) per aver invitato i soldati tedeschi – in un discorso tenuto nel settembre 1913 presso Frankfurt am Main – a rifiutarsi di combattere in una guerra contro la Francia. Successivamente fu tenuta in carcere (fatta eccezione per il periodo tra il febbraio e il luglio 1916) dal febbraio 1915 al novembre 1918. Liberata, tenta di spingere verso una radicalizzazione delle posizioni del Partito socialdemocratico indipendente – formatosi nel 1917, durante la guerra, rivendicando un pacifismo destinato a essere sostanzialmente impotente -, partito a cui avevano aderito anche Kautsky, Bernstein, Haase e Kurt Eisner. Ma, a metà dicembre 1918, la situazione precipita: la Conferenza nazionale dei consigli degli operai e dei soldati, controllata dalla socialdemocrazia di maggioranza, riconferma la propria fiducia nel governo Ebert-Scheidemann; la socialdemocrazia ufficiale rafforza i propri legami con lo Stato Maggiore e prepara la repressione degli estremisti; gli Indipendenti escono dal governo e gli spartachisti fondano, assieme ai “radicali di sinistra” (Linksradikalen), il Partito comunista tedesco (30-31 dicembre 1918). Nel congresso di fondazione del nuovo partito prevalgono le spinte estremiste e anarcoidi, viene respinta la proposta della direzione di partecipare alle imminenti elezioni; ai primi di gennaio 1919 aumentano le proteste di piazza.

Nell’appello An die Proletarier aller Länder (Ai proletari di tutti i paesi, cfr. SC, 617-627), scritto da Rosa, apparso su “Die rote Fahne” il 25 novembre 1918 e firmato a nome dello Spartakusbund anche da Karl Liebknecht, Franz Mehring e Klara Zetkin, quando sembra giunta l’ora decisiva della rivoluzione tedesca, ella ritiene fondamentale il ruolo dei consigli degli operai (Arbeiterräte) e dei soldati (Soldatenräte), a cui va dato tutto il potere politico e spera nell’adesione entusiastica delle masse alla sollevazione rivoluzionaria per “ridare aspetto umano al mondo deturpato” (SC, 627). Pane e lavoro, pace e cultura, eguaglianza e benessere, giustizia e libertà possono essere conseguiti solo grazie alla solidarietà fraterna dei popoli e sotto le bandiere del socialismo internazionale, in nome di una democrazia radicale, avente come scopo l’attuazione più concreta e forte possibile del potere del popolo.

L’appello ai proletari di tutti i paesi muove dalla consapevolezza che soltanto la solidarietà del proletariato internazionale potrà evitare il soffocamento della rivoluzione proletaria in Germania e in Russia e potrà porre una radicale alternativa di civiltà: la via è quella dell’assunzione del potere politico da parte dei consigli dei lavoratori e dei soldati. Come leggiamo nell’articolo Nationalversammlung oder Räteregierung? (Assemblea nazionale o governo dei consigli?, pubblicato in “Die rote Fahne” il 17 dicembre 1918, cfr. SC, 629-641), le parole d’ordine della rivoluzione francese del 1789 – liberté, égalité, fraternité – vanno riprese e realizzate attraverso l’abolizione del dominio di classe borghese. Nell’ora dell’azione rivoluzionaria l’alternativa è secca: Sozialismus oder Barbarei, socialismo o barbarie, salvezza o rovina della civiltà. La necessità storica del socialismo si spiega in base alla radicalità e alla ineludibilità di questo aut-aut che mette in questione la salvezza stessa della civiltà umana planetaria. Per la nostra rivoluzionaria, il socialismo non è un’utopia astratta né un ideale nebuloso, ma diventa una necessità storica in quanto, per la sua realizzazione, vi sono dei presupposti materiali nello sviluppo capitalistico, nei rapporti economici della società capitalistica.

Negli anni successivi al 1907 – anno in cui cominciò a insegnare economia nella scuola del partito socialdemocratico a Berlino -, Rosa Luxemburg iniziò pure a comporre un’opera, Einführung in die Nationalökonomie (Introduzione all’economia politica),[18] a cui lavorò sino all’ultimo, ma che rimarrà incompiuta, pubblicata postuma da Paul Levi nel 1925. Notevole soprattutto per alcuni squarci di storia economica (ad esempio sulla urkommunistische Gesellschaft), l’opera voleva essere una sorta di “volgarizzazione della dottrina economica marxiana”, una populäre Einführung in die Nationalökonomie, secondo quanto l’autrice stessa scrive in una lettera a Franz Mehring il 2 agosto 1912.

Come già in Die Akkumulation des Kapitals. Ein Beitrag zur ökonomischen Erklärung des Imperialismus (1912), anche nella Einführung in die Nationalökonomie l’autrice sottolinea la spinta del sistema di produzione capitalistico a estendersi su tutta la terra, formando un’unica grande economia capitalistica mondiale e portando con sé guerre coloniali, distruzione di popoli interi o il loro assoggettamento, l’immiserimento di vasti settori dell’umanità planetaria, proletarizzazione, nuove forme di schiavitù, degenerazione fisica e spirituale. Tutto ciò per il dominio del capitale e per il suo accumulo in poche mani: “diventano legge su tutta la superficie della terra la produzione non per amore degli uomini ma del profitto, e regola il sottoconsumo, la costante incertezza del consumo e, periodicamente, il diretto non-consumo dell’enorme maggioranza degli uomini” (Introduzione all’economia politica, SC, 421. Cfr. anche SC, 417-420). Per Rosa il capitalismo è destinato ad essere spazzato via per l’acutizzazione delle sue contraddizioni, la principale delle quali consiste nel suo tendere a porsi come forma economica mondiale senza poter soddisfare universalmente i bisogni di vita dell’umanità lavoratrice. La “impossibilità del capitalismo” e la necessità storica del socialismo, l’aut-aut tra socialismo e barbarie si spiegano a suo avviso proprio in base a questa situazione mondiale.

Nel 1979 Rina Gagliardi ha colto una “dimensione profetica” di questo aut-aut, che oggi assume anche una decisiva valenza ecologica, in riferimento pure alla devastazione ambientale prodotta dallo sviluppo capitalistico: “in Rosa Luxemburg esiste una dimensione ‘profetica’, di cui sarebbe sciocco, per chiunque, liberarsi. Non solo alcune delle sue riscoperte teoriche – il protagonismo della rivoluzione come processo sociale, rivoluzionamento profondo di tutti i rapporti sociali, il ruolo dei consigli, la centralità del movimento di massa piuttosto che del partito -, ma alcune delle sue previsioni. Ne cito solo una delle più note: la tendenza alla barbarie del sistema capitalistico. Nessun pensatore marxista è stato capace, come la Luxemburg, di indicare questo corrompimento della civiltà, questo vero e proprio inquinamento della vita sociale e dei rapporti tra le persone, in una fase storica dominata dall’ideologia del progresso. Per questo, e non come comunemente si dice, per ‘determinismo meccanicistico’, Rosa Luxemburg amerà ripetere spesso il motto O socialismo o barbarie“.[19]

Rispetto al programma della socialdemocrazia ufficiale tedesca, la Rede zum Programm (cui collaborò Paul Levi) pronunciata da Rosa due settimane prima del suo arresto e assassinio al congresso di fondazione della Kommunistische Partei Deutschlands (Spartakusbund) è da considerarsi una sorta di testamento politico e spirituale evidenziante le grandi linee generali che guidavano gli spartachisti. Nel fare ciò ella ritiene che la rivoluzione tedesca in atto, grazie alla “legge prepotente della necessità storica”, da un lato possa giungere vittoriosa alla meta nonostante tutte le enormi “difficoltà, gli imbrogli e i veri e propri misfatti”; dall’altro, però, si rende conto perfettamente dell’inadeguatezza della prassi rivoluzionaria finora messa in campo, delle “illusioni”, degli errori e dell’immaturità, dei “primi passi infantili della rivoluzione, la quale ha ancora uno sforzo immenso da compiere e un lungo cammino da percorrere per svilupparsi fino alla piena realizzazione delle sue prime parole d’ordine”.[20]

Nel prevedere un inasprimento della lotta di classe e del conflitto tra Revolution e Gegenrevolution in Germania, Rosa sottolinea ancora una volta che il socialismo non può essere costruito semplicemente mediante decreti, da un partito o da un governo, non è un processo soltanto politico; esso ha piuttosto come sua caratteristica essenziale il protagonismo delle masse, di ciascun individuo e proletario e la conquista del potere politico non innanzitutto dall’alto, ma dal basso: solo questo è socialismo e solo in questo modo vi si può giungere (cfr. PRS, 48-49, 60). Perciò la conquista del potere non si realizza d’un colpo, non basta sostituire un governo filocapitalista con un governo composto da elementi socialisti, occorre mobilitare per la lotta più ampi settori della società, eliminare ad esempio il contrasto/separazione tra città e campagna (cfr. PRS, 56-57), prepararsi dunque ad una lotta di lunga durata.

Luxemburg conclude il suo discorso sul programma spartachista riconoscendo che, anche là dove esistono i consigli dei lavoratori e dei soldati, nelle masse mancano spesso – fatta eccezione per piccole minoranze di proletari aventi una forte coscienza rivoluzionaria – la coscienza dei loro compiti, la maturità politica per proseguire il processo rivoluzionario; vi è dunque un’insufficiente educazione socialista dei proletari, che non si consegue – come vorrebbe la scuola dei Kautsky – attraverso semplici discorsi e la diffusione di opuscoli, ma essenzialmente attraverso l’azione quotidiana nel fuoco della lotta in tutto il Reich (cfr. PRS, 58-59).

 

  1. Socialismo e bisogno di verità

 

Nel discorso sul programma è notevole l’idea di socialismo e di rivoluzione che emerge in piena luce, sia pure a grandi linee. E’ una concezione della rivoluzione integrale, insieme economica, politica, sociale, etico-antropologica, culturale, avente un carattere di massa, non solo verticistico, pena la degenerazione e il fallimento della rivoluzione stessa. Per costruire il socialismo non basta operare una rivoluzione soltanto politica, rovesciare il potere ufficiale e sostituirlo con gruppi ristretti di politici, anche di “rivoluzionari di professione” (secondo la celebre formulazione del Lenin del Che fare?, 1902). Una delle lezioni che si ricavano già da un opuscolo del 1906, Massenstreik, Partei und Gewerkschaften (Sciopero di massa, partito e sindacati), consiste nella chiara consapevolezza che le rivoluzioni non si lasciano ammaestrare dall’esterno: “Ma è gran tempo che la massa operaia socialdemocratica impari a mostrare la sua capacità di giudizio e di azione e con ciò a far risaltare la propria maturità per quei tempi di grandi lotte e grandi compiti in cui essa, la massa, dev’essere il coro che agisce, ma le direzioni soltanto le ‘persone che parlano’, cioè gli interpreti della volontà della massa”.[21]

Anche in una lettera del 5 febbraio 1906 a Karl e a Luise Kautsky, Rosa insiste molto sul senso di solidarietà e di fratellanza, sull’esigenza di auto-organizzazione e di auto-governo tra i lavoratori.[22]

Il socialismo si costruisce dal basso, non a partire dalla “massa informe e caotica”, ma dalla partecipazione cosciente, libera e attiva delle masse e di ciascun individuo alla vita della società; non è innanzitutto il frutto di un’ideologia politica, non può essere conseguito da un partito-stato che monopolizza il potere; altrimenti esso non si costruisce e si dà l’avvio soltanto a un nuovo regime oppressivo, a un terribile e mistificatorio sistema di potere (come avverrà poi con lo stalinismo). L’avvertimento è profetico. Anche in quest’ultimo discorso l’ansia di Rosa Luxemburg è un’ansia di verità. Non possiamo così stupirci del fatto che, verso la fine della Rede zum Programm, nel mezzo di un infuocato discorso politico, compaia un riferimento filosofico essenziale a “un classico dello spirito germanico”, Gotthold Ephraim Lessing, alla sua piena fiducia nella forza della verità, al suo genuino e profondo amore per la verità.[23]

Anche alla rivoluzione, infatti, sono dannose le illusioni ed è essenziale il richiamo alla “chiara, aperta verità” (cfr. PRS, 45). Il processo rivoluzionario, inteso come processo di presa del potere dal basso, non può non essere un processo lungo e irto di difficoltà che non vanno nascoste e non ammettono scorciatoie, è un processo più lungo di quanto pensino tanti compagni. Al congresso di fondazione della KPD, Rosa Luxemburg invitò vanamente – approvando la posizione di Paul Levi e cercando di arginare le spinte estremiste ed anarcoidi, putschiste e insurrezionaliste prevalenti tra i congressisti – a votare a favore della partecipazione alle imminenti elezioni per l’Assemblea costituente. Il suo voleva essere un richiamo a unire ardore della lotta e lucidità/freddezza razionale. Constatata “l’immaturità delle masse” cui spetterebbe il compito di abbattere l’Assemblea nazionale, si tratta infatti per lei di rendersi conto del velleitarismo delle posizioni più estremiste e radicali e di partecipare quindi alle elezioni scegliendo “una via più lunga” (cfr. SC, 647-648). La proposta venne però bocciata. In Luxemburg troviamo tanto idealismo e utopismo rivoluzionari, ma non certo insurrezionalismo minoritario, estremismo velleitario e anarcoide.

Nell’ultimo articolo di Rosa, Die Ordnung herrscht in Berlin (L’ordine regna a Berlino, “Die rte Fahne”, 14 gennaio 1919, SC, 663-682), non a caso il suo pensiero ritorna alle numerose sconfitte storiche di cui è disseminata la strada del socialismo e, in particolare, al massacro dei comunardi che pose fine alla gloriosa esperienza della Comune di Parigi (cfr. SC, 676, 680), nella convinzione che la rivoluzione proceda comunque verso le sue grandi mete. Come punto debole della situazione rivoluzionaria del momento, Rosa constata ancora una volta “die politische Unreife der Soldatenmasse” (“l’immaturità politica dei soldati”) che continuano ad obbedire ai loro ufficiali controrivoluzionari, sottolineando che tale immaturità “è solo un sintomo della generale immaturità della rivoluzione tedesca (die allgemeine Unreife der deutschen Revolution)”, in cui la popolazione delle campagne non si è mossa, Berlino sconta il suo isolamento dal Reich e manca una radicalizzazione delle lotte sul piano economico; insomma, vi sono delle “insufficienze politiche della rivoluzione (politische Unfertigkeiten der Revolution)”, compresi errori, incertezze, divisioni, lacune a livello organizzativo e direzionale (cfr. SC, 677-678).

Ma, nonostante l’immaturità della situazione data, le sconfitte e il carattere incompiuto della rivoluzione tedesca, quest’ultima si affermerà comunque mit der Fatalität eines Naturgesetzes (con la fatalità di una legge di natura) se poggerà sulla forza delle masse intese come das Entscheidende (il fattore decisivo), der Fels (la roccia). In tal modo Rosa Luxemburg conclude Die Ordnung herrscht in Berlin citando un verso della poesia Die Revolution (1851) del poeta tedesco (e collaboratore di Marx alla redazione della “Neue Rheinische Zeitung”) Ferdinand Freiligrath (1810-1876), che a sua volta riprende l’Apocalisse di Giovanni (Ap,1,8): “Ich war, ich bin, ich werde sein! (“Io ero, io sono, io sarò!”. Cfr. SC, 679-682).

Poche ore dopo la pubblicazione di quest’ultimo articolo, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht vennero arrestati la sera del 15 gennaio 1919, condotti all’Hotel Eden (sede temporanea dello stato maggiore di una delle divisioni paramilitari operante nel centro di Berlino), interrogati, insultati e picchiati, poi caricati in macchina e barbaramente assassinati da una squadraccia dei Freikorps, una formazione di volontari composta da soldati e ufficiali sorta alla fine del 1918 per stroncare con ogni mezzo la rivoluzione. Il cadavere di Rosa fu gettato nel Landwehrkanal, dove venne ritrovato il 31 maggio. Il nazismo in Germania era così, di fatto, ai suoi inizi. I giornali governativi annunceranno la morte dei due rivoluzionari motivando la loro uccisione con un tentativo di fuga durante il trasporto verso il carcere civile di Moabit. Il monumento funebre eretto in onore di Rosa Luxemburg dall’architetto Mies van den Rohe verrà fatto distruggere da Hitler. Il pensiero e l’opera di Rosa continuano a vivere nei cuori e nelle coscienze di tutti coloro che tendono a un mondo più giusto e solidale, libero e fraterno.

 

  1. La pienezza e interezza umana della personalità di Rosa Luxemburg

 

Il cospicuo epistolario di Rosa Luxemburg – al quale qui possiamo fare solo qualche rapido riferimento – ci consente di comprendere molto bene e di apprezzare la ricchezza, la plenitudo, la pienezza e interezza della sua personalità, non riducibile al mero aspetto politico-rivoluzionario. Nelle sue lettere emerge infatti pienamente non soltanto la straordinaria passione politico-rivoluzionaria, ma anche la donna coi suoi sentimenti e affetti, il suo bisogno di dare e ricevere amore, la valorizzazione dell’amicizia, il vivo senso della bellezza, l’amore per la vita e per la cultura, la tensione a un rapporto più armonico con la natura e con gli altri animali.

Rosa fu legata sentimentalmente ad un suo compagno di militanza politica, Leo Jogisches (“Dziodzio”, come affettuosamente lo chiamava in privato e nelle lettere), per un lungo periodo, dal 1892 al 1907; dopo la fine della loro storia, negli ultimi anni della sua breve esistenza mantenne con lui solo rapporti politici e visse altri due rapporti sentimentali importanti, con Kostia Zetkin (figlio di Klara Zetkin, Kostia fu suo amante per alcuni anni) e con Hans Diefenbach (che morì in guerra nell’ottobre 1917).

La storia sentimentale con Leo Jogisches fu intensa e travagliata; nelle lettere tra loro spesso troviamo una Rosa innamorata, dolce, appassionata, entusiasta che desidererebbe un trasporto e un calore maggiori dall’uomo amato, dedito con grande rigore alla causa rivoluzionaria (morirà anch’egli trucidato, nel marzo 1919, nel corso dei moti rivoluzionari tedeschi, in un presunto tentativo di fuga), ma un po’ freddo e bloccato dal punto di vista sentimentale, tanto che ella gli rimprovera spesso l’anaffettività e gli scrive, ad esempio, il 21 marzo 1895 da Parigi: “Davvero talvolta mi pare che tu sia un pezzo di legno”.[24]

Nelle lettere a Leo è notevole la volontà fortissima di felicità amorosa, unita alla consapevolezza lucida delle enormi difficoltà, anzi dell’impossibilità di questa felicità: “Nonostante tutto ciò che mi hai detto prima che partissi, io continuo il solito ritornello che voglio essere felice. E’ vero, ho una voglia maledetta di essere felice e sono pronta giorno dopo giorno a combattere per la mia ‘dose di felicità’ con l’ostinazione di un mulo. Ma queste sono le ultime scintille, questa voglia diventa sempre più debole di fronte all’impossibilità, chiara come il sole, o piuttosto buia come la notte, di essere felice. ‘Non c’è felicità senza gioia’, ma forse la vita, cioè la nostra relazione (per me le due cose si identificano, vous savez: les femmes), è ‘qualche cosa di cupo’, comincio a capire che la vita può ‘acchiappare e non mollare’ e che non c’è niente da fare. Comincio infatti ad abituarmi al pensiero che per me esiste solo una cosa – le elezioni, e quello che succederà dopo le elezioni” (da Berlino, 17 maggio 1898, LJ, 75).

In una lettera a Leo del 9 giugno 1898 dalla polacca Krolewska Huta, impegnata nel lavoro politico a distribuire volantini e schede elettorali, Rosa gli manifesta tutta la sua esuberanza vitale per le persone, le cose, la natura: “Il paesaggio mi ha colpito più di tutto il resto: i campi di segala, i prati, i boschi, le distese infinite, la lingua polacca e i contadini polacchi. Non puoi immaginare come tutto questo mi renda felice. Mi sento come rinata, come se avessi ritrovato la terra sotto i piedi. Non sono mai sazia delle loro parole, del sapore dell’aria di qui! Ieri ho dovuto aspettare un’oretta il treno per tornare a Legnica. Quanto ho girato là nel grano e quanti fiori ho raccolto. Per la felicità mi mancava soltanto una cosa, e più precisamente ‘una persona’. (…) E i nostri contadini miseri, sporchi, ma che bella razza! (…) Dico che per essere felice mi manchi solo tu, però questo ‘solo’ è abbastanza grande” (LJ, 94).

Nella Prefazione all’edizione italiana delle Lettere a Leo Jogisches, Lelio Basso rileva giustamente, istituendo un raffronto tra le figure di Rosa Luxemburg e di Ernesto ‘Che’ Guevara: “Al fondo della personalità di Rosa Luxemburg, al fondo anche del suo intransigente impegno rivoluzionario, c’è un bisogno infinito di amare, di amare la vita e di amarla in tutte le sue creature. Nonostante tutte le esegesi ‘scientifiche’, credo che alla radice di molte scelte rivoluzionarie, anche dei più grandi rivoluzionari, al fondo di tante ribellioni giovanili che poi influenzano tutta una vita, ci sia un sentimento di profonda rivolta contro le sofferenze, le iniquità, la miseria, e un sentimento di amore per chi ne è la vittima. (…) L’amore di Rosa Luxemburg è della stessa natura, e da questo amore trae origine il suo socialismo, e trae origine anche la sua immensa capacità di combattere, di soffrire, di sacrificarsi, ma anche, se necessario, di odiare coloro che impediscono all’amore di realizzarsi. (…) Quest’amore immenso per gli uomini, per la natura, per la vita, nelle sue molteplici manifestazioni, così come le darà una forza straordinaria per sopportare le condizioni più avverse, le dà in pari tempo un grande desiderio di gioire, di godere in pienezza di gioia le ricchezze della vita, di ristabilire sempre un equilibrio fra sé e l’ambiente di vita, fra il mondo interno e il mondo esterno” (LJ, 9-11).

La lotta rivoluzionaria e l’impegno politico sono una lotta per il senso e la dignità della vita, per il riscatto della vita offesa e umiliata. Una nuova società socialista non ha senso senza la fratellanza universale dei lavoratori, di tutti gli oppressi e sfruttati, come Luxemburg scrive in un opuscolo clandestino dello Spartakusbund risalente all’aprile 1916, Entweder-Oder…Die Politik der sozialdemokratischen Minderheit (Aut-aut… La politica della minoranza socialdemocratica): la “fratellanza universale degli operai è ciò che vi è di più sacro e di più elevato sulla terra”. Commenta tutto ciò correttamente e acutamente Lelio Basso: “L’uomo, insomma, per Rosa come per Marx, è al centro di tutto, e il socialismo non è un problema di produzione o di elettrificazione, ma di liberazione dell’uomo (…) è la conquista di ogni giorno e, al tempo stesso, la creazione di una nuova vita interiore e di nuovi rapporti: certo, anche rapporti economici di produzione, ma altresì rapporti politici di autogoverno e, soprattutto, rapporti umani di responsabilizzazione, di fratellanza e di amore”.[25]

Come potere del popolo, il socialismo per Rosa è la realizzazione della democrazia radicale e piena, non a caso anche nello Spartakusprogramm risuona sovente il termine Volk, insieme ai più scontati Arbeiterklasse e Proletariat. E’ difficile dunque sottovalutare la fondamentale portata etico-antropologica del socialismo e dello strenuo impegno politico di Rosa Luxemburg.

Alla luce di tutto ciò non possiamo certo stupirci del fatto che, in una lettera del 24 novembre 1917 dal carcere di Breslavia a Sonja Liebknecht, ella condivida con l’amica “l’innamoramento dell’amore”: “Oh, come la capisco bene, quando ogni melodia, ogni fiore, ogni giorno di primavera, ogni notte di luna è per lei una nostalgia e una lusinga delle cose più belle che il mondo ha da offrire. E come capisco che sia innamorata ‘dell’amore’! Anche per me l’amore in sé era (o è?…) sempre più importante e più sacro dell’oggetto che lo ispira. E invero perché l’amore permette di vedere il mondo come una splendida favola, perché suscita nell’uomo le virtù più nobili e più belle, perché eleva le cose più ordinarie e insignificanti e le incastona in brillanti e perché permette di vivere nell’ebbrezza, nell’estasi…” (LR, 246).

Su questa nota dominante dell’amore, in una lettera del 10 febbraio 1917 Rosa ricorda a sé stessa e a “Märtchen”, ossia all’amica Marta Rosenbaum, militante del movimento delle donne socialdemocratiche, il valore della bontà: “Non bisogna mai dimenticare di essere buoni, perché la bontà è più importante della severità nel contatto con gli uomini. Me lo ricordi spesso, perché io tendo ad essere severa, purtroppo; naturalmente soltanto nel contatto politico. Nei rapporti personali so liberarmi della durezza e tendo generalmente a poter amare e capire tutto” (LR, 220). Anche in una lettera ad Hans Diefenbach del 5 marzo 1917 ritroviamo l’insistenza sull’importanza della bontà: “il precetto fondamentale che mi sono data per la vita: la cosa più importante è essere buoni! Puramente e semplicemente essere buoni, questo scioglie e lega tutto ed è meglio di ogni furberia e prepotenza” (LR, XXX). In una cartolina da Maderno sul Garda del dicembre 1906 a “Minna” Kautky, stridente appare il contrasto tra la bellezza ispiratrice della natura circostante e le meschinità/angustie del mondo umano: “Il tempo è sempre magnifico e mentre scrivo il sole mi arde sulla testa come in agosto. Rose, lauri, caprifogli, piante d’elitropio fioriscono in massa all’aria libera, tutt’attorno sui monti boschi di ulivi e macchie di cipressi. Il mondo è bello, solo noi siamo ‘cattivi'” (SC, 713).

Come rileva Lelio Basso, accanto alle esigenze della lotta, alla Rosa combattente tenace e inflessibile, capace di essere anche aspra, sferzante e amante della polemica, sprezzante soprattutto nei confronti dei “compagni” incoerenti e indegni, vi è sempre, “in una permanente tensione che esprime al tempo stesso la tragicità e la serenità della sua vita così come l’intima sua coerenza,[26] (…) l’essere tenero e appassionato, che partecipa alle sofferenze di ciascuno e soffre con loro, che ama perdutamente le piante, gli animali e gli uomini, e a questi sa perdonare anche le loro debolezze, che si esalta nelle piccole scene della vita, che si estasia al canto d’un uccello, o davanti a un fiore o magari a un filo d’erba” (cfr. LR, XXVIII).

Viste le sue tribolazioni politiche, comprendiamo le sue affermazioni contenute in una lettera a Sonja Liebknecht del 2 maggio 1917 da Wronke: “mi sento interiormente molto più a casa mia in un angoletto di giardino come qui o in un campo tra l’erba e i calabroni che in un congresso di partito. Certo a lei posso dire tranquillamente tutto ciò: non subodorerà subito un tradimento del socialismo. Eppure, sa, spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o nel penitenziario. Ma il mio io più intimo appartiene più alle mie cinciallegre che ai ‘compagni’. E non tanto perché io, come tanti politici intimamente falliti, trovi un rifugio, un riposo nella natura. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà da soffrirne molto” (LR, 231).

 

  1. La testimonianza di Rosa Luxemburg e la cospicua eredità del suo messaggio

 

Emblematico di questa partecipazione e celebre da questo punto di vista è l’episodio del bufalo, descritto in una lettera a Sonja Liebknecht (“Sonjuščka”) dal carcere di Breslavia, risalente alla metà di dicembre del 1917; lettera che innanzitutto manifesta il grande amore di Rosa per la vita, nonostante avverta nel contempo “tutta la desolazione e l’angustia dell’esistenza. Io giaccio tranquilla, sola, avvolta in questi molteplici veli neri dell’oscurità, della noia, della prigionia, dell’inverno, e intanto il mio cuore palpita di una gioia interiore inconcepibile, ignota, come se camminassi su un prato in fiore nella luce radiosa del sole. E nel buio sorrido alla vita, come se conoscessi un qualche segreto magico che smentisce ogni male e ogni tristezza e li trasforma in trasparente chiarezza e felicità. E intanto io stessa cerco una ragione di questa gioia, non la trovo e di nuovo devo ridere… di me stessa. Credo che il segreto non è altro che vita stessa” (LR, 249).

Nella stessa lettera a “Sonjuščka” si palesa la compassione dolorosamente sofferta di Rosa alla vista dei bufali neri, provenienti dalla Romania come “trofei di guerra” e trainanti carri dell’esercito, sfruttati senza pietà e picchiati brutalmente da un soldato che, rimproverato per la sua scriteriata violenza da una sorvegliante, si vantava di non provare compassione nemmeno per gli uomini. Nel cortile del carcere Rosa assiste impotente alla scena, ad un certo punto si ritrova vicina ad un bufalo percosso, sfinito e sanguinante, nei cui “dolci occhi neri” scorge “l’espressione come di un bambino rosso per il pianto. Era esattamente l’espressione di un bambino che è stato duramente punito e non sa perché, non sa come deve affrontare il supplizio e la bruta violenza…Come erano lontani, irraggiungibili, perduti i bei pascoli liberi e rigogliosi della Romania! Come era diverso lì lo splendore del sole, il soffio del vento, come erano diverse le belle voci degli uccelli che lì si udivano o il melodico muggito dei buoi! E qui: questa città straniera, orribile, la stalla umida, il fieno ammuffito, nauseante, misto di paglia fradicia, gli uomini estranei, terribili e le percosse, il sangue che colava dalla ferita fresca… Oh, mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, noi due stiamo qui impotenti e muti e siamo uniti solo nel dolore, nell’impotenza, nella nostalgia. Intanto i detenuti si muovevano affaccendati attorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano nella casa; il soldato, invece, con le due mani nelle tasche passeggiava a grandi passi per il cortile, rideva e fischiettava una canzonetta. E così mi passò dinanzi tutta la magnifica guerra” (cfr. LR, 250-252).

Nonostante tutto, Rosa non perse sino all’ultimo la sua serenità interiore, il coraggio e la determinazione, la sua straordinaria energia vitale.[27] Nei lunghi anni di carcere era lei ad incoraggiare senza posa i suoi interlocutori. Nell’ultimo periodo della sua vita, specialmente negli scambi epistolari con Klara Zetkin a proposito dell’allestimento di “Die rote Fahne”, Rosa insiste sull’importanza della questione femminile e del movimento delle donne. Essendo anche e soprattutto una rivoluzione culturale, antropologica ed etica, oltre che politica, economica e sociale, la rivoluzione concerne pure in modo essenziale il rapporto uomo-donna e ha bisogno più che mai dell’apporto decisivo della cultura delle donne nel cambiamento concreto della vita quotidiana.

Nella sua Einleitung alla propria traduzione tedesca di un libro di Korolenko (composta nel carcere di Breslavia nel 1918 col titolo Die Geschichte meines Zeitgenossen e pubblicata nel 1919), Rosa sottolinea l’irrinunciabile umana vocazione alla felicità, che è indisgiungibile dall’autodisciplina e dalla dedizione al lavoro ben fatto, come emerge anche dal passo di una lettera scritta da Berlino il 30 dicembre 1898 a Robert e a Mathilde Seidel: “Quanto allo spirito, mi sento molto bene quando posso lavorare bene. Il lavoro, il lavoro accurato e intenso, che richiede il massimo sforzo dei nervi e del cervello, è davvero il più grande dei piaceri che possa offrire la vita” (LR, 37).

La vocazione alla felicità anche attraverso il lavoro ben svolto cozza però contro l’alienazione universale riguardante l’umana società; alienazione che in modi diversi colpisce tutti, oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori, vittime e carnefici, poveri e ricchi, emarginati e potenti; tutti diversamente alienati, in quanto in vario modo stravolti e pervertiti nella loro umanità (cfr. SC, 535-536). Contro questa alienazione universale e facendo risaltare l’umana vocazione alla felicità è stata sempre rivolta la lotta di Rosa Luxemburg.

Caratteristiche della sua tempra, del suo modo di pensare e di vivere sono alcune lettere scritte fra il 1916 e il 1918 a Franz Mehring e a Marta Rosembaum, in cui la sua ferma convinzione (di derivazione marxiana) nell’esistenza di leggi infallibili e bronzee dello sviluppo storico, di una dialettica storica necessariamente orientata verso lo sbocco di una “via maestra” non le impedisce di riconoscere come essenziale il fattore soggettivo, l’impiego di una forte volontà, la determinazione inflessibile, la “gioia nella lotta e nel lavoro” (cfr. LR, 209, 213, 257).

Una lettera dell’aprile 1917 dal carcere di Wronke a Marta Rosenbaum si conclude con l’esortazione ad “avere pazienza con la storia”, una pazienza che si alimenta di coraggio e impiega massimamente le energie, non dimentica che “la brava talpa della storia scava senza posa giorno e notte, fino a che si fa strada verso la luce” (LR, 226).

La sua pazienza è giunta sino all’accettazione del sacrificio più oneroso e la sua stessa morte è dovuta soprattutto al fatto di voler rendere sino in fondo, a qualsiasi costo, la sua coerente testimonianza rivoluzionaria, rifiutando ogni privilegio e ogni diserzione, soprattutto rifiutando di distinguere tra la “carne da macello” dei semplici militanti rivoluzionari e i dirigenti. Rosa confidava non solo nella maturità e possibilità di successo, nel lungo periodo, della rivoluzione, ma anche nella sua inevitabilità, a partire dalla crescita e dal rafforzamento dell’autonomia e della coscienza di classe del proletariato dotato della sua visione del mondo materialistico-dialettica. Da questo punto di vista, come ha rilevato Lelio Basso, Rosa Luxemburg può essere considerata “la vera continuatrice dell’opera di Marx in Occidente” per aver sottolineato “la necessità di un intervento costante del movimento per indirizzare ogni giorno il cammino della società verso lo sbocco socialista, di un intervento cioè che facesse della lotta quotidiana un momento del lungo processo rivoluzionario”.[28]

In piena continuità con le posizioni di Marx e di Engels sul proletariato da considerare come l’erede storico della filosofia classica tedesca, Luxemburg riconosce alla “penna mirabile” di Franz Mehring il merito di avere salvato con le sue opere – nell’ambito della nuova concezione del mondo del movimento operaio – l’eredità dei grandi tesori della cultura borghese, della filosofia classica tedesca, della poesia classica, in particolare di autori come Kant, Hegel, Lessing, Schiller, Goethe (cfr. LR, 208-209). In Die Lessing-Legende. Eine Rettung (1893), ad esempio, Mehring definì un filosofo come Lessing der verwegenste Revolutionär (il più audace rivoluzionario) nell’ambito della cultura classica tedesca prima dell’età dei Börne, Heine, Marx ed Engels.[29] Due nobili rivoluzionari, colti e profondi come Franz Mehring e Rosa Luxemburg sentono il bisogno di riallacciarsi e di riprendere l’ispirazione migliore della classicità tedesca per rendere più ricca e fruttuosa la nuova cultura del movimento operaio. Nella loro visione, infatti, la rivoluzione vuole assicurare il pane e le rose, non comporta soltanto il cambiamento di segno o di colore delle strutture economiche e dei poteri politici, ma intende essere anche e soprattutto la trasformazione radicale e quotidiana della vita, del modo di pensare e di vivere degli esseri umani.

A questo proposito Tito Perlini ha osservato acutamente che nell’atteggiamento rivoluzionario di Rosa Luxemburg si rintraccia pure un aspetto importante di conservazione: “Nella Luxemburg si fondono paradossalmente le figure antitetiche del rivoluzionario integrale e del conservatore. L’impegno rivoluzionario è rivolto contro il capitale, il dominio del quale sulla società non può venir corretto, ma deve essere spezzato, pena la condanna della società stessa alla rovina. Ciò che si tratta di conservare è il patrimonio civile dell’umanità che rischia di venir compromesso irreparabilmente dalla barbarie capitalistica. E’ necessario rivoluzionare integralmente il modo di produzione e la rete di rapporti che da esso derivano per impedire che la sua logica infernale distrugga la civiltà umana. Negazione del passato non è la rivoluzione, ma ciò cui essa s’oppone. Il capitalismo mira solo a conservare sé stesso, facendo strame del passato, imprigionando il presente nella sua cecità, togliendo al futuro ogni prospettiva rispondente ai bisogni e alle esigenze degli uomini. Il capitalismo è antitetico allo sviluppo della civiltà. Rispetto ad essa è falsa conservazione destinata a rivelarsi come il proprio contrario, come distruzione. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente che fa insieme ingiuria al passato e al futuro, ma chi insorge contro tale falsa conservazione assumendo il ruolo del rivoluzionario, teso a dar luogo ad una svolta radicale della storia per impedire a questa di precipitare nell’abisso”.[30] Parole di straordinaria lucidità, queste risalenti al 1971 di Tito Perlini a commento dell’aut-aut luxemburghiano Sozialismus oder Barbarei, ancor più vere oggi, nell’epoca della devastazione ambientale del pianeta intero, in cui l’abisso che si avvicina sempre più non riguarda soltanto le modalità della convivenza umana, ma la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutti gli esseri viventi.

In Rosa non c’era alcuna separazione e frattura fra la teoria e la pratica, l’impegno scientifico e quello politico militante, perché la ricerca della verità, l’applicazione nello studio e nella scrittura, la grande sensibilità artistica e culturale, l’analisi economica e l’attività teorica erano strettamente intrecciate al problema della prassi rivoluzionaria, alla rilevanza/ineludibilità della politica, della libera e cosciente partecipazione degli individui e delle masse al potere. Anche con le opere più teoricamente impegnate come Die Akkumulation des Kapitals e Einführung in die Nationalökonomie, ella voleva dotare il movimento operaio e il marxismo di un solido impianto scientifico orientato alla più incisiva azione politica. Nel saggio Rosa Luxemburg als Marxist (apparso nel 1921 su “Kommunismus” e poi ripubblicato nel 1923 in Geschichte und Klassenbewuβtsein) Lukács riconduce l’importanza di un testo come Die Akkumulation des Kapitals alla centralità dell’unità di teoria e prassi nell’ambito della conoscenza dialettica della totalità del processo storico.[31]

Oggi v’è ancora un’attualità del messaggio di Rosa Luxemburg? Che cosa ci resta di questa “anima d’artista tutta impregnata dalla politica”, come la definì Luise Kautsky (cfr. LJ, 7)? Molte cose sono cambiate a più di un secolo dalla sua morte, la gravissima “crisi del marxismo” (in tutte le sue forme) è da decenni sotto i nostri occhi; per evidenti ragioni storiche e politiche non si può più riproporre sic et simpliciter il suo marxismo, ma rimangono a nostro avviso esemplari la sua testimonianza etica e politica, la tensione alla giustizia, alla verità e alla pace, la passione bruciante per la vita e la difesa strenua della vita offesa, la lotta intransigente per la dignità di tutti gli esseri sfruttati e oppressi.

Inoltre, non vanno assolutamente trascurati altri aspetti come l’amore genuino per la poesia e la musica, per l’arte, la scienza, la cultura e il pensiero libero, l’onestà intellettuale e la rettitudine morale, la rivendicazione dell’interezza e ricchezza della personalità umana, l’aspirazione coerente e costante a una vita umana degna e a una nuova civiltà planetaria, a un diverso rapporto tra gli esseri umani, la natura e gli altri animali, tra gli uomini e le donne, la valorizzazione della dimensione femminile e affettivo-sentimentale. Più che mai viva nei nostri cuori e nelle nostre coscienze, Rosa Luxemburg lascia a noi e alle nuove generazioni una eredità cospicua, ma non è affatto scontato che essa possa essere ripresa e dare i suoi frutti.

 

(Piacenza, giugno-dicembre 2017 – settembre-ottobre 2020 – aprile-giugno 2021)

[1] Si pensi ad esempio al suo libro più noto, Die Akkumulation des Kapitals. Ein Beitrag zur ökonomischen Erklärung des Imperialismus, 1912, poi apparso come volume VI dei Gesammelte Werke nel 1923; trad. it., L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, a cura di L. Amodio, Introduzione di P. M. Sweezy, Einaudi, Torino 1968.

[2]Sulla sua vita si veda fra l’altro P. J. Nettl, Rosa Luxemburg, 2 voll., Oxford University Press, London 1966 e 1969; ediz. it. ridotta, Rosa Luxemburg, trad. it. di G. Backhaus, il Saggiatore, Milano 1978; L. Kautsky, Rosa Luxemburg. Ein Gedenkbuch, Laubsch, Berlin 1929; P. Frölich, Rosa Luxemburg. Gedanke und Tat, Editions Nouvelles Internationales, Paris 1939.

[3] R. Luxemburg, Die Theorie und die Praxis, 1910; trad. it., La teoria e la prassi, in R. Luxemburg, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Einaudi, Torino 1975, p. 349. D’ora in poi quest’opera sarà citata nel testo con la sigla SC e il numero di pagina a seguire. Un’altra importante raccolta di testi luxemburghiani in Italia è costituita dagli Scritti politici, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1970.

[4] M. Cento, Rosa Luxemburg, “il Mulino. Rivista bimestrale di cultura e di politica”, Anno LXVI, n. 491, Bologna, 3/2017, pp. 501-502.

[5]R. Luxemburg, Lettere 1893-1919, trad. it. di L. Bonacchi, L. Garzone, O. Viegoz, C. Zawadzka, a cura di L. Basso e G. Bonacchi, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 222-223. Cfr. SC, 510-511.

[6]Cfr. Institut für Marxismus-Leninismus beim Zentralkomitee der Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands, Rosa Luxemburg im Kampf gegen den deutschen Militarismus. Prozessberichte und Materialen aus den Jahren 1913 bis 1915. Mit einem Anhang. Berichte der sozialdemokratischen Presse über Soldatenmisshandlungen. Oktober 1913 bis Juli 1914, Dietz, Berlin 1960, p. 97 e P. J. Nettl, Rosa Luxemburg, 2 voll., Oxford University Press, London 1966 e 1969; ediz. it. ridotta, Rosa Luxemburg, cit., pp. 622-623. Cfr. anche R. Luxemburg, Ich war, ich bin, ich werde sein! Artikel und Reden zur Novemberrevolution, a cura dell’Institut für Marxismus-Leninismus beim Zentralkomitee der Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands, Dietz, Berlin 1958.

[7] R. Luxemburg, Rede zum Programm, 1918; trad. it., Il programma di Spartaco, a cura di M. Bascetta, S. Bonsignori, S. Petrucciani, P. Virno, Introduzione di R. Gagliardi, manifestolibri, Roma 1995, p. 55.

[8] Ivi, pp. 36-37.

[9]Cfr. Spartakusbriefe, a cura dell’Institut für Marxismus-Leninismus beim Zentralkomitee der Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands, Dietz, Berlin 1958.

[10] Su questi aspetti ha giustamente insistito anche Michele Fiorillo nel suo incisivo e documentato saggio Rosa Luxemburg critica del leninismo, in “MicroMega. Per una sinistra illuminista” n. 7, 2017, pp. 43-54.

[11] Cfr. R. Luxemburg, Organisationsfragen der russischen Sozialdemokratie, 1904; trad. it., Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, in Scritti politici, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 221, 226, 236.

[12] H. Arendt, “La tradizione rivoluzionaria e il suo tesoro perduto”, capitolo VI di On Revolution, 1963; trad. it. di M. Magrini, Sulla rivoluzione, Introduzione di R. Zorzi, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 306.

[13] Cfr. G. Lukács, Demokratisierung heute und morgen, 1968; trad. it. e a cura di A. Scarponi, La democrazia della vita quotidiana, manifestolibri-La Talpa, Roma 2013 e C. Preve, La passione durevole, Vangelista, Milano 1989, in particolare il capitolo V: “Ringiovanimento teorico del marxismo, rifondazione democratica del comunismo. Una possibilità del nostro futuro”, pp. 123-154. Alla prospettiva filosofico-politica di Preve si ricollegano ampiamente C. Fiorillo e L. Grecchi nel volume Il necessario fondamento umanistico del ‘comunismo’, Petite Plaisance, Pistoia 2013.

[14]T. Perlini, Il ruolo della cosiddetta ‘teoria del crollo’ nel pensiero di Rosa Luxemburg, in “aut aut”, n. 126, Lampugnani Nigri editore, Milano, novembre-dicembre 1971, pp. 64-65.

[15] Ivi, pp. 66-67.

[16] Cfr. G. Lukács, Kritische Bemerkungen zu Rosa Luxemburgs ‘Kritik der russischen Revolution’, 1922, in Geschichte und Klassenbewuβtsein. Studien über marxistische Dialektik, 1923; trad. it., Osservazioni critiche sulla ‘Critica della rivoluzione russa’ di Rosa Luxemburg, in Storia e coscienza di classe, a cura di G. Piana, SugarCo Edizioni, Milano 1974, pp. 335-362.

[17] Cfr. Stalin (Josif Vissarionovic Dzugasvili), Alcuni problemi della storia del bolscevismo, 1931, in Id., Opere scelte, a cura delle Edizioni del Movimento Studentesco, Edizioni Movimento Studentesco, Milano 1973, pp. 753-762. Cfr. anche F. Tych, Prefazione all’edizione polacca, in R. Luxemburg, Listy do Leona Jogichesa-Tyszki, 3 voll., 1968-1971; trad. it. dal polacco di B. Norton, Lettere a Leo Jogisches, a cura di F. Tych e L. Basso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 31.

[18] Cfr. R. Luxemburg, Einführung in die Nationalökonomie, 1925; trad. it. di LNT Cooperativa, Introduzione all’economia politica, Jaca Book, Milano 1970. Se ne veda pure una traduzione it. parziale in SC, 379-424.

[19]R. Gagliardi, Rosa Luxemburg, “il manifesto”, 14 gennaio 1979.

[20] Cfr. R. Luxemburg, Rede zum Programm, 1918; trad. it., Il programma di Spartaco, cit., pp. 42-43. D’ora in poi tale scritto sarà riportato nel testo con la sigla PRS.

[21] R. Luxemburg, Massenstreik, Partei und Gewerkschaften, 1906; trad. it., Sciopero di massa, partito e sindacati, in Scritti politici, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 370.

[22] Cfr. R. Luxemburg, Briefe an Karl und Luise Kautsky (1896-1918), a cura di L. Kautsky, Laub’sche Verlagsbuchhandlung, Berlin 1923; trad. it., Lettere ai Kautsky, Prefazione di L. Kautsky,a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 153.

[23] Cfr. PRS, 45-46 e G. E. Lessing, Opere filosofiche, a cura di G. Ghia, Utet, Torino 2006 e Id., La religione dell’umanità, a cura di N. Merkel, Laterza, Roma-Bari 1991. Cfr. anche H. Arendt, Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten. Gedanken zu Lessing, 1959; trad. it. di L. Boella, L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, ne “La società degli individui. Quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee”, Anno III, n. 7, Franco Angeli, Milano 2000/1, pp. 5-30; F. Toscani, Lessing, la ‘religione dell’umanità’ e il dialogo interreligioso, in F. Toscani-S. Piazza, Fede e pensiero critico nell’età globale. Testimonianze per una civiltà planetaria, Prefazione di A. Rizzi, Cleup, Padova 2010, pp. 219-256.

[24] R. Luxemburg, Listy do Leona Jogichesa-Tyszki, 3 voll., 1968-1971; trad. it. dal polacco di B. Norton, Lettere a Leo Jogisches, a cura di F. Tych e L. Basso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 61. D’ora in poi questo libro sarà citato con la sigla LJ.

[25]Cfr. L. Basso, Introduzione a R. Luxemburg, Lettere 1893-1919, trad. it. di L. Bonacchi, L. Garzone, O. Viegoz, C. Zawadzka, a cura di L. Basso e G. Bonacchi, Editori Riuniti, Roma 1979, p. XXVIII. D’ora in poi questo libro sarà citato con la sigla LR.

[26] Mi sembra che tale tensione e tale coerenza emergano pienamente nel bel film di Margarethe von Trotta intitolato Die Geduld der Rosa Luxemburg (1986). Cfr. l’intervista di M. von Trotta, La mia Rosa, a cura di C. Hembus, in “Noi donne”, Anno XXXIX, n. 12, dicembre 1984, pp. 32-33.

[27] Sulla pietas nei confronti di ogni essere vivente e sulla “incredibile capacità di felicità dell’autrice pure nella sua angosciosa condizione” mette l’accento Claudio Magris, commentando la lettera riportante l’episodio del bufalo, nel suo articolo Leggere Rosa Luxemburg oggi, “Corriere della Sera”, 1° maggio 2021.

[28] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 301.

[29] Cfr. F. Mehring, Die Lessing-Legende. Eine Rettung, 1893; trad. it. di E. Cetrangolo, La leggenda di Lessing. Per la storia e la critica del dispotismo prussiano e della cultura classica, Edizioni Rinascita, Roma 1952; F. Mehring, Karl Marx. Geschichte seines Lebens, 1918; trad. it. di F. Codino e M. A. Manacorda, Vita di Marx, Introduzione di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1972.

[30] T. Perlini, Il ruolo della cosiddetta ‘teoria del crollo’ nel pensiero di Rosa Luxemburg, in “aut aut” n. 126, Lampugnani Nigri editore, Milano, novembre-dicembre 1971, pp. 69-70. Cfr. anche T. Perlini, Attualità di Rosa Luxemburg, in “Utopia”, I, n. 9-10, edizioni Dedalo, settembre-ottobre 1971.

[31] Cfr. G. Lukács, Rosa Luxemburg als Marxist, 1921, in Geschichte und Klassenbewuβtsein. Studien über marxistische Dialektik, 1923; trad. it., Rosa Luxemburg marxista, in Storia e coscienza di classe, cit., pp. 35-57.

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