Il ‘68 unì l’Italia, il post-‘68 l’ha divisa di Stefano Levi Della Torre

 

  1. Non si può capire la portata storica del ‘68 se non si considera la sua dimensione internazionale e il suo carattere generazionale. Dal Giappone agli Usa, dall’America latina all’Europa si è mossa la generazione del dopoguerra. Se la guerra era stata mondiale, tale era anche il dopoguerra; se la guerra aveva seminato distruzione a scala mondiale, il dopoguerra ricostruiva a scala mondiale sulla base dei compromessi di pace, sulla spartizione delle sfere di influenza, sugli equilibri della guerra fredda, sulla restaurazione dei sistemi politici, economici e sociali. Noi che eravamo la prima generazione del dopoguerra non avevamo ragioni per riconoscerci in quei compromessi e in quelle restaurazioni a cui non avevamo partecipato, che subivamo e che sentivamo piuttosto (ed erano) una cappa conservatrice. Non a caso, punti diffusi di riferimento sono stati in quegli anni la guerra d’Algeria, la rivoluzione cubana e soprattutto il Vietnam: grandi episodi che laceravano quei compromessi e quelle spartizioni, e insieme sembravano incarnare le aspirazioni alla libertà e alla giustizia sociale che erano state l’orizzonte della resistenza contro il nazifascismo, e a cui le generazioni delle madri e dei padri che avevano attraversato la guerra sembravano rinunciare, rassegnate o interessate ai compromessi della restaurazione. Ciò si manifestava nell’irrigidirsi dei ruoli sociali e istituzionali, nell’autoritarismo e nel perbenismo paternalistico. Nell’assumere questi aspetti come argomento di contestazione, il ‘68 ebbe una notevole influenza nel cambiamento delle mentalità diffuse e dei costumi.
  2. E’ logico che i movimenti del ‘68 si manifestassero prima di tutto nelle università; erano il luogo della prima maturità di quella generazione, e, insieme, gli studenti erano già in potenza concorrenti nell’autorità intellettuale e professionale coi professori e con le autorità e i saperi accademici. Negli USA ciò ebbe una particolare accensione, per effetto della coscrizione obbligatoria per la guerra in Vietnam. Perciò gli Usa perdettero per la prima volta una guerra, non solo nel sud-est asiatico, ma in parte anche nelle università americane. Sia per la diffusa distruzione delle cartelle di chiamata alle armi, sia, e soprattutto, per l’influenza che la contestazione ebbe sul senso comune. Ciò rivelava l’efficacia di movimenti locali ma generalizzati nel contesto nazionale e internazionale.
  3. Nel ‘68 le organizzazioni studentesche precedenti tramontavano, sia nella loro funzione sindacale sia in quanto cinghia di trasmissione dei partiti ufficiali tra gli studenti. Nella sorprendente generalizzazione dei movimenti coltivammo l’ambizione di farci forza collettiva protagonista nel contesto delle nazioni e del mondo. Il ‘68 fu una scuola di politicizzazione sempre più estesa di una generazione. Quale società, quale politica, quale mondo avremmo voluto? Quale futuro per noi nel mondo e nel sapere?

Gli umanisti, complessati di fronte all’egemonia dei criteri scientifici, pretendevano di affermare una dignità scientifica degli studi umanistici, e convergevano con gli scientifici, a loro volta invidiosi della cultura umanistica, nel criticare la pretesa neutralità della scienza e nel denunciarne le ineliminabili responsabilità politiche ed etiche.

In questo senso, era logico che, in Italia, le prime a muoversi fossero le Facoltà di Architettura. Il loro interesse spaziava dall’umanistica alle scienze e il loro orizzonte era direttamente sociale: l’abitare, l’urbanistica. La Facoltà di Milano, che aveva già occupato nel 1963 (quando gli studenti erano appena trecento), precedette il ‘68 con l’occupazione della Facoltà nella primavera del 1967, inaugurando questo tipo di lotta che poi si estese dovunque. Gli studenti tennero la Facoltà per più di cinquanta giorni, in trattativa con le autorità accademiche, organizzando conferenze, corsi alternativi, gruppi di studio per la riforma dell’università e del mondo, assemblee periodiche. Con l’occupazione il movimento prese anche la forma di una vita collettiva autogestita. Fu un modello che noi della Facoltà di Architettura di Milano andammo propagandando, vantandoci ‘veterani ed esperti di occupazioni’, in giro per l’Italia, un modello che effettivamente si diffuse nelle università e nelle scuole via via che entravano in agitazione e che è rimasto come costume fino ai giorni nostri.

Ricordo con mio personale compiacimento il rapporto fattivo che promovemmo, noi marxisteggianti, con i giovani cattolici nella Facoltà di Architettura e poi, soprattutto, con gli studenti dell’Università Cattolica, che entrò in occupazione nel novembre del 1967 raccogliendo qualche nostro contagio: un rapporto traversale tra aree ideologiche (caratteristico dell’Italia), che aveva i suoi antecedenti nella Resistenza e nella Costituzione, e avrebbe avuto alterni sviluppi

  1. Nel bene e nel male, il ‘68 fu anche una scuola di critica epistemologica, di revisione dei criteri del sapere e dello statuto sociale di chi ne era portatore. Marxisticamente complessati di fronte allo statuto strategico della classe operaia nella trasformazione della struttura sociale, si diffuse tra gli studenti, in maggioranza borghesi, un’equiparazione tra sé e gli operai: gli studenti come “forza lavoro in formazione”, e in quanto tale in conflitto col sistema capitalistico. Era un tentativo di darsi importanza, di vantare una consistenza strutturale e duratura alle mobilitazioni, rilevanti ma necessariamente contingenti, perché contingente e transitoria è la condizione studentesca. Pure, se fu allora una pulsione narcisistica a ispirare un’esagerata considerazione di sé, col senno di poi possiamo anche vederne una capacità di previsione: il lavoro intellettuale e la competenze tecniche sono venute acquisendo (e tanto più col balzo informatico) una rilevanza sempre maggiore nei sistemi economico-sociali, e di pari passo sono venuti via via perdendo in prestigio sociale, in salario, con aumento dello sfruttamento.

Il rispecchiamento approssimativo e simbolico nella classe operaia portò i movimenti studenteschi, segnatamente in Italia e in Francia, a un rapporto effettivo con gli operai, che in un periodo di relativo sviluppo trovavano lo spazio per un cambiamento nei rapporti di forza col padronato in fabbrica. In Italia, il ‘68 degli studenti ebbe un sua potente estensione nell’”autunno caldo” operaio del ‘69. Ciò che emergeva in quel periodo era il protagonismo diretto delle componenti sociali, al di là delle loro rappresentanze o rappresentazioni mediate nei partiti, nei sindacati e nelle istituzioni parlamentari. E nella novità delle relazioni trasversali e dirette tra movimenti studenteschi e operai, gli studenti ebbero ad imparare qualcosa circa i rapporti di produzione su cui si regge la società capitalistica e gli operai ebbero ad imparare la contestazione dell’autorità e la valenza politica generale delle loro rivendicazioni di diritti, dignità e salario.

  1. La trasversalità fu un carattere fondamentale del ‘68. Trasversalità inter-classista tra operai e ceti medi studenteschi, favorita dall’accesso all’istruzione di nuovi strati sociali nella scuola di massa. Ma non solo: la trasversalità dei saperi fu anche il criterio della critica culturale alle specializzazioni, che giustificavano il potere corporativo delle baronie universitarie. Dietro i monopoli accademici dei saperi divisi per discipline si rivelava il rapporto politico tra sapere e potere. La critica del potere comportava una critica del sapere, e la critica del sapere diviso comportava una critica del potere, accademico e sociale. In definitiva, una critica alla divisione capitalistica del lavoro e dei saperi, della parcellizzazione fordista in fabbrica e fuori.

Nacquero allora, in Italia, movimenti interni alle professioni, che si facevano carico delle responsabilità politiche ed etiche sottese alle stesse professioni: medicina democratica, magistratura democratica, avvocatura democratica, psichiatria democratica, ecc. volte a contestare nella pratica i privilegi su cui le professioni e i loro clienti si adagiavano, ad aprirsi agli strati sociali non privilegiati e a soccorrere i movimenti di fronte alle reazioni repressive immediatamente messe in campo dai poteri sociali e istituzionali costituiti.

Malgrado i luoghi comuni della propaganda avversa, il ‘68 fu una stagione particolarmente fervida di studi, di volontà di sapere e comprendere gli andamenti della società e del mondo.

  1. Le ambizioni del ‘68 erano esorbitanti rispetto alla forza teorica e alla labilità dei movimenti. Contro le gerarchie sociali, i movimenti erano animati da spiriti egualitari, ma come è connaturato a tali movimenti, essi tendono a riprodurre una gerarchia tra avanguardie e masse. E seppure animati da una critica alla delega a favore di una larga partecipazione assembleare all’elaborazione politica e all’azione, non poteva che riprodursi un rapporto di delega, informale ma sostanziale, tra seguaci e dirigenti. Ciò è nella logica paradossale e nella necessità pratica dei movimenti pur animati da aspirazioni egualitarie e avversi alla delega. Nella necessità di dare continuità all’azione e a consolidare le idee nacquero “partiti” che spezzarono il movimento per competizione reciproca (in Italia, Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio…). Le idee in formazione cercarono di consolidarsi in forme e memorie ideologiche, in identità con derive settarie.
  2. Ricordo il senso di stagnazione che, a metà degli anni ‘60, affliggeva i nostri sforzi volti a politicizzare i compagni di studi. Andavamo propugnando una rinnovata idea della politica, l’idea cioè che la politica non fosse prerogativa esclusiva di partiti, parlamenti e governi, ma fosse soprattutto pensiero e azione di chiunque prendesse coscienza delle forze che influivano sulla propria condizione sociale e volesse un cambiamento. Dunque la politica nella scuola, la politica nella fabbrica, la politica nelle professioni, Fummo sorpresi che questo nostro lavorio sfociasse nel 68 in un’improvvisa esplosione. La carta d’Italia che avevamo appesa nell’aula assembleare della Facoltà di Architettura occupata si andava di giorno in giorno infittendo di bandierine che segnalavano l’entrata in agitazione di altre università.

Ma in verità fatti importanti avevano preparato e preannunciato quella mobilitazione generalizzata, a partire dal luglio ‘60 quando le piazze (a Genova, a Reggio Emilia – con i suoi uccisi dalla polizia – a Roma ecc.) avevano abbattuto il governo del DC Tambroni alleato con i fascisti, preparando la svolta del primo centro sinistra con l’entrata dei socialisti al governo, poi il Concilio Vaticano II, che aveva incoraggiato nuove prospettive nel mondo cattolico; poi il caso della Zanzara, il giornalino del liceo Parini di Milano, incriminato per aver rotto i tabù sul sesso, un “piccolo” episodio che però già segnalava un tema di particolare rilievo nella trasformazione del senso comune in quel periodo in tutto l’Occidente; poi la mobilitazione di giovani di tutta Italia, dal nord al sud, per soccorrere Firenze colpita dall’alluvione del 1966, e quelli accorsi a collaborare con Danilo Dolci e alla Valle del Belice terremotata…

Se nel 68 gli studenti di Trento, di Pisa, di Torino, di Palermo e di Napoli potevano intendersi come non mai prima, è perché quelle mobilitazioni estese e solidali degli anni ‘60 avevano preparato un culmine mai prima raggiunto di unità dell’Italia, dal sud al nord, dallo stivale alle isole. Se, fatta l’Italia, restava da fare gli italiani, il ‘68 è stato di fatto un momento alto di questo processo, che poi regredì negli anni successivi.

  1. La definizione giornalistica del sommovimento come contestazione globale” riassumeva le aspirazioni diffuse ad attaccare un assetto di potere sociale, politico e culturale che a noi pareva quasi miticamente coerente: il “sistema”. La definizione giornalistica di extraparlamentari” riassumeva invece l’aspirazione a dar voce e mobilitazione diretta ai soggetti sociali collettivi piuttosto che alle loro rappresentanze indirette, istituzionali e delegate. Da qui un certo attrito, ma anche scambio, tra movimenti da un lato e partiti e sindacati dall’altro. La risposta del “sistema” in Italia fu di greve resistenza per sfociare infine in reazione violenta con la strage di Piazza Fontana il 12 dicembre 1969. Di mano fascista ma di vasta collusione e sponsorizzazione di forze politiche e apparati dello Stato.

L’idea di Carl Schmitt secondo cui “la sovranità è di chi può decidere lo stato d’eccezione” è illuminante anche per la vicenda del 68: noi avevamo effettivamente costituito e deciso uno stato dì eccezione (tanto che ‘rivoluzione’ era una parola diffusa e una troppo conclamata ambizione, mentre il nome di “Lotta continua” esprimeva l’irrealistico desiderio di uno “stato d’eccezione” indefinitamente protratto); e producendo uno “stato d’eccezione” sentivamo con stupore di stare appunto gestendo un potere, un’inaspettata “sovranità”. Ma infine lo stragismo fascista fu convocato e promosso per regalare al potere un “contro-stato di eccezione” perché ne disponesse e ricostituisse la sovranità propria. Per questo, e per le forze e gli interessi nazionali e internazionali che lo sollecitarono e protessero, lo stragismo fascista non fu tanto eversione quanto restaurazione.

Alla luce di Carl Schmitt potremmo anche interpretare la nascita del terrorismo di sinistra. Tra stragismo fascista e terrorismo di sinistra si svolse una tragica competizione su chi prevalesse nel produrre e gestire lo stato di eccezione. Entrambi infersero colpi mortali alla mobilitazione sociale, già di per sé affaticata.

  1. I gruppi violenti hanno una connaturata vocazione parassitaria nei confronti dei movimenti di massa. Se ne nutrono per affermare il loro protagonismo narcisistico. Il definire “fascisti” le BR era una forma di riparo per esimersi dal considerare le patologie potenziali nella tradizione della sinistra; l’accettarle come “compagni” valorizzando le loro intenzioni “rivoluzionarie” era il non saperne vedere il protagonismo narcisistico e la vocazione parassitaria. Nella sostanza, invece, il terrorismo di sinistra era carne della nostra carne, ma come lo è il cancro: un nemico, ma interno, non estraneo. Un nemico da combattere con decisione, non perché alieno ma anzi proprio perché parente.

Un’altra idea di Carl Schmitt si esprimeva nella proposta della lotta armata: la politica come antagonismo tra amico e nemico. Un gioco a somma zero: o noi o loro, nella logica dell’annientamento. Un’idea opposta alla democrazia che è invece conflitto mediato.

La presa che la proposta della lotta armata ebbe tra operai e studenti non nasceva solo dalla radicalizzazione che la minaccia effettiva di un’eversione reazionaria poneva in quegli gli anni e dalla “strategia della tensione”. Nasceva anche dalla eccessiva ambizione della “contestazione globale”: l’idea, il desiderio o il sentimento di un imminente rivolgimento radicale. Una sindrome messianica. E le sindromi messianiche hanno sempre avuto nella storia derive apocalittiche.

I compagni che passavano alla lotta armata rinfacciavano a noi, che ci opponevamo a quella tentazione, un’incoerenza, il non coraggio di andare fino in fondo, e noi dovevamo rispondere con fatica, smentendo in gran parte noi stessi.

La coerenza circa la critica dei rapporti di potere prese invece un’altra via, più profonda e sostanziale, non solo a livello politico, ma anche antropologico-culturale: la mobilitazione femminista. La quale trasse energia dal ‘68, ne ebbe anche l’estensione globale e le ripercussioni di lunga durata, ma fu anche una critica dello stesso ‘68 che non aveva affatto superato, anzi ribadito, le gerarchie di genere.

  1. Gli anni che seguirono furono attraversati da due tendenze divergenti: da un lato la competizione tra stragismo fascista e terrorismo rosso, collaboranti nella “strategia della tensione” gestita da poteri espliciti e occulti; dall’altro un deciso processo riformista derivante dalla spinta della grande mobilitazione sociale che aveva cambiato i rapporti di forza e trasformato in profondità il senso comune. Gli anni ‘70 furono gli anni della riforma del diritto di famiglia, del diritto al divorzio, del diritto all’aborto assistito, del diritto sul luogo di lavoro e di studio, di estensione del diritto all’istruzione, dei diritti sociali e civili. Furono anni di attuazione dello spirito progettuale originalmente inscritto nella Costituzione. Non sembra che allora il bicameralismo parlamentare sia stato un ostacolo ai cambiamenti.

(Pubblicato da vivalascuola, maggio 28, 2018)

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