Formidabili quegli anni? Cronaca personale di una sessantottina di Paola Martini

 

Esprimere un giudizio su quello che viene etichettato come «il Sessantotto» non è facile, vista la discordanza delle voci che abbiamo ascoltato in questi ultimi decenni.

Per me che li ho attraversati, ormai appare chiaro che ognuno dei protagonisti, grandi o piccoli che siano stati, non può che raccontarne uno spaccato parziale, senza pretendere di descriverli nella loro totalità. Tante furono le storie e tanti i percorsi di vita che, tuttavia, alla fine confluirono in quell’esplosione contestataria, antiautoritaria, progressista, anticapitalistica e radicale che è stato chiamato «il Sessantotto.

La mia, per esempio, è la storia, dapprima periferica, di una ragazza nata in una famiglia benestante di un sonnacchioso paesino del Valdarno (Pisa), ancora immerso, agli inizi degli anni cinquanta, in un mondo agricolo, dove erano palesi le differenze tra notabili (il medico, il farmacista, l’avvocato, il proprietario di una piccola o media industria) e i subalterni. Se si è spalancata davanti a me l’opportunità di cambiare idee e stile di vita e di vivere “il mio Sessantotto”, lo devo prima di tutto alla presenza, all’interno della mia famiglia, per quaranta anni di seguito, di una saggia contadina, intelligente e orgogliosa, la mia Tata. Una “senza storia” che è stata, al contrario, la mia prima fonte documentaria di vicende parallele che si vivevano in dimensioni meno fortunate della mia. Da lei ho ascoltato un controcanto puntuale, ma mai rabbioso, nei confronti di chi parlava, nell’Italia di allora, di una “società del benessere”.

Il liceo a Empoli, l’incontro con nuovi maestri, la riflessione, gli studi, la cittadella universitaria fiorentina, gli amici, gli amori hanno fatto il resto. Come identificare questa mia vita paesana di ragazza borghese, estranea alla politica, con quella di un mio coetaneo nato in una realtà cittadina dinamica come quella di Roma, Milano o Torino? Magari di estrazione operaia, con un padre attivista di un partito politico antagonista delle dure logiche del capitalismo? Eppure questi mondi divisi, soprattutto in alcune aree geografiche del paese, si sono incontrati, si sono dati una mano e si sono sentiti pronti a lottare “per un mondo migliore”.

La famiglia
La famiglia italiana dei primi anni sessanta poco si discostava da quella del ventennio precedente. Questo non va mai dimenticato perché la spinta antiautoritaria e la ribellione contro i padri furono centrali per i ragazzi e le ragazze del Sessantotto. L’autorità del padre, la sua parola, le sue decisioni non venivano che raramente messe in discussione dalla moglie, meno che mai dai figli. Il diritto di famiglia era quello del Codice Rocco, sostituito solo nel ’74. Le più controllate, all’interno del nucleo familiare, erano le ragazze. Ai “maschi”, infatti, veniva concessa nell’adolescenza una certa libertà di movimento, anche perché la loro vivacità sessuale non metteva in discussione l’onorabilità della famiglia, anzi! Le ragazze, invece, dovevano sottostare a regole precise ed era fondamentale per il loro decoro non perdere la verginità prima del matrimonio. La Chiesa, d’altronde, condannava come peccatrici le rare ragazze-madri e non le ammetteva neppure ai sacramenti. Di sessualità, di contraccezione era proibito parlare, così come proibita era ancora la vendita di anticoncezionali (né avrei osato, più tardi quando ormai ero adulta, acquistarli da mio padre farmacista!).

Quando Franca Viola, nel 1966, ad Alcamo rifiutò di sposare il suo stupratore, non accettando il consueto “matrimonio riparatore”, compì un atto inusuale e dirompente non solo per le donne del Sud ma per tutte noi. Affermò la legittimità della scelta autonoma di un amore e rifiutò di considerarsi “bruciata”, “morta socialmente”, perché non più vergine. La tv ci informava di questi fatti di cronaca e diventava un potente amplificatore di un’esigenza di libertà e di autonomia che, come “giovani”, categoria sociologica che si andava codificando, avvertivamo.

I giovani anni sessanta, la tv, la musica
Chi erano i giovani degli anni sessanta? Cosa volevano? Perché erano in fermento e si sentivano legati ai giovani degli altri paesi occidentali? Dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Germania arrivavano immagini di ragazzi e ragazze che stimolavano in noi il desiderio di “esistere”, cioè di contare e poter dire la nostra prima di diventare maggiorenni (in Italia si diventava maggiorenni a 21 anni). Ci apparivano più dinamici, meno ingessati. In cammino, sulla strada, come gli hippy, quanto noi eravamo immobili. La rasatura militaresca dei capelli si era trasformata in un caschetto irridente con i Beatles (già nel primo 33 giri del ’63: Please, please), come se questi giovani rifiutassero clichés non scelti in prima persona. Beat, capelloni, senza morale, li definivano i nostri padri, riuniti la sera a giocare a briscola nei bar, mentre noi ascoltavamo incollati ai transistor quella musica rock, trasmessa da «Bandiera gialla», di cui non capivamo le parole, lontana anni luce dal melodico di Nilla Pizzi e Claudio Villa e che sapeva farci emozionare.

I paesi, la campagna
Il mio piccolo paese, di duemila abitanti circa e una percentuale di votanti il Pci che sfiorava l’80%, con la sua immobilità e la sua desolante monotonia quotidiana riproduceva, come su un plastico in scala ridotta, la dicotomia di un mondo diviso in blocchi, in piena guerra fredda, per nulla lontano dallo scontro armato: da una parte c’erano la Chiesa e il suo ampio sagrato, il convento dei frati, il circolino col pallaio, la tv e i biliardini, gli spazi dei “bianchi” e dei “reazionari”: quindi, anche io; dall’altra, il mondo socialista e comunista dei “rossi”, la casa del popolo dei mangiapreti a cui io e i miei amici (studenti di scuola media) non potevamo accedere.

Un papa nuovo, un “papa buono”, aveva parlato di pace, rivolgendosi a tutti gli uomini di buona volontà, e la bella folla acclamante in piazza San Pietro si era sovrapposta nella mia mente di bambina a quella fiumana umana di migliaia e migliaia di statunitensi, neri e bianchi, in marcia che avevano seguito il pastore Martin Luther King fino alla Casa Bianca per affermare di “avere un sogno” collettivo: quello della fine delle discriminazione, della fine dell’intolleranza, in nome di una vera fratellanza tra gli uomini.

Eravamo andati a Roma, dal papa, ammirando la bellezza di un’autostrada che era l’emblema evidente, secondo mio padre, delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Italia del boom economico.

La guerra nel Vietnam e la primavera di Praga
Fu la guerra in Vietnam a minare per sempre le mie certezze sulla giustizia e sull’equità del mondo occidentale. Avevo iniziato dal ginnasio a seguire «Tv 7», una bella trasmissione di attualità che in seconda serata informava su fatti vicini e lontani. In particolare, un servizio sconvolgente di Furio Colombo che mostrava immagini dei bombardamenti statunitensi su Hanoi. Era il 1967, avevo 16 anni.

Mi era stata insegnata la storia di un mondo giusto e di uno sbagliato; di un mondo libero e di un mondo tenuto in catene, oltre una “cortina di ferro”, dove parlare, discutere, scendere in piazza e votare erano libertà negate. Ma tutto vacillava intorno a me. L’immagine positiva dei soldati statunitensi che distribuivano alla nostra popolazione, affamata e stremata dalla guerra, sapone, cioccolata e zucchero, che ci avevano liberati dal nazi-fascismo, non collimava con ciò che vedevo e ascoltavo in tv. Strideva con le bombe sganciate su una popolazione che chiedeva di decidere sulla propria sorte politica; con le immagini agghiaccianti di civili in fuga, di bambini con lo sguardo perso, con fardelli tentennanti sulla testa al pari delle madri che li tenevano per mano. Della “sporca” guerra del Vietnam si iniziò a parlare a scuola, chiedendo la parola.

Il liceo, il diritto alla parola
La parola, a scuola, ci era negata. I professori immobili spiegavano, interrogavano, apostrofandoci con il Lei dall’alto di una predella. Anche quando erano preparati, sembravano cariatidi marmoree, disinteressate all’esistenza stessa della scolaresca che avevano di fronte. Ciechi e sordi, persino un po’ disumani. Chiedere uno “spazio”, un’assemblea, in cui poter discutere, fu considerato un gesto da sovversivi: spesso la richiesta fu negata. Ma non avevamo la stessa paura di prima, perché eravamo molti e sentivamo che la nostra giovinezza doveva essere investita in qualcosa di autentico, pacifico, ma fermo. Iniziarono gli scioperi. Alle assemblee, a prendere la parola erano in prevalenza leaders maschili. Lo scalpore che noi ragazze destammo, partecipando in pantaloni o gonna corta, senza indossare gli orrendi grembiuli neri, può essere testimonianza di quanto quel gesto ci fece, di fatto, mutar pelle in una primavera epocale che stava arrivando.

Nuovi insegnanti, per lo più di materie umanistiche, divennero maestri di vita e si mostrarono disponibili a parlare e a farci parlare, leggere un giornale, ascoltare musica, come se l’esigenza di un profondo rinnovamento della scuola fosse un’esigenza comune e sentita. Una scuola classista e autoritaria, quella italiana, anche se fondata su un impianto (quello gentiliano) coerente e dotato di una sua validità.

Dove erano finiti i miei compagni delle elementari e delle medie? Quanti avevano potuto permettersi il lusso di non aiutare la famiglia col proprio lavoro, accedendo a un’istruzione superiore? Pochi: il 20% degli adolescenti di allora. Il mondo con le sue contraddizioni ci investì. E il cinema, i cineforum, col dibattito che ne seguiva, insieme alla musica, furono decisivi per iniziare a farci un’idea della realtà.

La primavera del Sessantotto
In quella primavera del 1968 accaddero tante cose. La primavera di Praga e l’invasione sovietica con i carri armati mi resero per sempre impermeabile all’idea che i regimi comunisti fossero capaci di accogliere l’esigenza democratica di partecipazione civile a un nuovo modello di società che auspicavamo: una società né capitalista né comunista. Jan Palach che si dava fuoco in nome della libertà negata dal regime, davanti a carri armati che incedevano come enormi pachidermi, fu indimenticabile. Dovevamo trovare una terza via, feconda per la nostra utopia egualitaria, democratica e socialista.

«L’immagination au pouvoir» voleva dire per me, come per i miei amici che niente era scontato, immutabile. Dovevamo pensare, dovevamo studiare, dovevamo immaginare. La carriera, la famiglia, la patria non sembravano essere gli unici scopi di vita quanto la libertà, la consapevolezza, la conoscenza del mondo, l’incontro con gli altri, la tolleranza. Eravamo un’élite, un’élite privilegiata, fra l’altro. Fummo un’élite attiva. Chiedevamo la riforma della scuola, l’accesso di tutti agli studi universitari, quell’accesso che invece era consentito solo a chi usciva dai licei. Questa battaglia fu vinta l’anno dopo dal Movimento studentesco, ormai diffuso in molte città.

Ma nonostante questo, il tran tran della scuola con interrogazioni e compiti, le amicizie e i primi amori, i film che vedevamo al cineforum avevano la precedenza, nel nostro gruppo di compagne empolesi, su ogni altro discorso.

L’autunno “caldo”, la strage di Piazza Fontana
Ho litigato tanto con mio padre: gli tenevo testa, prima di tutto su temi quotidiani, come quello del rientro da Empoli. Una linea ferroviaria maledetta, quella Empoli-San Romano, vista la marginalità della nostra stazione. Per poter incontrare qualcuno, nel “giro”, nel centro cittadino, non c’era che la possibilità del locale delle 20, arrivando a casa alle 20,25. La regola, rigidissima, di essere a tavola tutti, al rientro a casa di mio padre dalla farmacia, fu infranta. Soprattutto i litigi vertevano sulla contestazione studentesca e giovanile, che mio padre non digeriva, sull’irrisione della nuova musica, dei capelloni, su aspetti contestati della politica internazionale. Mia madre non se ne capacitava e Tata taceva, cercando di moderare gli scontri che finivano in silenzi.

Da molti mesi la classe operaia aveva fatto richieste sfociate in massicci scioperi, il clima era infuocato. Ricordo in particolare una cena. Nella nostra grande casa, per lo più gelida perché priva di termosifoni, l’ampia cucina, dotata di stufa economica a legna e camino, era lo spazio più accogliente, saturo di profumi e fragranze. Pieno inverno, dicembre. Alcuni ospiti in attesa di mangiare con noi stavano discutendo con i miei genitori del clima “sovversivo”, pericoloso, che si stava respirando e che poteva portare alla catastrofe. Il telegiornale dette notizia di un attentato in una banca di Milano, mentre scorrevano immagini spaventose della voragine prodotta dal tritolo. Nel caos si sentivano voci e urla di decine di persone ferite, agonizzanti accanto a dei cadaveri: la strage di Piazza Fontana. Polvere, tanta polvere e morte.

Mentre in casa mia si gridava sulla necessità di un ritorno all’ordine, io, che non aprivo bocca, che mi sentivo in qualche modo messa tacitamente sotto attacco, ho pensato che non fosse possibile che quella strage fosse stata attuata dai movimenti giovanili di cui ormai mi sentivo parte, antagonisti nei progetti, ma pacifisti e libertari nel loro dna. Ci dovevano essere altre spiegazioni, altre verità, a me sconosciute, che dovevo capire.

Gli anni settanta a Firenze: studio e politica
Dal 1972 fino alla fine degli anni settanta ho abitato a Firenze: lì ho frequentato la Facoltà di Filosofia, laureandomi in Storia.

Fu una dura battaglia personale quella che condussi in famiglia, per ottenere di poter vivere in un appartamento a Firenze, da sola, o meglio con mia sorella, per non parlare del fatto che era presente con noi anche il mio ragazzo, il mio amore. Mia madre prese un esaurimento e il paese dileggiò i due farmacisti che avevano concesso questa libertà inaudita e scandalosa alla figlia ventenne. Credo che il rispetto che devo a mio padre derivi anche da questa concessione fattami, per «non perdermi», nonostante gli fosse costato tanto. Ovviamente dettò le sue condizioni, come il rientro a casa il venerdì sera a cena: puntuale! E studiare! Nessuna deroga agli esami da sostenere.

Firenze, non era San Romano. Mi sentivo libera, leggera e viva. La facoltà di Lettere era in fermento: gli studenti chiedevano un lavoro strutturato in seminari, la riduzione delle tasse universitarie per gli studenti lavoratori, la fine delle baronie. Alcune lezioni venivano sospese per parlare, alcuni professori erano infuriati, altri discutevano con chi aveva interrotto la lezione. Ma si studiava. I docenti di Storia e Filosofia avevano opposto un netto rifiuto al “18 politico”, proposto da «Potere operaio» e «Lotta continua». Concordavo i docenti. Non volevo gli esami di gruppo: una società nuova non poteva essere costruita sull’approssimazione e l’ignoranza. Mi scocciava che il mio studio non venisse valutato, che non ci fosse un confronto tra me e il docente in nome di un fasullo appiattimento egualitario.

Era bello “fare politica”, cioè ritagliare un po’ del proprio tempo per discutere e progettare con altri un cambiamento, o mettersi, gratuitamente, al servizio di altri.

Due o tre volte la settimana mi riunivo con i compagni de «il manifesto» di Empoli, con l’obiettivo di un governo delle sinistre o andavo a fare doposcuola nella parrocchia di Spicchio, da don Giacomo Stinghi, ai bambini meridionali, che parlavano un italiano sgrammaticato e scorretto. E questo perché, come aveva detto don Milani, «l’operaio possiede 100 parole e il padrone 1000: per questo lui è il padrone». Progettavamo parchi da costruire nei quartieri che circondavano il centro, non più zone di campagna, ma non ancora città. Sorgevano palazzoni accanto a casolari che avevano l’aspetto desolante della campagna inurbata. Dove avrebbero giocato i bambini, ci chiedevamo? Iscriversi al «Comitato di quartiere» era un altro modo per immaginare e tradurre in atto, almeno nel piccolo della propria area urbana, uno spazio vivibile a misura d’uomo.

Il corpo, la sessualità, le donne
Bello scoprire la dimensione della sessualità, esplorata appena con paure e sensi di colpa. Una volta ho temuto, ma davvero tanto, di essere incinta. Terrore, smarrimento, sensi di colpa e solitudine nonostante la presenza del mio ragazzo, amoroso, ma sempre un po’ distratto, come se i problemi del corpo me li dovessi gestire da sola. Sarebbe stato penoso per me abortire, come, d’altronde, lo è stato tanto per un’amica ospitata a casa mia. Un atto compiuto in clandestinità, nelle case, per fortuna con medici volontari di estrazione radicale, ma con attrezzature improvvisate, rischiando. A me è andata bene. Non ero in attesa di un bambino, avrei potuto continuare a studiare, non avrei dovuto affrontare i miei genitori, la vergogna o altro. Ma, passata la paura, decisi che non sarebbe dovuto accadere mai più.

I “compagni” continuavano a riprodurre, anche nei rapporti amorosi liberi e “liberati”, lo stesso schema maschile/femminile in precedenza introiettato. La contraccezione veniva sentita da loro come un affare di donne, da donne. Ecco perché parlare con altre ragazze fu necessario. E formare gruppi di “autocoscienza”, come si diceva allora, volle dire confrontarsi sui problemi del corpo, della maternità, della contraccezione da un punto di vista intimo e profondo. Ottenere che gli anticoncezionali fossero distribuiti nelle farmacie, senza resistenze, dietro prescrizione medica, ovviamente, fu un grande passo in avanti. Iniziò la stagione “delle streghe e delle fate”.

Il Referendum sul divorzio fu il vero detonatore che mandò in frantumi i blocchi separati del mondo laico e del mondo cattolico, decisamente divisi in precedenza all’interno della società civile: al di fuori della nicchia universitaria, a tavola e per strada, in piazza e al bar, dal meccanico e negli alimentari, persino sui sagrati delle chiese, uomini e donne si accapigliarono, ma espressero un loro parere, in un tam tam ascendente perché non fosse revocato un diritto civile necessario.

Gli anni di piombo
Sono stati definiti anni di piombo, gli anni settanta. Impossibile smentire questo epiteto, soprattutto rileggendo le cronache che danno testimonianza dei morti e dei feriti che ci sono stati. Fuorviante, tuttavia, ingabbiarli in questa definizione riduttiva. La sensazione di noi giovani era distante da quella di chi sentiva di vivere in un periodo oscuro, pericoloso e inquietante. Noi percepivamo l’attivismo, l’energia civile, l’intensa progettualità. «Libertà è partecipazione», aveva cantato Gaber.

Rifuggivo dalla violenza, mentre lottavo per un governo delle sinistre, osteggiato dai conservatori, dai fascisti e dai golpisti. Destavano in me un vero e proprio terrore le mani alzate, pollici e indici innalzati al cielo, che comparvero nei cortei studenteschi, mimando pistole pronte a sparare: la P38. Formazioni sparute dell’«Autonomia operaia» insieme a gruppi extraparlamentari invitavano allo scontro, alla lotta armata.

Tra il volo dalle finestre della questura di Milano dell’anarchico Pinelli e l’assassinio del commissario Calabresi del maggio ’72 passarono solo tre anni, ma in questo breve periodo le acque del movimento e dell’intera società italiana si intorbidirono. La lugubre stella a cinque punte comparve in volantini lasciati per strada o sui muri delle città. Ma tutto questo non fermò le mille iniziative sviluppatesi “dal basso nei quartieri, nella scuola, nelle case del popolo, nei collettivi, nel cinema e nel teatro.

Non voglio qui ripercorre puntualmente la storia di quel quinquennio che si concluse tragicamente con l’assassinio di Aldo Moro e lo spegnersi di un progetto di una possibile trasformazione dell’Italia della Prima repubblica.

L’estremismo dei gruppi e, soprattutto, la violenza armata crearono sgomento e paura e furono pretestuosamente utilizzati da una classe dirigente arretrata, reazionaria e in parte collusa con il sistema mafioso, per orientare l’opinione pubblica verso la conservazione dell’esistente. D’altronde i partiti della sinistra non furono in grado di accogliere le richieste di rinnovamento, partecipazione e democratizzazione che erano emerse dal basso, filtrandone le velleità, dando legittimità a una trasformazione del paese.

Il decennio più riformatore
Anche se parzialmente, tuttavia, quella spinta al cambiamento produsse novità, tanto che forse si può sostenere che gli anni settanta furono il decennio più riformatore che l’Italia abbia conosciuto dal dopoguerra. Agli asili, gestiti fino ad allora da suore, si affiancarono scuole materne statali e le donne furono protette sul lavoro da una legge sulla maternità. Venne creato quel sistema sanitario nazionale che prevedeva il diritto alla salute dei meno abbienti. La scuola legittimò la partecipazione di studenti e genitori. Con la legge Basaglia fu “negata” la legittimità di un’istituzione coercitiva e violenta come quella del manicomio, che adoperava mezzi di detenzione e di “cura” aberranti e disumani. Col nuovo diritto di famiglia le donne furono considerate pari al coniuge nell’educazione dei figli e nella scelta della residenza.

Continuo a credere che l’Italia del tempo avesse necessità di quella spinta rinnovatrice; continuo a negare che la mia generazione ribelle sia stata formata solo da terroristi e che quelli siano stati esclusivamente “anni di piombo”, come cinema e tv, nonché importanti leaders politici li descrivono.

È stato tutto formidabile? Non direi proprio, specialmente se rivado con la memoria agli aspetti verbosi delle nostre assemblee e dei nostri incontri. Auspico però, a distanza di mezzo secolo, che, con modalità diverse, nuove generazioni, con le loro forze e le loro utopie, raccolgano l’energia civile di quegli anni per una società meno diseguale e meno ingiusta che ancor oggi stenta a nascere.

(disegno di Alberto Fazio)

(pubblicato da Vivalascuola. Altri 68, maggio 7, 2018)

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