“L’Euro di Ionesco” di Antonio Lettieri

 

Antonio Lettieri – (da Eguaglianza e Libertà) La crisi dell’eurozona è il segreto meglio nascosto della campagna elettorale. Macron tenta di riconquistare un ruolo di parità nei confronti della Germania e contratta con Merkel la riforma dell’Ue, che però non toccherà il punto fondamentale, cioè le regole tecnocratiche che anche autorevoli economisti internazionali giudicano severamente
  1. Nel 2018 ricorre il decimo anniversario dall’inizio della crisi con il collasso della Lehman Brothers, la grande banca d’investimenti americana. Da allora l’economia mondiate è completamente mutata. L’eurozona è l’unica area del pianeta che, considerata nel suo insieme, stenta a uscire dalla crisi, facendo segnare i minori tassi di crescita e i più alti tassi di disoccupazione. L’Italia ne è stata, nel 2017, un tipico esempio con uno dei più bassi tassi di crescita e uno dei più alti tassi di disoccupazione dell’eurozona. Il paradosso è che l’euro doveva rappresentare all’inizio del secolo, quando fu istituito, un paracadute rispetto alle possibili crisi sulla scena internazionale. Le cose sono andate in senso contrario. Gli Stati Uniti hanno ritrovato un ritmo di crescita sufficiente, e ridotto la disoccupazione al 4 per cento, il livello più basso da due decenni. Il Giappone soffre di una mancanza di mano d’opera che rischia di bloccarne la crescita. Al contrario, nell’eurozona la disoccupazione oscilla intorno al dieci per cento, in Italia all’11, in Spagna al 16, per non citare la Grecia ridotta in brandelli.

E’ interessante notare che questo divario non è un attributo dell’Unione europea, ma una caratteristica tipica dell’eurozona. La maggior parte degli stati membri dell’UE non appartenenti all’eurozona è, infatti, contraddistinta da livelli di crescita oscillanti fra il 3 e il 5 per cento, tra i più alti delle economie di mercato, come è il caso, per fare degli esempi, di Svezia, Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, e così via.

Questo è il quadro generale che prospetta l’eurozona nei confronti economici con le altre aree del mondo. Ma il quadro generale è ingannevole, come capita sempre quando ci si ferma alle medie. L’eurozona presenta un panorama economico variegato e lo scenario tedesco si presenta profondamente diverso. La Germania non partecipa delle sofferenze dell’eurozona. Al contrario, l’euro ne ha rafforzato la posizione in Europa e nel mondo. Il suo tasso di crescita è stabilmente al di sopra della media dell’eurozona e il tasso di disoccupazione, pari al 3,6 per cento, è il più basso della sua storia da molti decenni a questa parte, e tra i più bassi a livello globale.

Al tempo stesso, vanta il più forte e stabile avanzo commerciale del mondo capitalistico, confrontabile solo con quello della Cina. E il bilancio ha raggiunto nel 2017 il formidabile avanzo di circa 40 miliardi di euro. L’eurozona che Robert Mundell, l’economista canadese-americano, premio Nobel, considerava una potenziale ’”area monetaria ottimale”, alla prova dei fatti, si è rivelata l’area più disomogenea del mondo capitalistico. La stella della Germania brilla nel firmamento dell’eurozona, ma non potremmo essere più lontani da un’area “ottimale”.

  1. Prima l’Unione europea, poi l’eurozona, non sarebbero state immaginabili senza la partnership franco-tedesca. Una partnership inizialmente a dominio francese, quando Schumann e Monnet “inventarono” la Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio, a metà del secolo; poi quando Mitterand e Delors negli anni ’80  promossero il grande balzo in avanti della moneta unica.

Ora, Emmanuel Macron si è assunto l’arduo compito di rivitalizzare la vecchia e gloriosa partnership promuovendo un’audace politica di riforme, la prima delle quali, non a caso, è la riforma del lavoro. Conviene guardarla da vicino, utilizzando un recente editoriale del Financial Times, che ne propone una sintesi. “La maggior parte delle imprese – scrive il giornale della City – potrà negoziare i salari e le condizioni di lavoro direttamente con i lavoratori e potrà più facilmente assumere e licenziare” (5/1/2018).

Indubbiamente, una riforma radicale destinata alla cancellazione della contrattazione collettiva e della funzione dei sindacati, considerati un residuo novecentesco.  Il F.T. nota che “mentre queste misure gli hanno inevitabilmente alienato il consenso di una parte dei suoi sostenitori di sinistra, è stata apprezzata la novità di un presidente capace di dar seguito alle proprie promesse elettorali”.

Macron definisce, com’è diventato di moda, il suo governo “né di destra né di sinistra”. Ma il programma su lavoro, contrattazione collettiva, salari, spesa sociale è così classicamente di destra che avrebbe suscitato l’invidia di Margaret Thatcher, costretta a mobilitare l’esercito per aver ragione del sindacato dei minatori nella storica battaglia del 1984. La grande stampa europea indica il programma di Macron come la soluzione della crisi dell’eurozona, e l’Economist ha dedicato a Macron la copertina, eleggendo la Francia a “paese dell’anno”.

Mentre Macron smantella la contrattazione collettiva, è significativo che contemporaneamente in Germania la IG Metall, il sindacato che affilia circa quattro milioni di metalmeccanici, negozi una piattaforma rivendicativa che comprende un aumento del salario di sei euro l’ora, e la riduzione dell’orario di lavoro da 35 a 28 ore settimanali, con una perdita di salario parzialmente compensata dall’intervento pubblico, per i lavoratori che ne facciano richiesta per ragioni personali o familiari – una piattaforma evidentemente consentita a un paese che si colloca con buone ragioni al centro dell’eurozona, mentre nelle province dell’impero diventa un’innovazione esemplare la liquidazione della contrattazione collettiva.

E’ su questa base che Macron ritiene di avere le carte in regola per ottenere dalla Germania una riforma politica e istituzionale degli assetti dell’eurozona. In particolare, l’istituzione di un ministro delle Finanze europeo – dobbiamo supporre francese – potrebbe essere accettata dalla Germania come contropartita alla nomina di un presidente tedesco alla testa della Banca centrale europea come successore di Draghi. Né dovrebbe incontrare particolari ostacoli l’istituzione di un Fondo monetario europeo, dopo il conflitto con il FMI al tempo della crisi greca.

Il documento congiunto di CDU-CSU e SPD non lascia adito a equivoci. Su richiesta di Martin Schulz, l’Europa compare al primo posto nella Dichiarazione congiunta ma, pur con l’impegno di espandere il bilancio dell’UE, rafforzando il “Meccanismo europeo di stabilità”, non s’intravvedono cambiamenti significativi. A Schulz rimane la soddisfazione di aver annunciato la costituzione degli “Stati Uniti d‘Europa” entro il 2025, magro, quanto illusorio, conforto per un partito che sotto la sua guida ha ottenuto il peggiore risultato elettorale degli ultimi 70 anni.

Nel 2017 la Germania ha elevato in termini consistenti gli investimenti interni e può certamente andare avanti su questa strada utilizzando parte dell’avanzo di bilancio. Ma non si vede perché dovrebbe porre le proprie risorse a disposizione degli investimenti francesi, quando la Francia si è posto l’obiettivo formale di muovere verso il pareggio del bilancio, riducendo la spesa pubblica, quindi gli investimenti, oltre alla spesa sociale.

  1. 3. Che l’Italia sia l’anello debole della catena dell’eurozona non ha bisogno di molte spiegazioni. Proprio per questo, si poteva immaginare che la scadenza elettorale di marzo ne avrebbe fatto un punto centrale del dibattito. Niente di più sbagliato. Con una specie di “Gentlemen agreement”, i partiti si sono progressivamente allontanati dal tema. Ultimo nella lista Di Maio, candidato simbolico alla direzione del governo per conto dei Cinque stelle. Il timore è che il semplice alludere a dei dubbi sull’euro comporti il rischio di essere ”ostracizzati”, privati della cittadinanza, e allontanati dalla città, come usava nell’Atene di Pericle.

Secondo le previsioni, dopo il 4 marzo nessuno dei tre blocchi elettorali potrà far valere una maggioranza di governo. Ma un governo con Gentiloni, o un suo sostituto, ci sarà e dovrà fronteggiare la crisi. Per rispetto delle regole dell’eurozona dovrà garantire il raggiungimento del pareggio del bilancio entro il 2019, continuando a tagliare la spesa o aumentando le imposte, o combinando entrambe le misure.

Nel frattempo, la BCE porrà fine al “Quantitative easing” con il prevedibile aumento dei tassi e del costo dell’indebitamento. Oltre al pareggio del bilancio, il Fiscal compactla cui validità quinquennale è scaduta col 2018 – ma che continuerà a vivere anche senza entrare a far parte dei Trattati dell’Unione europea, se nessun paese membro dell’Unione ne dichiarerà la decadenza –  prevede l’avvio della riduzione del debito pubblico fino al raggiungimento, nel giro di venti anni, di un ammontare non superiore al 60 per cento del PIL – un obbligo che impone all’Italia di proseguire a tempo indefinito con una politica di bilancio restrittiva, soffocando la crescita.
Per un paese che presenta il più basso tasso di crescita dell’eurozona e l’11 per cento di disoccupazione, si tratta di un insieme di misure contrario al buon senso e a qualsiasi sano principio di politica economica. Ma per la campagna elettorale il tema dei vincoli derivanti dalle regole fiscali dell’eurozona – tutti sottoscritti o avallati dai governi italiani, da Monti a Letta a Renzi fino a Gentiloni – non esiste. O se esiste, deve essere nascosto allo sguardo dei comuni elettori. Tutto questo può apparire assurdo, una sorta di pièce del “Teatro dell’assurdo” di Ionesco, dove il tragico e il grottesco si intrecciano inestricabilmente. Una recita che ha il difetto di non poter durare molto oltre l’inverno, quando i nodi verranno al pettine.

Il punto è che si non possono ridurre i debiti se la crescita rimane soffocata. E non si può perseguire il pareggio del bilancio prima di adottare le misure indispensabili per rimettere in moto la crescita. Il pareggio del bilancio è in sé un obiettivo astratto. L’assetto del bilancio varia da un paese all’altro per ragioni strutturali e per il variare delle circostanze. Basta confrontare i dati correnti: la Germania ha un avanzo di bilancio pari allo 0,6 del PIL, l’Italia un disavanzo del 2,3 per cento, la Francia del 2,9; la Spagna del 3 per cento, e così via. Se si allarga lo sguardo all’intera Unione europea, i divari sono ancora più marcati: per esempio, la Svezia ha un avanzo dell’1,0, mentre la Polonia un disavanzo del 3,3. E non ostante queste differenze, si tratta di paesi con un tasso di crescita variabile fra il 3 e il 4,5 per cento.

In altri termini, i disavanzi hanno una propria dinamica che riflette un’ampia quantità di fattori, e produce effetti profondamente diversi. Per l’eurozona tutte le vacche sono nere nell’oscurità delle sue regole e se non lo sono devono diventarlo nel più rapido tempo possibile. Fuori di metafora, tutti debbono azzerare i disavanzi di bilancio, per raggiungere il Sacro Graal del pareggio nel più breve tempo possibile. Si tratta di dati di fatto che testimoniano i paradossi dei vincoli che imprigionano l’euro.

Ma vale la pena di ricorrere alla sintesi che ne offre Barry Eichengreen, professore di economia a Berkeley e a Cambridge.
“È ormai tempo di abbandonare la finzione secondo cui la fonte ultima della disciplina fiscale è un insieme di regole UE rigorosamente applicate. La tassazione e la spesa pubblica restano importanti prerogative nazionali, rendendo inefficace la sorveglianza esterna. (…) L’alternativa è restituire il controllo della politica fiscale ai governi nazionali, abbandonando la pretesa che la politica possa essere regolata dalle norme dell’UE. I governi dovrebbero poter adottare le proprie decisioni; se prendessero decisioni sbagliate, dovrebbero ristrutturare i loro debiti (…) Eventuali conseguenze negative non investirebbero altri paesi, perché le loro banche non conserverebbero grandi concentrazioni di titoli di Stato”. (The Guardian – Can Macron and Merkel agree on how to fix the eurozone? –11/9/2017).

L’argomento è chiaro. L’euro è la moneta condivisa, ma ciascun paese deve essere responsabile della propria politica di bilancio. Questo non significa che si possa godere di pasti gratuiti. Poiché ogni paese è soggetto al giudizio dei mercati, i livelli di disavanzo entrano a far parte dell’insieme degli elementi che determinano i tassi d’interesse. I quali sono diversi sulla base della complessiva condizione di solvibilità di ciascun paese, con o senza la presenza della moneta unica. Se guardiamo all’emissione di titoli di Stato con durata decennale vediamo, a titolo d’esempio, le seguenti differenze: la Germania corrisponde un interesse annuo pari a 0,45; la Francia 0,76; la Spagna 1,50; l’Italia 2,07. e così via.

In estrema sintesi, la partecipazione all’euro offre il vantaggio della stabilità del cambio, ma questo non implica necessariamente la paralisi della politica fiscale che ricade sotto la responsabilità di ogni singolo stato insieme con gli oneri che ne derivano per il suo finanziamento. Da dove deriva l’ostinata resistenza a un discorso aperto senza pregiudizi sull’euro e l’eurozona? Perché sottoporre il paese a regole di politica economica che l’esperienza dimostra inefficaci e controproducenti? In un recente articolo Dani Rodrik, professore di economia internazionale a Harvard, prova a darne una spiegazione convincente.

Vi sono scenari, scrive, nei quali “le restrizioni possono riflettere i particolari interessi delle élite stesse, per cementare il loro controllo sul processo decisionale. In questi casi, la delega ad agenzie indipendenti o l’adesione a regole globali non serve la società, ma solo una ristretta casta di “addetti ai lavori”. La “tecnocrazia liberale” è al suo apogeo nell’Unione europea, dove le norme e le regolamentazioni economiche sono state fondamentalmente progettate lontano dai processi democratici a livello nazionale. In ogni Stato membro, questo divario politico – il cosiddetto deficit democratico dell’UE – ha dato origine a partiti politici populisti, euroscettici. In tali casi, il risanamento dei vincoli sulla politica economica e la restituzione dell’autonomia politica ai governi eletti potrebbero essere auspicabili. I tempi eccezionali richiedono la libertà di sperimentare in politica economica “. (Dani Rodrik, “In difesa del populismo economico”, Project Syndicate, 9 gennaio 2018).

Dopo le elezioni di marzo, il governo, ammesso che ce ne possa essere uno in grado di arrivare al prossimo autunno prima di nuove elezioni, dovrà misurarsi con l’incompatibilità fra le conseguenze rovinose delle regole imposte da Bruxelles e una politica di responsabilità nazionale in ordine alle politiche di crescita, di occupazione, di spesa sociale.

O, per porre la questione in termini  positivi, la definizione di nuove compatibilità. A condizione di svelare l’incognita meglio nascosta della campagna elettorale: la crisi dell’eurozona. E, al tempo stresso, la possibilità di risolverla, senza uscire dall’euro, ma cambiandone le regole d’ingaggio.

(Venerdì, 19 Gennaio 2018)

image_pdf

Lascia un commento