Una storia ben ricordata di Diego Giachetti

 

Quando ho appreso dell’uscita del libro Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977), curato da Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli (Mimesis, Milano 2021), mi son detto: “finalmente”, un testo che dà luce a una storia importante, almeno quanto quelle di altre organizzazioni politiche degli anni Settanta già raccontate, come nel caso di Lotta Continua, Il Manifesto, Il Partito di Unità Proletaria, Potere Operaio, l’Unione dei Comunisti Italiani-Servire il Popolo, la variegata area dell’Autonomia Operaia, per non dire del favore mediatico goduto dalle principali formazioni della lotta armata. Fin dal lontano 1973, in un libro allora unico sull’argomento, Giuseppe Vettori, nel tracciare una storia della Sinistra extraparlamentare in Italia (Newton Compton edizioni), aveva segnalato che Avanguardia Operaia costituiva uno dei punti più alti raggiunti dalla sinistra rivoluzionaria italiana in quegli anni, sia per quanto concerneva l’elaborazione teorica e sia per i concreti risultati politico-organizzativi. È il gruppo, scriveva, che più offre un’impressione di solidità, di consapevolezza responsabile. Era un giudizio a caldo che da anni aspettava una conferma, venuta ora dal libro appena pubblicato.

Il libro racconta la nascita e la fine di Avanguardia Operaia senza trionfalismi, mettendo anche in risalto, là dov’è necessario, errori, velleità e ingenuità, senza eccedere col saputello senno di poi, di un gruppo di compagni che, come dice il titolo, “volevano cambiare il mondo”, cioè dimostrare, per dirla con Vittorio Rieser, che “non solo un altro mondo, ma anche un altro socialismo era possibile”. Dopo un’introduzione di carattere generale, da parte dei due curatori, il libro si snoda per capitoli tematici scritti da più protagonisti, che ripercorrono i settori d’intervento politico, sindacale, culturale dell’organizzazione: i Comitati Unitari di Base (Franco Calamida), il movimento degli studenti (Marco Poalini), il movimento delle donne (Grazia Longhi), la politica sul territorio e le lotte sociali (Claudio Madricardo), il lavoro culturale (Vincenzo Vita), l’antifascismo e il servizio d’ordine (Paolo Miggiano), l’intervento nelle forze armate (Alberto Madricardo).

Di cosa si parla

Avanguardia Operaia (A.O.) prende il nome dall’omonimo foglio di intervento operaio pubblicato a Milano a partire dalla seconda metà del 1967, ad opera di militanti in procinto di abbandonare la sezione italiana della IV Internazionale, in collegamento con lavoratori di alcune fabbriche che, di lì a poco, costituiranno i Comitati Unitari di Base (CUB). Nell’effervescenza del biennio delle lotte studentesche e operaie del 1968-69, dalle quali traggono origine, per ragioni e motivazioni diverse, gruppi politici come Lotta Continua, Potere Operaio, Il Manifesto, l’Unione dei Comunisti Italiani, la collocazione ideologica e politica di A.O. ha una sua specificità. Non è “spontaneista”, non è “operaista”, è leninista ma ben lontana dal variegato mondo politico dell’area maoista-marxista-leninista, rifugge da tentazioni “lottarmatiste”. È erede di una tradizione bolscevico-leninista decisamente antistalinista e come tale imposta la sua costruzione organizzativa: statuto, cellule d’intervento nei movimenti, costruzione dei CUB nelle fabbriche, direzione centralizzata, attenzione alla formazione dei quadri e dei militanti, tesseramento con distinzione tra militanti e simpatizzanti. Nata a Milano, avvia un processo di crescita basato sul confronto-inclusione con gruppi politici affini, presenti in varie città d’Italia, sulla base di un progetto che ha per scopo l’unificazione dell’area leninista.

Fa una certa impressione oggi rilevare come in quegli anni si fossero costituiti una miriade di circoli, centri marxisti, leninisti, di documentazione e di intervento politico operanti in diverse città, fuori e alla sinistra dei partiti tradizionali del movimento operaio. Ad esempio, già sul finire del 1968 ad un seminario promosso da A.O. risultavano invitati gruppi “affini” di Torino, Asti, Cremona, Brescia, Venezia, Toscana, Roma, Perugia, Rimini, Pavia, Ravenna, Palermo. E l’anno dopo al convegno indetto da A.O parteciparono Unità operaia di Roma, il Circolo Lenin di Palermo, il circolo Karl Marx di Perugia, Riscossa operaia di Ravenna, Lotta di classe di Ivrea, Potere operaio di Pontedera. È questa una fase dai connotati “estremisti”: astensionismo, scarsa attenzione alla militanza sindacale, promozione dei CUB come strutture autonome dal sindacato, presto abbandonata col passaggio nel 1974ad organizzazione nazionale. I CUB non vengono più considerati come contraltare al sindacato, si accetta di aderire ad esso e di lavorare soprattutto nei consigli di fabbrica, la teorizzazione dell’unificazione dell’area leninista si apre a quella dell’area della rivoluzione, nella quale è possibile anche il dialogo con Lotta Continua e il Manifesto.

Ai primi di ottobre 1974 si tiene a Roma il quarto congresso di A.O. che elegge un Comitato centrale di 96 persone con la seguente composizione sociale: 15 operai di fabbrica, 7 proletari di condizione simile agli operai di fabbrica (operai dei servizi, disoccupati), 16 impiegati, 16 insegnanti, 5 ricercatori, 3 studenti, 34 funzionari dell’organizzazione, dato quest’ultimo che indica una crescita organizzativa e finanziaria di un certo rilievo che trova conferma alla Conferenza d’organizzazione del gennaio 1976. Nella relazione introduttiva, pubblicata il 5 gennaio sul Quotidiano dei lavoratori, la cui pubblicazione era stata avviata il 26 novembre 1974, si affermava che alla fine del 1972 A.O. era presente in 25 province: la metà degli iscritti erano in Lombardia, il 25% in provincia di Milano. Quattro anni dopo era presente in 85 province e risultava assente in sole 5 città italiane sopra i 100.000 abitanti.

Dal bilancio pubblicato sul già detto quotidiano il 30-31 gennaio 1977, si deduceva che l’organizzazione contava 10.156 militanti e 3.317 tesserati simpatizzanti. In quell’anno, per tante ragioni, le organizzazioni della nuova sinistra conoscono una crisi profonda. La stessa A.O ne è in parte travolta quando fallisce il processo di unificazione col Partito di Unità Proletaria, ridimensionando il progetto di costituzione di Democrazia Proletaria che vedrà lo stesso la luce l’anno seguente, col conseguente scioglimento di A.O. e la confluenza nella nuova organizzazione che attraverserà degnamente i difficili anni Ottanta.

Una storia ricostruita sul filo della memoria

L’aspetto singolare del libro è costituito dal ricorso sistematico alla memoria dei protagonisti, per cui risultano esserne anche gli autori, secondo un metodo che una volta si sarebbe definito “conricerca” o, con parole più prosaiche, “lavoro di gruppo”. È una memoria raccolta sistematicamente, per essere il più possibile rappresentativa dell’universo che si vuole indagare, pensata e realizzata attorno a un progetto nato dal felice incontro tra Giovanna Moruzzi, una delle prime militanti a Milano, moglie di uno dei dirigenti della prima ora prematuramente scomparso, Michele Randazzo, e Fabrizio Billi, storico, dell’Archivio Marco Pezzi di Bologna.

Raccolgono circa 110 interviste, con un questionario ben strutturato che non lascia spazio al caso. Rintracciano le persone, stabiliscono il luogo in cui intervistarle, fissano gli appuntamenti, registrano, sbobinano e archiviano sul sito del suddetto archivio. Le memorie provengono da Milano, Torino, Verona, Venezia, Roma e Napoli, Padova, Firenze e Perugia. Il campione vuole essere rappresentativo dei diversi livelli dell’organizzazione, cioè sia dirigenti (il 32% degli intervistati) che compagni di base. Vuol dare voce a tutti i settori dell’intervento politico di A.O.: studenti universitari e medi, lavoratori-studenti, operai, impiegati, tecnici, donne.

Dai dati raccolti emergono informazioni significative: nei primissimi anni Settanta circa il 40% degli intervistati aveva meno di 20 anni, un altro 40% aveva un’età compresa tra i 20 e i 25 anni, solo il 9% era tra i 25 e i 30 anni, pochissimi quelli che avevano superato i trenta; il 23% degli intervistati era di famiglia operaia, il 47% di famiglia piccolo borghese (artigiani, commercianti, impiegati, insegnanti ecc.), il 10% di famiglia borghese; provenivano da ambienti cattolici (16%), da famiglie comuniste o di ex partigiani (30%), si avvicinarono all’impegno politico per una propria maturazione culturale (42%) variegata: dall’esistenzialismo a classici anarchici, dalla musica dei Nomadi e dell’Equipe 84, all’impegno nel movimento pacifista, antiautoritario, di rivolta contro il perbenismo ipocrita, stimolati dalla lettura di Lettera a una professoressa di don Milani. La maggior parte degli intervistati spiega la sua adesione ad A. O. perché era il gruppo più serio, più organizzato, più colto ed era radicato nelle fabbriche.

Buona parte della storia o delle vicende narrate sono tratte dai loro racconti, riproposti e contestualizzati attorno a una salda cronologia, estratta dalla consultazione delle “carte”, fatta dietro le quinte da Fabrizio Billi. Ne risulta un raccontare sul filo della tensione dialogica tra presente e passato. Qualcosa di più dell’esercizio dello storico che osserva il passato tenendo conto di interpretarlo e giudicarlo con gli occhi del presente. Qui la tensione è tutta dentro il soggetto che racconta, perché egli stesso è il presente del suo passato. Si rompe così l’assioma, consolidato e ripetuto, del presente che interroga il passato. Nei loro racconti è anche il passato che interroga il presente. Il rapporto insomma s’inverte, si rovescia nel gioco continuo dell’analogia fra ciò che è stato e ciò che è, e costringe la comprensione storica a un doppio percorso incrociato tra presente e passato.

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