Aspettando la cura. La vita con la fibrosi cistica un documentario di Stefano Vaja

La fibrosi cistica è la più diffusa delle malattie genetiche. Non esiste una cura, per cui finanziare la ricerca è l’unico modo per migliorare la qualità e l’aspettativa di vita. L’ospedale di Parma è centro regionale di riferimento per la fibrosi cistica.

Il documentario, il primo in Italia dedicato alla fibrosi cistica, è stato realizzato grazie alla Lega Italiana Fibrosi Cistica – Emilia e col parziale finanziamento di Fondazione Cariparma. Presentato al cinema Astra di Parma in aprile, è stato riproposto a dicembre presso il Ruolo Terapeutico di Parma, un’associazione di psicoterapeuti che da anni si occupa di clinica, formazione e ricerca.

L’incontro, nato dal desiderio di parlare delle persone, oltre che della malattia, è stato stimolante. Il presente dialogo con Georgia De Biasi, la terapeuta che ha condotto la serata, sviluppa alcune considerazioni emerse in quell’occasione.

 

Un aspetto interessante del tuo documentario è il fatto che permetta di acquisire informazioni su una malattia poco conosciuta, ma non limitandosi a questo. La sensazione, alla fine della visione, è di aver incontrato delle persone nella loro interezza, con le loro fragilità, le paure, ma anche i loro sogni. Questo implica avvicinarsi molto alla storia che si sceglie di raccontare e comporta un contatto in entrambe le direzioni, un contagio.

Cosa ha significato per te questo incontro, come si è trasformato in itinere e cosa ti ha lasciato?

E’ nato come un documentario sulla malattia ma col tempo ho capito che doveva diventare un racconto delle persone malate. C’è una differenza radicale. “Incontrare” delle persone consente l’immedesimazione, l’emozione, una possibilità di condivisione.

Mi piace usare la fotografia e i video come opportunità per entrare in contesti altrimenti inaccessibili o avvicinarmi a esperienze estreme. In una situazione come questa, il mio approccio è stato innanzitutto quello di una disponibilità all’ascolto e del massimo rispetto verso chi decideva di parlare e di quello che si sentiva di condividere.

Col montaggio poi mi sono costretto in una condizione di esasperazione perché sentivo l’esigenza di non risparmiarmi, mi sembrava doveroso dedicare tutto il tempo e le energie che avevo per ottenere il miglior risultato possibile, molto oltre l’impegno che avevo pianificato e per cui venivo pagato, ma era ciò che potevo fare per valorizzare quello che mi veniva raccontato.

Cosa mi ha lasciato? Tante cose, ad esempio la convinzione che le persone in difficoltà, quando riescono ad accettarla e andare oltre, spesso riescono a dare il meglio di sé, e possono essere di esempio per gli altri. Le persone malate che sono presenti nel documentario, grazie al percorso personale che hanno fatto e alla testimonianza che ci hanno regalato, sono un esempio di voglia di vivere e di lottare. Non vittime ma artefici del proprio percorso di vita. Insomma, la reazione ascoltando le loro storie non è “poveretti…”, ma semmai “caspita!”. Mi sono sentito gratificato perché per me è stata un’occasione di arricchimento sul piano umano.

 

Un altro aspetto che mi ha colpito è quanto molti dei temi evocati dalla visione riguardino si un’esperienza di malattia, ma ci interroghino tutti come essere umani, vivi, in ricerca.

Primo tra tutti il tema del limite, del senso da dare al nostro tempo.

La presenza di una malattia come la fibrosi cistica costringe a porsi alcune domande in questa direzione che a volte, colpevolmente, riteniamo da sani di poter differire a data da destinarsi…

Antonella, in chiusura del documentario, sottolinea quanto in molti dei ragazzi trapiantati emerga il tema dei sogni da realizzare, “come se il trapianto potesse dare ossigeno ai nostri sogni”.

La differenza tra una vita ricca e piena, di affetti e di significato, non è quindi la presenza o assenza di malattia, ma il modo in cui si sceglie di stare nel tempo che ci è concesso.

Assolutamente sì. E’ paradossale ma è così. Siamo abituati a pensare che la malattia sia qualcosa di brutto e su questo non ci sono dubbi, ma non ci accorgiamo invece del fatto che stare bene in salute non significa stare bene nel mondo. L’incontro con Antonella e suo marito ha rappresentato una svolta nell’ambito del documentario, ha aperto prospettive, perché ha saputo parlare apertamente di una morte vicina, in assenza della paura di morire. La sua vitalità e gioia di vivere sono contagiose. Non corrisponde certo allo stereotipo del malato grave, di chi addirittura ha dovuto subire un trapianto di polmoni. In qualche modo rischiamo di essere più ammalati di noia, di assenza di desiderio, di perdita di senso, noi cosiddetti “sani”.

 

Altro tema che credo abbia respiro più ampio che la relazione con una malattia è quanto a volte la patologia, o il sintomo, o qualcosa di noi diventi agli occhi degli altri così ingombrante da paralizzare lo sguardo e uccidere la curiosità.

Parlando di quest’esperienza hai sottolineato come in molti ti abbiano chiesto “Perché hai fatto questo documentario?”, come se ci fosse qualcosa di strano nel desiderio di raccontare questa storia. Come risponderesti a questa domanda?

Ascoltando i protagonisti del documentario, pazienti, famigliari, curanti, emerge infatti chiaramente come l’unico antidoto alla paura e alla solitudine sia la conoscenza. Forse allora vale davvero la pena che ogni storia possa essere raccontata, anche quelle che sentiamo più lontane o rispetto alle quali nutriamo più pregiudizi.

Ho percepito in quella domanda fatta da diverse persone un senso di disagio. Come dire la cosa non mi riguarda, non ci voglio pensare, meglio non sapere: una malattia genetica è diversa ad esempio da un tumore, il tumore può colpire chiunque, la malattia genetica solo i malati e i suoi familiari. Quando parlo del lavoro sull’Oncoematologia Pediatrica la reazione è di dolore, perché si tratta di bambini, dunque completamente differente. In generale c’è un senso di disagio di fronte a una malattia grave, e spesso la voglia di ascoltare storie serene, di disimpegnarsi. Ma questa in parte è anche una storia positiva, ci si confronta con la sofferenza e il timore di non farcela certo, ma anche con momenti ironici e con la voglia di esserci. Quante persone, se dovessero parlare della loro vita, saprebbero valorizzare questo aspetto, la voglia di vivere?

Il pregiudizio poi è un sentimento sempre orribile. I ragazzi a scuola sanno dire ad esempio cose terribili sugli immigrati, dimenticando completamente che il compagno di banco o quello della fila dietro è straniero e spesso già anche amico. E i due piani non sono per loro in contraddizione. Il pregiudizio si combatte abbattendo i muri, aprendo i manicomi, chiudendo le scuole speciali e accogliendo i disabili in una scuola davvero di tutti, rendendo il carcere permeabile a una società davvero civile, parlando, ascoltando, facendo conoscere, confrontandosi, cercando lo sguardo dell’altro. Il nostro pregiudizio è la paura della malattia, e che sia una storia triste; la loro invece è la testimonianza di chi è andato oltre la paura di soffrire, di chi sa gustarsi ogni tregua che la malattia concede.

 

Michele parla della fibrosi come di un’amica invisibile, sempre presente, ma difficile da vedere e da comprendere da fuori. Questo fa emergere il tema dello svelamento, toccato in modi diversi da molti dei protagonisti del documentario: quanto dire di sé e delle proprie fragilità? Cosa permette uno svelamento? Come avvicinarsi alle parti dolenti dell’altro?

Credo che siano necessarie due cose: un percorso di accettazione da parte di chi soffre, perché il primo atteggiamento è quello di nascondersi, vergognarsi, avere paura delle reazioni degli altri. Nel momento in cui c’è l’accettazione, la consapevolezza che devi valorizzare ogni singolo giorno, allora per molti non è più un problema parlarne; a quel punto servono delle occasioni per farlo. C’è chi si confida, chi addirittura ne parla apertamente con tutti, oppure può esserci un’occasione insolita come il documentario. Una cosa che trovo terribile è che oltre alla sofferenza e alla malattia queste persone debbano anche vivere il peso del nostro disagio, del nostro girare la testa dall’altra parte.

La reazione di chi ha visto il documentario è stata in genere di emozione, stupore, apprezzamento. Si tratta sempre di fare “un passo al di là”, di andare incontro agli altri, di mettersi in gioco. Il resto lo si può chiamare o camuffare in tanti modi ma è soprattutto paura.

 

Parlando di relazioni viene inevitabile pensare alle famiglie dei pazienti, dal momento della diagnosi, al confronto quotidiano con le limitazioni che la malattia impone, fino al tema della paura della perdita.

Antonella dice molto bene quanto per i famigliari e gli amici le cicatrici siano dentro, e non sul corpo, e come sia difficile per loro abbandonare la paura.

Ecco allora l’importanza di una rete a cui affidarsi, e di percorsi che di tutti gli attori di questa umana vicenda possano tenere conto.

Dalle immagini e dalle parole dei ragazzi sembrano emergere reparti capaci di prendersi cura in modo buono non solo di corpi, ma di persone e relazioni.

Questo è un tema enorme e di nuovo che ci riguarda tutti. Parliamo sempre di tagli alla sanità e non li mettiamo mai in relazione con la qualità delle cure. Ma noi quando saremo ricoverati in ospedale come vogliamo essere curati? Conviene pensarci subito, perché quando capiterà sarà troppo tardi per cambiare le cose. Nel documentario si vedono le stanze dei malati di fibrosi cistica, nel reparto di Pneumologia dell’ospedale di Parma, dotate di due letti per un solo paziente. In termini economici sembrerebbe uno spreco, ma se devi rimanere uno, due, tre o più mesi ricoverato, la possibilità di avere un familiare che dorma con te e si occupi di te è in realtà un guadagno per tutti. Poi c’è il tema dell’associazionismo, che ormai è fondamentale per integrare l’assistenza ai malati e per sostenere economicamente gli stessi reparti. Praticamente ogni malattia ha un’associazione composta da familiari e volontari che si occupa di raccogliere fondi. E soprattutto costituisce una rete di conoscenze, professionalità, amicizie che consente alle famiglie e ai malati di non sentirsi soli, che consente di condividere le esperienze, le fatiche, i dolori, le gioie.

 

Un altro aspetto importante è quanto durante la visione non si venga trascinati in un mondo semplificato, con la messa in luce del solo positivo, nella creazione di un quadro esclusivamente ottimistico, ma poco realistico, o solo negativo, in una visione impregnata di pietismo.

E’ un difficile equilibrio quello che hai raggiunto con il documentario, che permette di non negare paura e dolore, ma non indulge in quegli stati.

Questa per me è stata la questione principale, la più delicata: nell’accumularsi delle testimonianze doveva emergere un quadro complesso, fatto di esperienze differenti della malattia. C’è chi non ha bisogno del trapianto di polmoni e chi come Estela già da adolescente è in lista d’attesa, c’è chi è attaccato 24 ore al giorno all’ossigeno e chi come Andrea fa apnea e riesce a scendere a 26 metri di profondità senza ossigeno. C’è Anna seduta sul letto della figlia Vera, che purtroppo non c’è più, e che parla di lei con una dignità infinita, e c’è Giulio che festeggia con gli amici il primo anniversario del trapianto, con una memorabile grigliata e con cori da stadio.

Nel documentario vengono dette alcune cose sull’aspettativa di vita molto delicate, che non tutti i familiari sono disposti a sentire. Ma era necessario riuscire a dirlo, altrimenti viene a mancare il riconoscimento della fatica che queste persone fanno, della paura che affrontano, viene a mancare il quadro generale. Si parla della battaglia quotidiana contro la malattia dimenticando che è una guerra senza quartiere. E subentra il problema dei tabù, delle cose che non si possono dire, che non si sanno ascoltare, che non si vogliono sapere. Come se la rimozione consentisse la cancellazione del problema. Trovare un equilibrio tra gioia e dolore, che poi sono l’essenza della vita, è stata la mia preoccupazione principale.

 

Ora che la parte creativa e narrativa è terminata, si è aperta una nuova fase, che ha a che fare con il poter far conoscere il documentario, farlo arrivare il più possibile lontano, permettere che abbia gli effetti per i quali è stato pensato.

Qual è lo stato delle cose e quali sono le speranze per il futuro?

In generale mi sono reso conto che senza la figura di un produttore le possibilità di circolazione si riducono molto, ad esempio sui canali nazionali. Questo è un aspetto molto delicato, perché senza un professionista che si occupi di creare occasioni sistematiche o significative di visione tutto diventa limitato. Come dire una cosa importante quando sono in pochi ad ascoltarti. E’ un problema. Nello specifico i consiglieri regionali Barbara Lori e Alessandro Cardinali stanno portando avanti una risoluzione per proporre alle scuole della regione la visione del documentario come attività formativa; lo abbiamo messo a disposizione della Lega Nazionale e delle varie associazioni regionali; dovrebbe essere trasmesso in questo periodo su Tv Parma e su TeleReggio. E lo stiamo presentando ogni volta che ne abbiamo la possibilità.

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