150 ore, allo studio e alla lotta di Ilaria Romeo

 

Il 19 aprile del 1973, dopo una trattativa durata sei mesi, viene firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici che, tra le altre e importanti cose (inquadramento unico, orario, ferie, apprendistato, diritto allo studio per i lavoratori studenti), riconosce il diritto alla fruizione di un massimo di 150 ore di permessi retribuiti, con il fine di favorire la crescita culturale dei lavoratori, una loro migliore partecipazione alla vita sociale e, per chi ne fosse sprovvisto, il conseguimento del titolo di studio di scuola media inferiore (l’utilizzo del monte ore totale può essere scaglionato su più anni – di norma tre – ma anche concentrato in un anno). Per avervi diritto ciascun operaio deve completare le ore conquistate sul lavoro con almeno altrettante prese sul suo tempo libero portando il monte ore dedicate allo studio a un minimo di 300.

“Al termine di un’estenuante trattativa – scriveva il 3 aprile precedente Bruno Ugolini su l’Unità – dopo oltre cinque mesi di lotta durissima, tenace, unitaria, i metalmeccanici italiani e le loro organizzazioni sindacali hanno raggiunto un successo di grande importanza. Superate le ultime, tenaci resistenze dalla parte padronale, lo schema d’accordo siglato stanotte segna un chiaro passo in avanti rispetto alle già rilevanti conquiste del contratto del ‘69. La piena validità della piattaforma rivendicativa della Federazione unitaria dei metalmeccanici è confermata dai risultati raggiunti in materia di salari, inquadramento unico operai–impiegati, orario di lavoro, limitazione degli straordinari, diritto allo studio per i giovani lavoratori (…) Ora la parola è alle assemblee. Saranno convocate fin da oggi. I metalmeccanici giudicheranno, non solo i singoli punti dell’intesa; ma tutto quello che sta alle spalle di essa, il retroscena politico, una dura battaglia che si può ben dire vinta. È stato fatto un passo avanti sulla strada intrapresa nel 1969. Volevano far fuori i delegati, i consigli, tutte le esperienze di questi anni. Non ce l’hanno fatta”.

“Lo scontro che c’è stato – affermavano nell’occasione i segretari generali della FLM Trentin, Carniti e Benvenuto – si è sviluppato in una situazione politica ed economica molto più difficile di quella di tre anni fa, mentre erano al centro della vertenza contrattuale grossi problemi di riforma, di organizzazione del lavoro, di sviluppo del potere contrattuale del sindacato e di politica dell’occupazione. Questo importante successo non sarebbe stato possibile ottenere senza l’esistenza di un movimento unitario e maturo non solo della nostra categoria, ma di tutto lo schieramento sindacale”.

Una svolta epocale

Il Ccnl del 19 aprile 1973 segna una svolta epocale nell’educazione degli adulti (dopo i metalmeccanici molte altre categorie riusciranno a ottenere questo diritto.  Nei primi due anni 100.000 metalmeccanici torneranno tra i banchi, seguiti, con l’estensione del diritto alla quasi totalità dei contratti nazionali, da altre categorie, poi da disoccupati e casalinghe. Le donne dei coordinamenti si impegneranno nella elaborazione di corsi “tenuti da donne per le donne” nei quali fosse possibile trovare un tempo e uno spazio separati per affrontare e analizzare i propri bisogni specifici. Uno dei temi più ricorrenti che vedrà impegnati corsisti, insegnanti e sindacalisti sarà quello della nocività e salute nei luoghi di lavoro).

Con l’art. 28 [1] si introducono sostanzialmente due punti cardine: la retribuzione dei permessi studio e il diritto all’accrescimento culturale della classe operaia.  L’elemento che contraddistingue le 150 ore rispetto alle esperienze precedenti risiede nell’organizzazione dell’offerta didattica, gestita collettivamente da lavoratori e docenti.

In tal senso le 150 ore segneranno un momento di rottura, introducendo il principio del diritto allo studio né finalizzato alle utilità aziendaliste che né al conseguimento di un titolo scolastico, ma per l’arricchimento culturale di tutti i lavoratori, che possono anche aver voglia – si dirà – di imparare a suonare il clavicembalo.

“Per analizzare la genesi delle 150 ore senza andare molto a ritroso nel tempo – afferma Saul Meghnagi – è sufficiente soffermarsi sulla piattaforma rivendicativa approvata nell’ottobre del 1972 dall’Assemblea nazionale dei delegati metalmeccanici, in vista della trattativa per il rinnovo dei contratti di categoria. In questa piattaforma, per quanto concerneva il diritto allo studio, accanto ai due obiettivi più tradizionali (parità salariale e normativa per gli apprendisti, facilitazioni per i lavoratori–studenti), faceva infatti per la prima volta la sua comparsa la richiesta di un nuovo istituto contrattuale: il riconoscimento e la garanzia di un monte ore retribuito per la formazione dei lavoratori. L’elemento che colpisce non è tanto il fatto che si chiedano congedi pagati, quanto l’inserimento di questa richiesta nel capitolo sull’inquadramento unico, obiettivo centrale della piattaforma [2]”.

“Le 150 ore – scriverà Bruno Manghi – rappresentarono un investimento contrattuale con cui i lavoratori scambiavano salario per un processo di emancipazione individuale e collettivo. Una scommessa sulla rinegoziazione della risorsa tempo che rimetteva in discussione idee e pratiche del lavoro, nel pieno del taylorismo imperante, secondo la migliore tradizione del sindacalismo riformista che coniuga conflitto e costruzione creativa”.

Un’occasione di partecipazione che ha pochi eguali, in cui le elaborazioni del mondo sindacale cercano e trovano una contaminazione tra il mondo dei saperi (teorico, accademico, ecc.), la fabbrica, il mondo del lavoro più in generale, sviluppando una straordinaria e feconda sinergia.

Da un’idea di Bruno Trentin 

L’idea originaria delle ‘150 ore’ è di Bruno Trentin che a sua volta si era ispirato all’esperienza francese del “bonus orario”. Ma il lavoro del sindacato e della Flm sarà più ambizioso rispetto ai modelli europei: l’obiettivo sarà l’accesso diretto alla cultura, lontano dall’equivoco della formazione professionale, come accadeva per le leggi applicate in Francia e Gran Bretagna nella prima metà degli anni Sessanta.

“Le 150 ore – scrive Francesco Lauria – realizzarono, almeno per alcuni anni, una peculiare scommessa nella rinegoziazione collettiva della risorsa tempo, una scommessa in grado di ridefinire, anche nel lavoro, nel pieno del novecento taylorista, i canoni del benessere materialistico e produttivista. Ma furono anche una grande scommessa del movimento operaio (coadiuvato dai sindacati degli insegnanti medi) sulla democratizzazione della scuola”. [3]

Nei suoi appunti Trentin esprime chiaramente il suo concetto su cosa debba intendersi per 150 ore: “non certo soltanto i corsi aziendali ma la scuola in generale, la riconquista nella scuola di un’autonomia del lavoratore; non il lavoratore idoneo Fiat, ma una formazione culturale e professionale costruita nella scuola e con una sua trasformazione”.

Grazie alla scuola si riconquista l’autonomia del lavoratore

Nelle conclusioni al convegno nazionale della Flm sulle 150 ore del gennaio 1975, il segretario ribadisce la necessità di evitare “il ghetto di una formazione culturale e popolare al di fuori della scuola, resistendo anche al fascino che poteva avere l’idea di un’università operaia autonoma, alternativa e antagonista alle istituzioni scolastiche esistenti, perché ciò avrebbe comportato un’abdicazione sostanziale del movimento sindacale nelle sue componenti operaie a una battaglia diretta per il rinnovamento e la trasformazione della scuola, e avrebbe anche portato alla riproduzione inevitabile, proprio per questa rottura, di una scuola oggettivamente isolata e subalterna” («FLM Notizie», n. 83, 2 aprile 1975, numero speciale, I metalmeccanici e il diritto allo studio).

Una esperienza caratterizzata da “enormi prospettive, enormi debolezze e rischio di isolamento”, per utilizzare le parole dello stesso Trentin in occasione di un altro convegno della Flm sulle 150 ore, in questo caso del 1974.

“Occorre affermare – ribadiva Bruno durante la tavola rotonda organizzata in occasione della presentazione del fascicolo di Quaderni di Rassegna Sindacale dedicato a La contrattazione del sapere, a seguito di un documento sulla formazione scritto insieme a Luigi Berlinguer e Andrea Ranieri […] il valore strategico di una politica della formazione nell’attività contrattuale del sindacato, ma anche assumere la portata della rivoluzione culturale che ne consegue. Non basta, infatti, affidarsi a delle élite avanzate in campo sindacale e realizzare contratti significativi – come buona parte di quelli del pubblico impiego, dei chimici, del commercio o dei servizi –, se poi non rimuoviamo le resistenze di fondo. Credo che occorra ricostruire un clima come quello delle 150 ore, che comportò, almeno da parte di un’avanguardia del mondo della scuola, un impegno fondamentale e un salto di qualità culturale nei prodotti pedagogici della formazione”.

“Con tutti i suoi limiti – diceva nella sua Lectio magistralis a Ca’ Foscari nel 2002 – i suoi errori e le sue sbavature, quell’esperienza liberò tali energie nel mondo della scuola e in quello di lavoratori meno qualificati e consentì di mettere persino alla prova gli elementi di una nuova pedagogia per la formazione degli adulti, da lasciare tracce profonde anche i molti quadri sindacali. Questa esperienza è andata oggi in larga misura dispersa. Ma è stata possibile!”.

Ma è stata possibile.

[1]  “I lavoratori che, volendo migliorare la propria cultura, anche in relazione all’attività aziendale, intendano frequentare presso Istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio, hanno diritto, con le precisazioni indicate ai commi successivi, di usufruire di permessi retribuiti a carico di un monte ore triennale a disposizione di tutti i dipendenti… I lavoratori che contemporaneamente potranno assentarsi dall’azienda o dall’unità produttiva per l’esercizio del diritto allo studio non dovranno superare il 2 per cento del totale della forza occupata… I permessi retribuiti potranno essere richiesti per un massimo di 150 ore pro capite per triennio, utilizzabili anche in un solo anno, sempre che il corso al quale il lavoratore intende partecipare si svolga per un numero di ore doppio di quelle richieste come permesso retribuito…”

[2] “La formazione viene quindi concepita come mezzo atto a rendere possibile la ricomposizione della forza lavoro ai livelli più alti, agevolando il superamento di tutte le forme di lavoro generico, subalterno e ripetitivo. In base agli obiettivi generali prefissati, il sindacato stabiliva alcune linee di intervento secondo cui: le 150 ore non dovevano essere utilizzate per la formazione professionale; in particolare il contratto prevedeva che eventuali corsi istituiti dalle aziende, secondo le loro necessità, dovevano essere frequentati usufruendo di altri permessi pagati, al di fuori delle 150 ore; le 150 ore non dovevano essere utilizzate per la formazione sindacale, per la quale si doveva fare ricorso a speciali «permessi sindacali» e, in alcuni casi, a periodi di ferie; le 150 ore dovevano essere utilizzate per lo sviluppo culturale di tutti i lavoratori, mediante l’acquisizione di nuovi strumenti conoscitivi e la valorizzazione di tutto il patrimonio di coscienza collettiva, di organizzazione e di esperienza che i lavoratori avevano accumulato nel corso del lavoro, che doveva dar luogo  all’analisi di contenuti tradizionalmente tenuti fuori dalle mura scolastiche”.

[3] “D’altronde – scrive ancora Lauria – il tema dell’alfabetizzazione e dell’educazione degli adulti è antico e si potrebbe far risalire a Platone. Ciò che è importante sottolineare è quanto esso, in epoca contemporanea, sia stato strettamente collegato al nascere dell’associazionismo operaio: dapprima attraverso le società di mutuo soccorso, successivamente con le leghe di resistenza, fino alla costituzione, in Italia, delle Camere del lavoro, agli inizi del Novecento”. “Nell’istituzione delle Camere del lavoro – scriveva Bruno Trentin  c’è stata la grande intuizione dell’aggregazione di persone sottoposte in varie e diverse misure, comprese le questioni di genere e la differenza di sesso, a un rapporto di illibertà, a un rapporto di oppressione. E questo spiega anche la rapidità con la quale in Italia si è passati dal sindacato d’industria, bruciando le tappe delle corporazioni e dei mestieri. È un fatto che deve far riflettere. In Inghilterra ci sono voluti quarant’anni in più che non in Italia per arrivare alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici (…). La ragione di tutto questo sta proprio lì, nel fatto che nella Camera del lavoro c’era il bracciante, che poi era anche edile, c’era la donna che era mezzadra o bracciante ma anche filandiera o tessitrice, c’era il disoccupato che poteva fare pure ogni tanto l’ambulante. È proprio quello che ha messo in crisi l’altra anima, quella del mestiere corporativo che c’era anche in Italia: il sarto, il calderaio ecc. I sindacati d’industria sono nati con una rapidità estrema perché in Italia c’erano le Camere del lavoro. Ma perché in Italia le Camere del lavoro hanno avuto un ruolo così grande? Perché c’era questa cultura della questione sociale nella quale le persone, e non solo le categorie, avevano pieno diritto di cittadinanza. C’era chi faceva l’ambulante oggi e il giorno dopo l’edile, chi faceva il bracciante, ma aveva una famiglia numerosa, chi aveva dei malati in famiglia e c’era la mutua che teneva conto di questo fatto. Ogni persona che aveva quei problemi, quel percorso di vita e di lavoro non era genericamente assimilata all’altra. Qui c’è una grande cultura della differenza e della solidarietà da riscoprire”.

 

(tratto da www.labour.it, 20 aprile 2023)

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