MIGRANTI CRIMINALITA’ LAVORO di Cesare Molinari

Nel 1958 lo storico e demografo Luis Chavalier, professore al Collège de France, pubblicava un grosso libro, destinato ad godere di una certa risonanza, se è vero che ebbe almeno due nuove edizioni, nel 1978 e poi nel 1984 presso la più prestigiosa Hachette. Il libro è abbastanza noto anche fuori della Francia, ma, si direbbe, più per il suo titolo che non per il suo contenuto. Titolo che suona Classes laborieuses et classes dangereuses, ma che viene per lo più citato, sempre in francese, ma, curiosamente, eliminando la congiunzione “et”, ciò che significa trasformare un rapporto in una identificazione: le “classi laboriose (lavoratrici)” sono, di per sé, “classi pericolose”, ossia criminali. O, più precisamente, vengono percepite come tali dalla pubblica opinione, come effettivamente risulta anche nel testo di Chevalier, ma in riferimento a un preciso e abbastanza remoto momento storico, come chiarisce il sottotitolo: “à Paris, pendant la première moitié du XIXè siècle”. Per quanto mi consta, ne esiste soltanto una traduzione inglese Labouring Classes and Dangerous Classes in Paris during the First Half of the Nineteenth century. London, Routledge & Kegan Paul, 1973, ristampata negli Stati Uniti da Howard Fertig nel 2000.

Per ricostruire il clima e i rapporti sociali della Parigi del ventennio fra il 1830 e il 1851, cioè del regno di Luigi Filippo d’Orléans, fino all’avvento di Napoleone III, Chevalier utilizza un vastissimo materiale: dalla narrativa di Hugo Sue e Balzac alla trattatistica politico-sociale di Proudhon e Fourier agli articoli dei giornali fino alla statistica che – imparo da lui – cominciò a fiorire proprio in quegli anni. Ma, viene da chiedersi, perché la trattazione si concentri sulla sola Parigi, senza allargare lo sguardo sulla Francia intera? Proprio in questo sta il grande interesse e la grande attualità dell’opera, che è, sostanzialmente, il racconto di una migrazione.

Gli anni della così detta “monarchia di luglio” videro il primo grande sviluppo dell’industria in Francia, la cui prima macroscopica conseguenza (secondo il modello di quanto si era già verificato in Inghilterra) fu una violenta e massiccia urbanizzazione che trasformò il tessuto sociale della città, così come la crescita delle attività industriali ne veniva trasformando l’aspetto e la stessa struttura urbanistica, sia perché i fumi delle fabbriche ne ammorbarono l’aria, ma sia anche perché fu necessario trovare in qualche modo alloggio per le migliaia di contadini e, più in generale, di ‘provinciali’ che si riversarono nella capitale in cerca di lavoro. Ma, mentre il primo fattore, le fabbriche, non sembra aver suscitato troppe polemiche, il secondo, i nuovi arrivati, scatenò una serie di reazioni violente e addirittura furibonde: ad essi si attribuiva non solo il degrado urbanistico, derivato dal moltiplicarsi di miserabili costruzioni, tra cui i molti hotel garnis dove si dormiva anche ammassati in vere camerate, ma anche, e soprattutto, il degrado sociale con l’esponenziale aumento della prostituzione e della criminalità. Le voci che si alzarono in difesa, o almeno in commiserazione, di questo nuovo proletariato (il termine si afferma proprio in questi anni – vedasi Marx) furono pochissime, tra cui la più forte e nobile fu quella del Victor Hugo dei Miserabili.

La migrazione descritta da Louis Chevalier fu una migrazione interna, in qualche modo paragonabile a quella raccontata da Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli, che portò tanti meridionali a Milano e a Torino verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento. Ma ciò non ha impedito che nei due casi – quello francese del 1830 e quello italiano di centocinquant’anni dopo – i nuovi arrivati fossero percepiti e trattati come “stranieri”, nel significato forte e denso del termine che richiama tutti quelli che vi sono etimologicamente o foneticamente associati: “strano”, cioè diverso e incomprensibile, “estraneo”, vale a dire qualcuno che mi è lontano e con cui non ho niente a che fare, fino a “straordinario”, nel senso di non comune, anzi non normale e quindi, in definitiva, non accettabile. Il caso francese sembra peraltro anche più conturbante: noi italiani siamo abituati dalla diversità dei dialetti a considerarci tutti bensì italiani, ma anche veneti o siciliani, i dialetti essendo spesso associati anche a una diversità di storie politiche e culturali, così come al fatto che chi parla un dialetto può non essere capito da chi ne parla un altro. Ragion per cui è quasi normale che il siciliano sia considerato almeno un poco anche straniero. Ma in Francia i dialetti non esistono o si riducono a flessioni di carattere meramente fonetico. Tuttavia i parigini del 1830 non capivano, o si rifiutavano di capire la parlata dei contadini auvergnati o, che so?, vandeani. Da qui ad attribuire a questo parlare incomprensibile la qualifica di “barbaro” (e non nel senso descrittivo di Erodoto, ma in quello valutativo di Cicerone: “inhumanus ac barbarus”) il passo è evidentemente breve. Come il successivo che, definendo gli immigrati “nomadi” e “selvaggi”, li collocava definitivamente fuori della società civile. Finalmente, l’ovvia constatazione che il loro fisico spesso emaciato e deformato dalla denutrizione e dal duro lavoro presentava caratteristiche lontane da quelle dei borghesi parigini portava a concludere (con l’aiuto delle recenti teorie fisiognomiche di Lavater e di quelle frenologiche di Gall – Lombroso era di là da venire) che tali caratteristiche non derivavano dalle condizioni di vita, ma avevano un’origine propriamente biologica: non si trattava più di classi sociali – conclude Chevalier – ma propriamente di razze. (E sarebbe interessante confrontare le descrizioni dell’aspetto di questi miserabili con quelle apparse, a partire dal 1938, in “La difesa della razza”, che miravano a dedurre l’inferiorità degli ebrei dal naso aquilino e quella dei negri dal sedere prominente delle donne bantù). Contraddittoriamente però fu necessario ammettere che tali caratteristiche razziali si trasferivano anche nel proletariato autoctono, giungendo a inficiare perfino gli artigiani. A causa dell’inevitabile promiscuità sessuale, o non piuttosto di un contagio sociale che finiva col diventare biologico?

Ma il punto centrale è un altro: queste classi (o razze?) laboriose, enormemente cresciute dal punto di vista numerico in seguito all’affluenza di contadini e provinciali, a causa dell’insufficienza dei posti di lavoro, che non sono cresciuti in proporzione e sono comunque precari e miseramente retribuiti, contribuiscono a aumentare le fila di una mendicità e di una criminalità da sempre piaghe croniche della città di Parigi, ma un tempo più precisamente confinate in certi quartieri (la corte dei miracoli di Notre-dame de Paris), mentre adesso tendono a dilagare in prossimità di quartieri abitati dalla buona borghesia e dalla nobiltà. Veramente si trattava soprattutto di microcriminalità, che restava prevalentemente interna alle classi diseredate: furti, ma anche assassini e risse spesso nate dall’ubriachezza – per non parlare degli infanticidi, prima disperata forma di controllo delle nascite, di cui si rendevano colpevoli soprattutto le prostitute, ma non solo. Una criminalità comunque meno dannosa della grande criminalità economica di cui comincia a parlare Balzac, ma certo infinitamente più visibile e pertanto più concretamente minacciosa.

Ho cercato di riassumere con qualche dettaglio l’opera di Louis Chevalier perché mi pare che essa possa costituire un importante punto di partenza e di confronto per meglio capire i problemi legati agli attuali flussi migratori che, come hanno chiarito le ormai numerose e meritevoli storie delle migrazioni, non sono né di oggi né di ieri, ma costituiscono una costante della storia dell’umanità a partire dal lento diffondersi dei cacciatori-raccoglitori africani, fino a popolare, non meno di 20.000 anni or sono, tutto il pianeta, ovviamente in tempi e con modalità fra loro diversissime. Ma anche perché la storia raccontata in Classes laborieuses et classe dangereuses presenta certe affinità con quanto è successo in Italia (ma non solo) negli ultimi cinquant’anni.

Non vale la pena di ricordare le grandi emigrazioni dall’Italia che ebbero luogo nei primi anni del Novecento, verso gli Stati Uniti e poi verso l’Argentina, per riprendere nel secondo dopoguerra, ma stavolta soprattutto verso la Francia e il Belgio. Se non per ribadire che gli emigrati italiani hanno giocato un ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale degli Stati Uniti dove, se alcuni di loro hanno raggiunto posizioni politiche e sociali di grande rilievo – basti ricordare Fiorello La Guardia – altri vi hanno dato un decisivo impulso alla malavita mafiosa, soprattutto negli anni del proibizionismo. Cosa che non è successa né in Francia né tanto meno in Belgio dove i lavoratori italiani morirono a centinaia nella miniera di Marcinelle. Cose arcinote, ma utili per sottolineare il fatto che la malavita italiana prese piede soltanto in un paese strutturalmente disposto a offrirle un terreno di coltura (oggi, sembra, le cose sono cambiate – in peggio, anche se non so dire fino a che punto la presenza della ‘ndrangheta in Germania torvi una base in italiani colà immigrati).

Sarebbe utile invece ripercorrere la storia delle migrazioni verso l’Italia, a partire da quando, come è stato tanto spesso ripetuto, il nostro paese si è trasformato da terra di emigranti in terra di immigrazione – vale a dire dai primi anni Settanta del Novecento (magari visualizzandone lo sviluppo in un diagramma che, personalmente, non sono in grado di eseguire).

I primi immigrati che si resero, per così dire, visibili in Italia furono i “marocchini” – e virgoletto il termine perché essi venivano così definiti genericamente, anche se molti venivano dall’Africa subsahariana, in particolare dal Senegal, per dedicarsi al piccolo commercio ambulante di collanine e altre chincaglierie, soprattutto nelle spiagge, e vennero perciò definiti con un’espressione quasi affettuosamente napoletana: “vu’ cumprà”, presto diventata un vero sostantivo, oggi dimenticato: “vucumprà”. All’epoca gli stranieri regolari presenti in Italia erano stimati in circa 153.000, vale a dire un misero 0,3% della popolazione che allora contava poco più di 54 milioni. Ma non è probabile che tale cifra comprendesse i “vucumprà”, marocchini o senegalesi che fossero, probabilmente entrati in Italia con un visto turistico e, di conseguenza, non censiti. In ogni caso, non dovevano superare le poche decine di migliaia, restando per lo più dispersi, in particolare nelle località turistiche di mare, senza formare comunità, se non piccolissime. Per questo non suscitavano allarme: al massimo qualche fastidio. Anzi, in generale, furono guardati quasi con simpatia come una divertente curiosità folkloristica.

Ma è solo a partire dagli anni Ottanta che le presenze di stranieri cominciano a prendere una certa consistenza: nel 1981 il numero è più che raddoppiato (ca. 321.000), e saranno 625.000 alla fine del decennio. Con questa sensibile differenza qualitativa, che a questo punto gli immigrati hanno cominciato a proporsi come forza lavoro – disponibile o già occupata. Tant’è vero che, nel 1986, fu varata la prima legge intesa a regolamentare il lavoro degli stranieri in Italia (legge Foschi 943\1986), legge che mirava anche ad assicurare loro parità di diritti con i lavoratori italiani. Si tratta comunque ancora di numeri molto modesti e soprattutto di piccole percentuali: poco più dell’uno per cento della popolazione che a questa data si aggira sui 60 milioni. Tuttavia qualcuno comincia già a parlare di “invasione”. Invasione destinata a prendere corpo nella più plastica e, oserei dire, holliwoodiana delle immagini con l’arrivo a Bari della famosa nave stracolma di albanesi nell’agosto del 1991. Cui fece immediatamente seguito un’altra visione, stavolta francamente raccapricciante, soprattutto perché richiamava scene non molto diverse avvenute nel Cile di Pinochet: la reclusione di una parte di quegli albanesi nello stadio di Bari.

E’ particolarmente significativo che questo primo massiccio arrivo di profughi via mare provenisse proprio dall’Albania, cioè da un paese dirimpettaio, che poteva riflettersi nell’Italia come in uno specchio deformante capace di ingigantire le loro miserie con la visione leggendaria e televisiva dell’altrui ricchezza, ma soprattutto di un paese che dall’Italia era stato occupato e annesso, diventando parte integrante del Regno d’Italia e d’Albania: come se, da una parte, i suoi abitanti si potessero considerare in qualche misura italiani, la lingua italiana essendo ancora relativamente abbastanza conosciuta in Albania, ma, dall’altra, si sentissero in credito per l’occupazione e lo sfruttamento di cui erano stati vittime – una sensazione che potrebbe facilmente estendersi a tutti i paesi ex-coloniali. Comunque sia di ciò, non pare che i più diretti interessati, cioè i baresi, abbiano percepito quella degli albanesi come un’invasione, né si siano particolarmente preoccupati del fatto che un migliaio di loro fossero sfuggiti alla cattura. In altre parole gli albanesi non vennero immediatamente considerati come nemici invasori né come potenziali delinquenti.

Ma l’opinione cominciò a cambiare, non tanto a Bari quanto nell’Italia del nord, allorché alcuni albanesi si resero responsabili di un certo numero di reati comuni (soprattutto furti e borseggi), fino a diventare un generalizzato atteggiamento di condanna quando si venne a sapere che molti erano implicati nello spaccio della droga. In verità la situazione era anche peggiore di quanto percepito dal grande pubblico perché si trasferirono in Italia alcune di quelle organizzazioni mafiose albanesi che erano state represse dalla dittatura di Enver Hoxha, ma si erano rapidamente sviluppate sotto il governo di Sali Berisha (proprio 1991) e soprattutto in seguito alla gravissima crisi del 1994 (1). E non è difficile notare come la storia della criminalità organizzata albanese in Italia sembri quasi una replica di quella della mafia italiana degli anni 1920 negli Stati Uniti. D’altra parte, ai giorni nostri le mafie sono un fenomeno altrettanto globalizzato quanto la finanza. Il punto vero è però un altro: benché la maggior parte degli albanesi presenti in Italia avesse trovato un lavoro, sottopagato e spesso in nero, soprattutto nell’edilizia, adesso, verso la fine degli anni Novanta, essi venivano bollati come i delinquenti e quindi i nemici. Qualsiasi crimine venisse commesso, era imputato a loro. Il caso esemplare e più conturbante fu quello del duplice assassinio di Novi Ligure (2001): la giovanissima matricida e fratricida Erika, per difendersi dai possibili sospetti, ne accusò appunto degli albanesi, venendo creduta, al punto che la Lega organizzò senz’altro una manifestazione per ottenere non tanto la scoperta dei colpevoli, quanto l’espulsione degli albanesi, ovviamente tutti criminali.

Non saprei dire se questa criminalizzazione degli albanesi sia venuta attenuandosi spontaneamente o se invece non sia semplicemente passata di moda perché sostituita dalla presenza di nuovi nemici, subito considerati altrettanto e forse più pericolosi: i rumeni. La storia dell’immigrazione rumena ha qualche punto di contatto con quella albanese, soprattutto in quanto entrambi i paesi erano usciti da durissime dittature e si trovavano in condizioni economiche particolarmente difficili. Dopo il famoso sbarco del 1991 gli arrivi albanesi diminuirono sensibilmente, anche grazie ad amichevoli accordi di collaborazione fra i due governi. Ci furono anche molti rimpatri, più o meno volontari. Al contrario, a partire dal 2004, gli arrivi di cittadini rumeni aumentarono sensibilmente, per crescere in misura esponenziale dal 2007. E si trattava di arrivi del tutto ‘regolari’ in quanto la Romania era diventata membro dell’Unione Europea. Inoltre i rumeni parlano una lingua neo-latina, sono cristiani; scrittori filosofi e artisti rumeni (basti ricordare Jonesco, Cioran e Brancusi) sono da sempre parte importante dell’alta cultura europea. Ma tutto questo non scalfiva minimamente l’opinione diffusa, anzi, forse le era del tutto ignoto, mentre si sapeva che gli zingari, nomadi e barbari come i provinciali francesi arrivati a Parigi nel 1830, erano originari della Romania. In verità si trattava essenzialmente di numeri poiché già nel 2008 si contavano circa 800.000 presenze di rumeni – il doppio degli albanesi. Per la grande maggioranza i rumeni trovarono abbastanza facilmente un’occupazione, soprattutto nell’edilizia, sia perché, almeno a livello di manovalanza, si trattava di uno di quei lavori che gli italiani avevano cominciato a rifiutare, ma sia anche perché era più facile assumerli in nero e con paghe più basse. Ma è vero anche che alcuni si resero responsabili di gravi delitti contro la persona – omicidi e stupri, ma anche rapine, talvolta commesse da piccole bande. I giornali, ovviamente quelli di destra, ma anche certi fogli moderati come “Il Sole” e “Il Corriere della Sera”, si precipitarono a denunciare il ripetersi di tali crimini e ad elaborare statistiche tese a dimostrare che il numero dei delitti commessi da rumeni era percentualmente superiore a quello di italiani e che, sostanzialmente, le “classi pericolose” non andavano più individuate genericamente nei lavoratori disoccupati, ma esclusivamente negli immigrati rumeni. Al punto che lo stesso governo rumeno si preoccupò di salvaguardare il buon nome dei suoi cittadini, stringendo accordi con la polizia italiana per impedire che la criminalità rumena si riversasse in Italia. Non credo che questa attività di polizia sia stata decisiva per limitare la presenza della criminalità rumena in Italia. Piuttosto, l’opinione pubblica e la stampa cominciarono a rendersi conto che la ripresa della guerra di camorra faceva molte più vittime dei delinquenti rumeni, ma anche del fatto che la criminalità si era internazionalizzata come la finanza: lo aveva dimostrato tra l’altro la strage di Duisburg, perpetrata dalla ‘ndrangheta calabrese su cittadini italiani emigrati in Germania.

Sta di fatto che anche i rumeni cominciavano a passare di moda. Adesso il pericolo veniva principalmente dall’Africa. Veramente gli sbarchi di africani che raggiungevano Lampedusa o altri punti della Sicilia in modi meno spettacolari di quello albanese del 1991, ma certo infinitamente più tragici perché comportavano un’alta percentuale di naufragi e quindi di vittime, erano cominciati molti anni prima, ma si erano moltiplicati a partire dal 2011, al momento della caduta e morte di Gaddafi, con il quale Berlusconi aveva cercato di stringere qualche accordo inteso a limitare le partenze dalla Libia. Sta di fatto che gli arrivi dalla Libia sulle coste italiane passarono dalle 63.000 del 2011 alle 219.000 del 2014. Inizialmente furono soprattutto senegalesi e nigeriani, cui presto si aggiunsero altri provenienti dal Mali, dalla Costa d’Avorio, e fino dal Congo, cui si aggiunsero Somali ed Eritrei che forse, in quanto ex-colonizzati dall’Italia, ritenevano di poter accampare qualche diritto e che comunque dovevano affrontare un lunghissimo viaggio via terra prima di arrivare sulle coste libiche. C’era qualcosa di epico, oltre che di tragico, in questi “viaggi della speranza” (per citare il titolo di un ben film di Pietro Germi che racconta di una famiglia italiana che raggiunge la Francia attraversando a piedi le Alpi coperte di neve). E forse per questo una parte dell’opinione pubblica dovette guardare a questi migranti con un occhio più pietoso, considerando che, per affrontare simili viaggi, ci voleva non solo un grande coraggio, ma anche un’impellente necessità: la vita si mette a rischio soltanto per salvarla. Ma presto tornò a prevalere la paura di una nuova invasione barbarica, tanto più che si trattava di gente di razza diversa (inferiore?!) talché perfino certe aree politicamente più avanzate e gli stessi governanti hanno cominciato a riflettere sulla possibilità di introdurre dei filtri che permettessero di giustificare respingimenti e rimpatri, almeno sotto il profilo del diritto. Parve (e pare) credibile una distinzione tra rifugiati (o richiedenti asilo) e profughi, ossia tra migranti politici, cioè quelli che fuggono da guerre e dittature, e migranti economici che fuggono semplicemente dalla fame e dalla miseria. In base a questo criterio si potrebbe arrivare al paradosso di accogliere dei rifugiati dal ricchissimo, ma solo formalmente democratico Singapore, respingendo invece profughi provenienti dal Mali, paese tra i più poveri, ma relativamente libero.

Ovviamente sono stati segnalati diversi delitti commessi da africani: stupri, furti e anche omicidi. Ma, a parte la tendenziosa evidenziazione loro riservata da certi giornali, non sembra si tratti di percentuali significative. Si è anche parlato di una mafia nigeriana (la  Nigeria, si ricordi, è un paese potenzialmente ricchissimo, ma turbato al suo interno da tensioni e conflitti di ogni genere). Tuttavia non sembra che in Italia essa sia andata oltre un certo controllo della prostituzione, cui sono votate o obbligate un certo numero di donne nigeriane. Ma certo non si può parlare di una mafia africana. Semmai, molti africani sono stati ingaggiati dalle mafie nostrali per servizi di bassa manovalanza, cioè come pusher della droga, o sfruttati in maniera più violenta e diretta per la raccolta delle arance e di pomodori, soprattutto in Sicilia, dove il caporalato li condanna a vivere nelle condizioni più misere e inumane, che facilmente possono ricordare gli schiavi addetti alla raccolta del cotone negli Stati Uniti prima della guerra di secessione. All’estremo opposto, i più fortunati hanno trovato un impiego nei supermercati e in molti negozi di lusso, dove sembrano avere una funzione più che altro decorativa. Perché ho notato (ma ovviamente le statistiche non si fanno a occhio) che tutti questi fortunati sono handsome and tall. Forse, avere un servo negro è tornato a fare chic.

Negli ultimissimi anni la guerra civile-mondiale scoppiata in Siria ha rimescolato tutte le carte nel campo delle migrazioni, anche e soprattutto perché si è intrecciata con l’avvento dell’ISIS, e quindi con un conflitto religioso o, come qualcuno ha preferito dire, di civiltà.

Ne è conseguita, presso l’opinione pubblica, una identificazione tra gli immigrati e i mussulmani, le cui presenze venivano entrambe sovrastimate: gli immigrati rappresenterebbero addirittura il 30% della popolazione contro i 9% delle statistiche, di cui i mussulmani sarebbero il 20%, mentre sono in realtà soltanto il 3%.

Ma è un argomento che non sono in grado di trattare in questa sede. Sarà invece opportuno almeno accennare al fatto che praticamente tutti o quasi i paesi del mondo hanno una magari piccola comunità presente in Italia, come fa notare Corrado Bonifazi (2), alcune delle quali proponendosi sul mercato del lavoro in settori specifici, quasi con una sorta di specializzazione. Il caso più noto è quello dei filippini, che si sono offerti soprattutto come lavoratori domestici al punto che il termine “filippina” (poiché si trattava in prevalenza di donne) ha, in un certo periodo, quasi sostituito quelli di “cameriera”, “serva” o “badante”.

Una particolare attenzione va poi riservata all’immigrazione cinese, che si presenta con forti specificità (3). Si può dire infatti che essa abbia avuto un carattere prevalentemente imprenditoriale, ciò che ha comportato la creazione di nuovi posti di lavoro, ma riservati in gran parte a cittadini cinesi, il cui arrivo in Italia è stato favorito e promosso dagli stessi imprenditori cinesi, i quali poi sfruttarono i loro connazionali in modo anche violento, ammucchiandoli in abitazioni che non avevano niente da invidiare agli hotel garnis parigini del 1830. Ne conseguì il formarsi di comunità relativamente piccole, in parte concentrate, ma anche diffuse sul territorio con l’apertura di un certo numero di negozi con la funzione di vendere i prodotti delle fabbrichette cinesi, smerciati però anche da africani o arabi (i vecchi vucumprà) in un inedito circuito tutto interno all’immigrazione. L’imprenditoria cinese assume dunque il carattere della piccola industria manifatturiera attiva prevalentemente nel campo del mobilio (poltrone, materassi e sofà), del tessile ma anche in quello degli accessori personali, spesso falsificazioni delle maggiori firme del settore. Per quanto, almeno là dove le comunità cinesi si sono sviluppate talvolta fino a diventare maggioranza in certi quartieri (o piccoli paesi come Brozzi, sobborgo di Firenze), non siano mancati scontri anche fisici, l’imprenditoria cinese venne percepita principalmente come concorrenza (sleale): ne è testimonianza, fra l’altro, addirittura un romanzo scritto dal rampollo di una famiglia di piccoli industriali pratesi: Edoardo Nesi, Storia della mia gente, Bompiani, 2010. Certo, anche immigrati da altri paesi hanno dato vita a imprese economiche, ma per lo più limitate all’ambito commerciale: solo piccoli gruppi di rumeni hanno dato vita a società attive nell’edilizia, mentre i nordafricani e i turchi hanno puntato piuttosto sulla ristorazione (ambito in cui i cinesi sono presenti si può dire da sempre), aprendo trattorie o negozi di kebab. Chiaramente nulla di paragonabile alla dimensione industriale realizzata dai cinesi, i quali, come accennato, hanno dato vita a una produzione integrata che, sia pur limitata alla piccola industria, ha potuto dar luogo a una concorrenza che sembra quasi riprodurre in termini locali quella internazionale fra l’occidente e la Cina: si parva licet componere magnis! E forse proprio per questo, perché i cinesi sono percepiti come rappresentanti di una grande potenza economica e non come fuggiaschi da paesi arretrati e semibarbari, contro di loro non si è mai scatenata una vera ordalia, simile a quelle che hanno colpito, in rapida successione, albanesi rumeni e africani. E ultimamente soprattutto gli islamici. Nonostante la ben nota sotterranea presenza di una mafia cinese.

Complessivamente nel 2016 gli stranieri presenti in Italia erano poco più di 5 milioni, pari a circa l’8-9% della popolazione: nel dettaglio i numeri sono facilmente reperibili nel web (per esempio nel sito di wikipedia “immigrazione in Italia”), o anche in importanti studi, come quello citato di Corrado Bonifazi, fermo però al 2005.

Quanti, per istintiva solidarietà o per calcolo, hanno cercato di evidenziare il lato positivo dell’immigrazione, si sono per lo più concentrati su due temi: in primo luogo gli immigrati hanno coperto settori della produzione e dei servizi cui gli italiani tendono a sottrarsi o perché particolarmente faticosi e mal retribuiti o perché non corrispondenti al loro livello di istruzione; in secondo luogo i demografi hanno rilevato che solo l’immigrazione riesce a coprire, e parzialmente, il precipitoso crollo della natalità: poco più di un figlio per donna, circa la metà di quanto sarebbe necessario per mantenere almeno inalterato il rimpiazzo delle generazioni. A ciò i nemici dell’immigrazione rispondono che invece bisognerebbe favorire in tutti i modi la maternità autoctona, quasi rispolverando l’invito mussoliniano a fare tanti figli perché il numero è potenza, o almeno ricchezza  – cosa oggigiorno molto poco credibile. Mentre dimenticano un’altra questione, molto più impellente: gli immigrati sono quasi tutti giovani e con ciò possono rimettere in equilibrio il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati, indispensabile per garantire appunto le pensioni. Ed è ben vero che già oggi una buona percentuale delle pensioni proviene dai contributi versati da lavoratori immigrati, ma è anche vero che questi calcoli sembrano più o meno aleatori, legati come sono a molte di variabili spesso poco prevedibili. La prima delle quali va individuata nella misura in cui sarà possibile garantire se non la piena occupazione, almeno un livello di disoccupazione non molto superiore al 5% che viene considerata non solo fisiologica, ma addirittura utile al buon funzionamento del capitalismo: la piena occupazione spinge in alto il livello dei salari. Cosa estremamente problematica, se bisogna credere alle pessimistiche previsioni di Jeremy Rifkin (4). Ma non voglio addentrarmi in speculazioni che hanno spesso il sapore della futurologia quando non della fantascienza. Mi permetterò invece di riferirmi ad alcune esperienze e riflessioni personali.

Nel 2014 insegnavo italiano a un gruppo di migranti fuggiti dalla Libia, dove avevano lavorato per alcuni anni, in seguito alla rivoluzione contro Gaddafi. Tra di loro il meno giovane, un trentenne di cui non ho mai saputo da quale nazione venisse, ma credo dal Mali, e che parlava già abbastanza bene l’italiano, un giorno, mentre chiacchieravamo durante la pausa, sbottò (è la parola) a chiedermi: “Perché non mi fate lavorare? Ho due buone braccia e anche una buona testa. Potrei fare qualsiasi lavoro”. In effetti, riuscimmo a procurargli una borsa-lavoro presso una cooperativa di facchinaggio, dove so che fu apprezzato, ma non se sia poi stato in qualche modo assunto. Comunque, si trattava di un lavoro certamente adatto alle sue buone braccia, ma forse non altrettanto alla sua buona testa. Allora la normativa non prevedeva che fosse possibile assumere migranti non regolarizzati, se non grazie appunto a delle borse lavoro, per lo più finanziate da privati e, comunque, per definizione precarie. Mentre quella conversazione mi aveva indotto a credere che la possibile soluzione del problema non stesse nella ‘accoglienza’, cioè in una forma di ospitalità, più o meno benevola, più o meno civile, più o meno carceraria, ma nella possibilità di trovare un lavoro, se non stabile almeno continuativo, anche per i nuovi arrivati. L’ozio, come dice il proverbio, è sicuramente padre dei vizi, ma, per i più poveri, anche della delinquenza – come era successo nelle “classes laborieuses” francesi del 1830. Adesso sembra che le cose si stiano faticosamente muovendo.

In un’intervista rilasciata al “Corriere fiorentino” (inserto fiorentino del “Corriere della Sera”), il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, lanciò una provocazione poi smentita, ma che almeno l’autore dell’intervista (o forse piuttosto la redazione) credette di aver letto nel pensiero dell’intervistato, titolando “regolarizziamoli tutti”. Regolarizzare tutti gli immigrati o i richiedenti asilo sarebbe certamente un gesto audace, che susciterebbe infinite polemiche anche fra i moderati, ma che avrebbe certamente il vantaggio di aprire le porte del lavoro anche ai nuovi venuti – appunto i richiedenti asilo – senza peraltro offrire nessuna certezza di sostanziose assunzioni. Poche settimane fa, il 17 gennaio, il ministro Minniti ha presentato al governo un pacchetto di provvedimenti sui richiedenti asilo, che dovrebbe tradursi in un decreto o in un disegno di legge. Tali provvedimenti riguardano soprattutto i nuovi, e si spera meno carcerari, centri di raccolta. Ma il punto che qui mi interessa è che il provvedimento dovrebbe permettere ai sindaci di impiegare i migranti (ma quali? evidentemente non quelli già regolarizzati né quelli detenuti nei nuovi Centri permanenti per i rimpatri) per eseguire “a titolo volontario e gratuito” lavori di pubblica utilità – come del resto  alcuni sindaci, tra cui quello di Riace, avevano già cominciato a fare, trovando qualche riscontro anche nell’opinione pubblica (5). Ma è poca cosa: evidentemente questi richiedenti asilo potranno contribuire a tener pulita la città o a tagliare l’erba dei parchi, o poco più.

Bisogna partire da un dato economico: attualmente i richiedenti asilo ricevono circa 35 euro al giorno, cifra che in verità va quasi integralmente alle organizzazioni o alle cooperative che si occupano di ospitarli, ed è ben noto che due geni del male come Carminati e Buzzi constatavano che l’affare migranti rende più di quello della droga. Ora, io credo (e mi si perdoni la presunzione di poter parlare di questioni macroeconomiche) che, almeno in questo caso bisognerebbe poter superare la logica degli appalti, su cui sembra fondarsi tanta parte del capitalismo moderno, per tornare all’intervento diretto delle istituzioni, seguendo le indicazioni del buon vecchio Keynes.

Perché c’è un’altra premessa da fare: anche senza parlare di terremoti, tutti sanno che il territorio italiano si sta disfacendo, con enormi costi per riparare i danni più gravi, naturalmente attraverso appalti. Allora, non sarà pensabile che almeno i richiedenti asilo possano essere impiegati nella manutenzione di quelle aree a più immediato rischio idrogeologico, su base pur sempre burocraticamente volontaria, ma sostanzialmente proprio in quanto ricevono, oggi in maniera indiretta, il sussidio di 35 euro al giorno (pari a 1050 euro al mese, stipendio certo misero, ma non inferiore a molte pensioni minime)? Ma c’è anche un altro fattore che dovrebbe essere preso in considerazione: in Italia ci sono moltissimi borghi e villaggi sostanzialmente disabitati e, per ciò stesso, a rischio di distruzione. Recentemente c’è stato un incontro dei rappresentanti di questi borghi, durante il quale sono state avanzate proposte per favorirne la ripopolazione, quasi sempre trattandosi di iniziative di carattere culturale, atte, secondo i proponenti, a richiamare il turismo, toccasana economico di tutti i mali della nazione. Anche qui, c’è da chiedersi se non sarebbe invece il caso di stabilire in queste località abbandonate gruppi di migranti addetti alla manutenzione del territorio, la cui presenza potrebbe favorire lo svilupparsi di un modesto indotto che permetterebbe di evitare il formarsi di enclaves esclusivamente straniere (anche se bisognerebbe ricordare che fin dal basso medioevo esiste un paese come Piana degli Albanesi, dove si continua a parlare appunto l’albanese). Probabilmente ci sarebbe da vincere la resistenza dei pochi sopravvissuti, forse gelosi della loro “identità”, parola “avvelenata”, come la ha definita Francesco Remotti (6)– che copre un sostanziale razzismo, come ha ulteriormente chiarito Amartya Sen (7).

Ovviamente le cose non sono così semplici, né così a buon mercato: ci dovrà essere una lunga e difficile progettazione; i gruppi di richiedenti asilo dovranno essere non solo istruiti, ma anche guidati da tecnici e ingegneri; in qualche modo in quei borghi e villaggi dovrà essere ricostruita una struttura amministrativa e di sorveglianza. C’è infine il rischio che quel lavoro volontario venga, nel tempo, percepito come lavoro forzato. Tuttavia sono convinto, come molti, che le spese complessive saranno, nel lungo periodo, inferiori a quelle necessarie per far fronte al succedersi delle emergenze. La differenza è che, in questo caso, i soldi dovranno essere certo non tanto pochi, ma soprattutto maledetti e subito.

 

TESTI CITATI:

  1. Antonella Detanisha, La criminalità albanese. Sviluppo e collegamenti internazionali, tesi di laurea Univ. di Milano
  2. Corrado Bonifazi, L’immigrazione straniera in Italia, Il Mulino 20072.
  3. Ceccagno-Rastrelli, Ombre cinesi. Dinamiche migratorie della diaspora cinese in Italia, Carocci, 2008.
  4. Jeremy Rifkin,  La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro e l’avvento dell’era post-mercato, Mondadori 2002 (1995). Rifkin corresse le sue previsioni nel successivo La terza rivoluzione industriale, Mondadori 2011. Ma si veda anche Alec Ross, Il nostro futuro. Come affrontare il mondo nei prossimi vent’anni, Feltrinelli 2016.
  5. Dania  Bellesi, Il volontariato dei richiedenti asilo, “l’Unità”, 8\02\2017.
  6. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, 20142
  7. Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza 2006.
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