Dalla prima crisi del petrolio (1973) alle multinazionali che avversano clima ed energia come beni comuni di Mario Agostinelli

 

QUALCHE INSEGNAMENTO DAL 1973

Con l’esaurirsi di quella che Giorgio Nebbia aveva denominata “la primavera ecologica italiana” si prospetta un nuovo ordine che, all’insegna del neoliberismo, spreca l’occasione di un imprescindibile processo di “phase-out” dai fossili.

Il 1973 rimane effettivamente un punto di riferimento significativo, rispetto al quale vengono giudicati gli sviluppi energetici successivi, fino ad arrivare, colpevolmente disarmati, alla crisi attuale.

Due aspetti in questo tragitto di cinquant’anni non possono venire trascurati.

Il primo, riguarda il fatto che la crisi del 1973 si distingue storicamente per la tumultuosa convergenza di tre diversi fattori, tutti di notevole rilievo: innanzitutto, la localizzazione geopolitica dove si innesca la crisi (il Medio Oriente punto di incrocio di culture permanentemente in conflitto); in stretta connessione, il petrolio nella sua fase di componente più dinamica nei processi di combustione (cioè l’energia per eccellenza all’avvio della globalizzazione, la cui tipologia e distribuzione, assieme alla condizionalità del prezzo, fondavano il portato di diseconomie e di lacerazioni sociali profonde) e, infine, l’avvio sopito di una crisi politica negli Stati Uniti (che ne avrebbe caratterizzato a fasi alterne  lo svolgimento nel lungo periodo). Aspetti che risuonano ancor oggi a livello globale, dove la convergenza – di nuovo in una triade di concomitanze – è ben più drammatica, benché sotto la forma di tre emergenze in fieri ed irrisolte fin da allora: la minaccia nucleare, un sempre più brusco cambio climatico, un’insostenibile ingiustizia sociale, esplosa ormai nella forma di centinaia di conflitti armati irrisolti. Dopo dieci lustri ci troviamo spinti ancor più drammaticamente – se si può usare l’espressione – verso un baratro non sufficientemente valutato allora, né in alcun modo attenuato nel frattempo.

Il secondo, riguarda il fatto, stranamente trascurato nei commenti correnti, che Hamas ha deliberatamente scelto il 50 ° anniversario della guerra del Kippur per lanciare il suo assalto a Israele, forse implicitamente consapevole di come l’embargo petrolifero del 1973 avesse scosso il mercato globale dell’energia, oltre che ripristinata la logica della geopolitica, riassettando la dimensione globale dell’economia e introducendo l’era dell’energia moderna, che si affanna verso soluzioni non ancora definitive e spesso contrapposte.

In sostanza, il 1973 è ancora qui tra noi.

Oggi, infatti, il mondo e l’Italia si trovano di fronte ad una crisi energetica ed ecologica ingigantita e molto più complessa, una sfida che può addirittura segnare il tempo della sopravvivenza dell’umanità, i suoi valori, perfino il profilo di civiltà che accomunerà o scomporrà l’evoluzione della biosfera e della geosfera terrestre. Cercando di fare i conti con la complessità e la profondità di essa (ecologica, energetica, climatica, ma anche istituzionale, democratica e sociale) e non dimenticando il precedente del 1973, cercherò di svolgere un intervento rivolto in particolare ad un auspicato nuovo paradigma energetico che, dopo la conclusione deludente della Cop 28 a Dubai, l’Unione Europea, in particolare, ha cercato di proporre come base di cooperazione tra i 27 Paesi, con l’impegno incerto  – ed oggi particolarmente riluttante – degli esecutivi e dei poteri economici nazionali, anche a dispetto delle popolazioni locali.

GLI OSTACOLI AD UN NUOVO PARADIGMA SENZA IL PETROLIO E IL GAS

E’ fuor di dubbio che la crisi energetica del 1973, con l’embargo sul petrolio, abbia aperto una fase inedita per le politiche energetiche a livello globale: in parte imprevista, nelle sue premesse, ma, alla fine, sorprendente nelle sue conseguenze effettive. Va rilevato infatti come, nonostante l’avvenuto superamento del picco dei fossili, la domanda mondiale di petrolio e di gas sia oggi più del doppio di quanto fosse nel 1973, mentre gli Stati Uniti sono diventati il più grande produttore e non più, come lo erano cinquant’anni fa, il più grande importatore di petrolio al mondo.

Intendo dire che il mondo – l’economia, la tecnocrazia, gran parte della scienza – ha ragionato di geopolitica come fosse il risultato della disponibilità di primeggiare nel possedere e bruciare materiale fossile, mentre ha assai meno preso in considerazione gli effetti sul vivente della sua combustione in continua crescita. Il bilancio ineluttabilmente negativo di questi ultimi cinquant’anni ci pone ora di fronte ad un passaggio irrinunciabile: abbandonare quel modello di crescita che ha individuato nella pretesa del primato geopolitico e nella potenza degli eserciti la ragione di una competizione incessante e mai inclusiva.  Una lotta che ha caratterizzato la globalizzazione, sostenuta da un consumo smodato di fossili ed in contrasto – anche culturalmente – con l’elaborazione scientifica di quella conversione ecologica integrale che la “primavera ecologica” di Nebbia, Conti, Tiezzi  ed altri in Europa e nel Nord America anticipavano rispetto a Bergoglio.

Cercare di “armare l’energia” non è quindi rimasto un ricordo del passato. Vladimir Putin ha cercato di usare l ‘”arma del gas” contro l’Europa per dividere la coalizione ucraina, ma ha fallito. E, per quanto riguarda “the weapon of oil”, il contesto si è rapidamente riadattato al ridisegno dei blocchi in contrapposizione geopolitica tra loro. I principali produttori del Golfo Arabo, a differenza del 1973, sono ormai completamente integrati nell’economia globale e sono stati in vari stati di dialogo con Israele. Solo qualora il conflitto- ancora una volta e non a caso nel Medio Oriente – si diffondesse entrerebbe in gioco un potenziale imprevedibile di interruzione e diversificazione che influirebbe sui flussi di petrolio e gas naturale e sulle infrastrutture che consentono tali flussi. Sebbene in piena “decarbonizzazione” il transito di petroliere e gasiere, così come il sabotaggio di gasdotti, continua ad essere obbiettivo di agguati e di sofisticate azioni delle guerre in corso.

Quindi “l’OIL &GAS” ha continuato a dominare il resto dei due decenni successivi al 1973 in uno stato di grande incertezza, scarsa informazione e di impreviste interruzioni di accordi di approvvigionamento tradizionali. Nei tre decenni successivi l’attenzione si è prevalentemente rivolta ad una maggiore attenzione alla sicurezza energetica, includendo nel sistema la resilienza e mantenendo, tuttavia, una ossessiva certezza di riferimento al petrolio, fino ad arrivare ad una collaborazione internazionale per evitare la concorrenza confusa che rendeva ancor più difficile una situazione di per sé caotica.

Nessuno sforzo, almeno per un largo tratto di tempo, che riguardasse un nuovo paradigma energetico decentrato, misurato nei consumi, alimentato da fonti alternative, il più possibili concorrenti alle fossili. Il solo nucleare è sembrato accaparrarsi   gli sforzi maggiori di diversificazione, ma l’ostilità delle popolazioni ed i gravi incidenti ne hanno minato la diffusione, con una inevitabile ricaduta dell’attenzione dei progettisti energetici su impianti a gas, sempre di notevole potenza e portati ai massimi livelli di utilizzo, anche a costo di elevate emissioni inquinanti.  A lungo, questa insistenza sul modello energetico centralizzato e dominato dalle grandi corporation multinazionali ha prevalso, sotto lo scudo di una narrativa post-Seconda guerra mondiale, fondata sulla crescita, la finanziarizzazione e la depredazione delle risorse naturali della biosfera.

LA QUESTIONE CLIMATICA E LA LENTA ASCESA DEL SUD GLOBALE

Nel 1973 all’orizzonte non prevaleva ancora la questione climatica, né si avvertiva la lenta ascesa del Sud globale (non più definito Terzo Mondo), mentre l’asse geo-economico andava scostandosi dall’Atlantico settentrionale per convergere verso l’Asia-Pacifico. Dentro questi mutamenti di non breve periodo, gli Stati Uniti si rivolgevano ad una nuova tecnologia di estrazione, dall’impatto molto pesante sull’ambiente, diventando essenzialmente la fonte mondiale prevalente di gas e petrolio di scisto (shale gas & shale oil), mentre dai loro porti si diramavano le reti delle più moderne metaniere che trasportano GNL ai nuovi approdi di rigassificatori sparsi in po’ ovunque. Veniva così introdotto un sistema a monte delle centrali, con grande dispendio di energia suppletiva, che poteva intervenire direttamente nella contesa per la fissazione del prezzo al mercato in caso di conflitti e di conseguenti sanzioni. Insomma: una nuova arma fossile: “l’arma del gas”.

Eppure, l’antropocentrismo, di cui sono figli il petrolio e l’economia fossile, cominciava ad essere posto sotto osservazione critica, mentre si affacciava una sempre più informata rivalutazione della biosfera come componente essenziale della sopravvivenza della civiltà: di tutte le civiltà e di tutti gli ordini economici in esse congruenti. Il clima assumeva una dimensione universalmente riconosciuta e la messa in discussione degli effetti nefasti degli impianti ad alta densità energetica -fossili in particolare – faceva emergere la possibilità innovativa, anche sotto il punto di vista tecnologico ed economico, di un approvvigionamento energetico attraverso le fonti rinnovabili: differenziate, integrate nei cicli naturali e presenti praticamente ovunque sul territorio.

Il mutamento del clima diventa così oggetto di attenzione prevalente, contrastato da un negazionismo accanito, cui si contrappone la percezione dell’ingiustizia sociale connaturata a quella climatica e di cui si fanno consapevoli in particolare anche molti dei Governi del Sud del mondo, assieme alle loro popolazioni, che cominciano ad identificarsi con un diverso modello di sviluppo non più dipendente dalla crescita dei Paesi ricchi.

“In un ordine internazionale che subisce enormi cambiamenti, con gli stati occidentali che si girano sempre più verso l’interno, questi ultimi mancano di interesse ad affrontare le sfide dello sviluppo e ad affrontare questioni globali come i cambiamenti climatici e le crescenti tensioni tra un egemone in declino (Stati Uniti) e un potere crescente che lo minaccia (Cina). Cosa devono fare allora gli stati post-coloniali? Sostenere e organizzare un “non allineamento attivo” (ANA).”[1]come guida all’azione, come sostiene un think tank guidato dai BRICS2[2].

Questo, appena accennato e citato, è l’approccio prevalente di politica estera che si è potuto consolidare in buona parte dell’America Latina dal 2019, a seguito di quella che possiamo definire una “seconda guerra fredda” tra gli Stati Uniti e la Cina. La regione è stata costretta a elaborare una risposta al nuovo quadro di competizione tra le grandi potenze, poiché sia Washington che Pechino hanno premuto gli stati latinoamericani a schierarsi con loro su vari problemi. ANA prende ispirazione dal movimento non allineato (NAM) che si era realizzato negli anni ’50 e ’60 del Novecento.

ANA, in particolare, adatta il non allineamento alle realtà del nuovo secolo, in cui, come menzionato, un terzo mondo colpito dalla povertà prova ad essere sostituito da un nuovo sud dinamico. Iniziative per la pace e spostamento verso le fonti rinnovabili con fuoriuscita dai fossili sono due dei presupposti di orientamento che si vanno affermando in questo contesto. E Carlos Fortin[3] ammette che questa lezione proviene da una riflessione sul 1973. Occorre notare come nel suo primo anno in carica, il presidente Lula abbia intrapreso un’importante iniziativa di pace in Ucraina; ha ospitato un vertice presidenziale sudamericano; ha ospitato un vertice dell’organizzazione del bacino amazzonico; visitato ventiquattro paesi diversi; e si è preparato per ospitare il vertice del G20 nel 2024 e la COP29 nel 2025, dopo la delusione di Dubai.

MANCA ANCORA UN CAMBIO DI CULTURA

Da tempo ritengo che lo strappo alla conoscenza fornito dalla nuova interpretazione del mondo ad opera delle nuove scienze post 1900 avrebbe comportato una disaffezione di molti fedeli verso la Laudato Sì di Bergoglio – ad esse ispirata – ed una dura reazione delle destre verso l’ecologia integrale[4]. Basta avvertire la stanchezza del papa e leggere alcuni quotidiani anche stranieri per coglierne tutta l’acre animosità contro la narrazione dell’enciclica e contro gli ecologisti.

D’altronde, se si assumono gli sconvolgimenti politici come unità di misura dei movimenti alle fondamenta del pensiero, le catastrofi di questi decenni indicano che il baricentro del pensiero umano e le sue fondamenta si stanno spostando, creando un sempre maggiore distacco dalla struttura su cui poggiava la crisi del petrolio del 1973. Le sfide sono politiche, economiche ed ambientali: alcune più ostinate e trattabili di altre, ma ciò che il pensiero unico ha troppo a lungo rimosso riguarda il quesito della nostra esistenza e permanenza come società umana sulla Terra, e -direbbe Wolfgang Sachs – il terrore della nostra estinzione contemporanea a quella degli “altri da noi”[5]. Siamo stati ad ora straordinari creatori di manufatti, ma cominciamo, con troppo ritardo e dopo aver irrimediabilmente degradato la natura, ad occuparci della cura e della riproduzione indiscriminata – direi “solidale” – del vivente. In questa direzione, sarebbe indispensabile una maggiore sinergia tra cultura umanistica e scientifica. mentre un ecologismo integrale che implica giustizia sociale dovrebbe entrare a pieno titolo nella scuola e nella politica.

Nei fatti, il mainstream ci invita invece ad affrontare questo passaggio, costellato di tragedie e minacce, mantenendo tutto come prima, e, anzi, aggiungendo emergenza ad emergenza e ricorrendo a densità energetiche (il nucleare!) e sistemi di informazione e comunicazione (L’IA!) che escono dalla possibilità di controllo della coscienza umana e mettono in discussione l’esercizio del libero arbitrio anche nelle società democratiche così come le abbiamo conosciute.[6]

Pertanto, la compatibilità tra crescita della popolazione umana e le risorse limitate della natura andrebbe considerata con occhi diversi da quelli con cui la geopolitica dei potenti contende il posto alla biosfera del vivente.

Siamo pertanto di fronte ad eventi nuovi ed imprevisti, ma con cui occorre fare i conti, dopo che – ripeto – sono state scosse le fondamenta dell’antropocentrismo ed è stata ricostruita una precisa storicizzazione dell’universo, emerso dal nulla miliardi di anni addietro, e rimasto sconosciuto allo stupore della vita e ad una presuntuosa umanità comparsa in tempi recentissimi come osservatrice cosciente, ma ultima, di un mondo nato miliardi di anni prima e che qualche miliardo di anni fa ha sequestrato tra rocce e mari i combustibili fossili che oggi bruciamo senza ritegno.

Tuttavia, l’umanità non sembra ancora in grado di dare risposte concrete, immediate, comuni, né risulta politicamente abbastanza consapevole delle gravi distorsioni strutturali imposte dall’attività antropica, al fine di costruire dai movimenti no global, dal pacifismo, dal solidarismo e dall’ecologismo un quadro di coalizione che infranga, anche sotto il profilo dei rapporti di forza politici, una continuità così rovinosa quale quella che stiamo già sperimentando.

CONSIDERAZIONI SULLE CONCLUSIONI DELLA COP 28 DI DUBAI

Intanto, le guerre mostrano un’asperità inaudita; la politica è sconnessa; le piazze si stanno riempiendo, consapevoli sia dei tentativi di repressione del dissenso che del fatto che mai come oggi il “privato” deruba beni che dovrebbero risultare essenziali per la vita; la differenza di genere viene usata come esercizio di un improprio dominio; i migranti sono costretti a fuggire dalle loro terre.

Credo che le decisioni adottate alla Cop 28 di Dubai renderanno ancora più stringenti i tempi di una piena coscienza del degrado già in atto e dei possibili rimedi da applicare: ma occorre far presto, perché il brusco aumento dell’energia interna dell’atmosfera, dell’infertilità dei suoli e dell’innalzamento dei mari del nostro Pianeta, in seguito alla crisi climatica, scandisce il limite temporale entro cui agire, pena la sopravvivenza.

L’Ue si era presentata alla Cop28 di Dubai con l’obiettivo più ambizioso di sempre: ottenere un impegno globale sul phase-out dalle fonti fossili. Non solo il carbone, anche petrolio e gas, da eliminarsi gradualmente dai mix energetici di tutti i paesi, con la sola eccezione di quelli “unabated”, non abbattuti prima del 2050.

Ed è proprio stato l’“unabated” la via di fuga. Un lasciapassare per tutte le infrastrutture energetiche che continueranno a usare combustibili fossili ma, magari, con l’adozione di tecnologie per la cattura e lo stoccaggio di CO2.

Nel documento Ue già faceva poi capolino il lungo braccio di ferro energetico tra Francia e Germania sul nucleare, risolta con l’inclusione dell’idrogeno ottenuto dall’atomo tra le fonti considerate rinnovabili. Purtroppo, l’esito della Cop è andato ben oltre i già grevi compromessi tra i ventisette Paesi Europei.

Sono stati messi d’accordo “tutti”, dai petrolieri agli ambientalisti, riconoscendo il diritto di cittadinanza a tutte le tecnologie utilizzabili: non solo rinnovabili, ma anche nucleare, cattura del carbonio, idrogeno, combustibili low-carbon. Dubai, con lo spiegamento muscolare dei padroni delle ferriere del 2030, ha archiviato l’obiettivo di uscire ora dai fossili lasciando i Paesi contraenti liberi di fare le scelte più convenienti.

Nei fatti c’è stato il riconoscimento che l’attuazione delle NDC[7] non sarà sufficiente per rispettare i limiti di crescita delle temperature medie globali (ben sotto i 2 gradi entro il 2050) indicati dagli Accordi di Parigi[8].

La COP28 aveva tre obiettivi dichiarati: una roadmap per il phase-out delle fonti fossili; il sostegno finanziario per i paesi in via di sviluppo, l’eliminazione progressiva dei sussidi dannosi alle fonti fossili. Mi limito qui ad osservare che per il phase -out si è convenuto sull’indecente formulazione finale (transitioning-away, graduale riduzione) che significa tutto e niente e rimanda senza vincoli all’intervento e alla buona volontà dei singoli Stati.

Il documento finale non menziona minimamente i mille miliardi annui di sussidi alle fonti fossili, mentre viene menzionato con soddisfazione il nucleare come limitatore di emissioni climalteranti. I signori del petrolio hanno messo le mani sul negoziato ottenendo la possibilità di perseverare nella finanza climatica: affrontare la transizione utilizzando gli stessi strumenti finanziari e le tecnologie “hard” che ci hanno condotto alla crisi attuale.

Risulta così definitiva la discrasia tra le monarchie e le imprese dei Paesi più ricchi ed il contesto democratico che dovrebbe appartenere alle COP, ma che non potrà mai dare risultati accettabili, oltre a vaghe indicazioni di obiettivi non misurabili né sul piano quantitativo né su quello della tempistica.

Il giudizio su queste considerazioni si fa più duro quando si considera che è in corso una guerra culturale che prende di mira proprio le quattro tecnologie di cui abbiamo più bisogno: pannelli solari, turbine eoliche, auto elettriche e pompe di calore, contro cui si scaglia la propaganda dei leader populisti.

Ma non bastano nuove tecnologie più appropriate per contare sul fatto che l’opinione pubblica si schiererà dalla parte giusta della storia: occorre innanzitutto porre la natura, le persone, la vita e i mezzi di sussistenza al centro dell’azione per il clima e garantire la totale inclusività di ogni aspetto nel processo, partendo dal basso e da un criterio di sufficienza prima che di efficienza.

Comunque, la parola magica a Dubai, dopo una lunga notte di trattative, è finalmente uscita dal cappello: “transizione”. “Il tema dei fossili, una sorta di tabù, finalmente non era più aggirabile: così quella parola, sacralizzata al punto da non poter essere pronunciata, è stata per la prima volta scritta nel documento finale. Sultan Al-Jaber, così, ha squarciato il velo dell’ipocrisia, ha sbattuto in faccia al mondo la “scomoda verità”, la dipendenza tossica dai fossili del meraviglioso sviluppo conseguito nell’ultimo secolo e la straordinaria difficoltà di un percorso effettivo di disintossicazione da questa mirabile dipendenza quando non si voglia rinunciare a nulla, non solo all’indispensabile per una vita dignitosa, ma neppure al superfluo, allo spreco, all’eccesso bulimico in cui siamo immersi”[9]

Forse qui sta il valore non solo residuale delle Cop: costringere tutte le nazioni del mondo a confrontarsi periodicamente con questi enormi problemi e a discuterne per rimuoverli democraticamente e definitivamente.

LA DEBOLEZZA DELLA RISPOSTA ITALIANA SULLA CONVERSIONE ENERGETICA

Dall’analisi di un problema di portata mondiale, risulta evidente un monito al nostro Paese, impudentemente ignorato alla conferenza di Dubai, dove il piano Mattei è diventato un banale schermo a sostegno di una mancanza di decisioni sulla riduzione del gas ed un’occasione per fare da sponda ad una ipotetica ripresa del nucleare.

ECCO[10], in collaborazione con Artelys, ha preso in considerazione sia i costi totali delle infrastrutture del sistema elettrico italiano, sia la volatilità dei mercati, formulando asset ottimali a partire dal 2030 (quelli del 2025 sono il risultato di investimenti già attuati da anni) e prevedendo determinate scelte tecnologiche e di investimento. Secondo i risultati, per centrare il target del 2035 c’è in Italia la necessità di un aumento di oltre 90 gigawatt di rinnovabili rispetto alla capacità installata nel 2021.

In sostanza, rispetto a oggi, le installazioni annue di impianti di generazione elettrica rinnovabile devono aumentare di otto volte, così da arrivare al 2035 a circa centocinquanta gigawatt di capacità installata (centosessanta nel 2030) per quasi quattrocentocinquanta terawattora di produzione nazionale. Questo è il quadro reale della sfida della decarbonizzazione nazionale.

Se però crescono le fonti fossili, anche solo come sussidiarie temporanee alla moltiplicazione di fonti pulite, andremo oltre sicuramente 2°C. Infatti, la transizione è ancora ai blocchi di partenza e le emissioni legate all’energia sono tutt’ora in aumento e sicuramente raggiungeranno il picco solo dopo il 2024 – il che equivale a raggiungere 2,5 ° già nel 2027, continuando a trascurare soluzioni alternative, in rapida prospettiva sull’intero sistema e, da subito e in particolare, a Brindisi, Ravenna  e Civitavecchia[11].

Eppure, le condizioni per il cambio di marcia sono assai favorevoli: occorre tener conto che l’energia prodotta localmente assume una priorità rispetto alle importazioni di energia e che, a lungo termine, la sicurezza energetica e la sostenibilità andranno nella stessa direzione. Inoltre, al contrario di quanto si vuole far credere – e che cioè la questione riguarda solo i grandi consumatori – le politiche locali e regionali hanno grande influenza nel modificare la sensibilità dell’opinione pubblica su larga scala: perciò occorre sostenere soluzioni come le comunità energetiche che si apprestano a costituirsi in mezzo a mille ostacoli non solo burocratici.

L’OCCASIONE DELLE COMUNITA’ ENERGETICHE

Fin qui abbiamo dato per scontato la necessità di respingere l’eredità di un sistema energetico fortemente centralizzato e funzionante attraverso reti a dimensione globale. Si tratta del sistema attuale, che dobbiamo assolutamente superare in base ad un decentramento reso possibile dalle tecnologie che fanno riferimento alle fonti naturali collocate sul territorio. Purtroppo, il PNIEC è in totale rotta con la trasformazione cui pensiamo. In esso, l’idea dell’hub del gas è ancora centrale e significa non solo la combustione, ma i gasdotti, le navi metaniere, i rigassificatori, le condotte per l’importazione e l’esportazione, oltre a residue trivellazioni in loco. Occorre avere presente, infatti, che una delle caratteristiche delle fonti rinnovabili, non riguarda solo il contenimento dell’impatto ambientale, quanto la loro collocazione diretta sul territorio laddove si rende possibile sia l’auto -consumo che la cooperazione ottimale tra utenti che si costituiscono come comunità energetica: una persona giuridica basata sulla partecipazione aperta e volontaria, legalmente indipendente e autonoma, controllata da azionisti o membri con libera scelta.

Il legislatore prevede la possibilità per cittadini, aziende e organi pubblici di fondersi per la produzione e l’uso congiunto di elettricità. Si tratta di un’autentica rivoluzione

che rende possibile, oltre alla produzione e allo stoccaggio di energia, la gestione della distribuzione tramite una comunità legalmente costituita. La figura del “prosumer”, cioè la combinazione delle funzioni di produttori e consumatori, è di fondamentale importanza per raggiungere l’obbiettivo centrale della sufficienza energetica.

Una forte diffusione delle comunità indipendenti renderebbe possibile l’estensione della rete elettrica sul territorio (comprese le colonnine per la mobilità) e libererebbe bacini di pompaggio e di stoccaggio (acqua, idrogeno, batterie), che potrebbero in parte assistere i settori energivori e creare le condizioni per cicli manifatturieri che hanno come terminali apparecchiature per il recupero dell’acqua, per la raccolta del vento (pale eoliche) e per la trasformazione istantanea di una parte della radiazione del sole (silicio per pannelli). Insomma: una integrazione dell’energia utile nel massimo rispetto dei cicli naturali.

[1] Carlos Fortin, Latin American Foreign Policies in the New World Order: The Active Non-Alignment Option

2023, Anthem Press

[2] https://www.researchgate.net/profile/Carlos-Fortin-2

[3] V. Carlos Fortin, ibidem

[4] M.Agostinelli   lfattoquotidiano.it/2023/05/29/tra-le-istituzioni-prende-piede-la-versione-piu-recente-del-negazionismo-climatico

[5] W, SACHS -economia della sufficienza, 2023 Castelvecchi editore

[6] M. Agostinelli Alternative per il Socialismo febbraio 2024

[7] Nationally Determined Contributions,

[8] M. Agostinelli https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/12/02/pessime-le-credenziali-dellitalia-alla-cop28-

[9] M. Ruzzenenti https://www.decrescita.it/la-cop-28-dei-paradossi/

[10]https://eccoclimate.org/wp-content/uploads/2023/05/

[11] M.Agostinelli https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/09/21/pichetto-fratin-balbetta-di-un-nucleare-diverso-ma-sbaglia

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