Movimento in musica: rock e ‘68 di Diego Giachetti

 

Il libro di Franco Bergoglio, I giorni della musica e delle rose. Rock, pop, jazz, soul, blues nel vortice del ’68 (Stampa Alternativa, 2018), rompe quel grigio e un po’ noioso ripercorrere l’evento ’68 che accompagna questo cinquantesimo anniversario. La musica irrompe prepotente tra le rievocazioni nostalgiche dei testimoni, tra i pentiti del loro passato, tra i severi e monotoni storici, dà tono, luce e colore al movimento, lo introduce, prima ancora delle parole, con “attacchi” musicali che agitano nel profondo le coscienze. È il rock and roll, definito dall’autore una rivoluzione che per un certo periodo ha sostenuto i venti del cambiamento, incontrandosi con le istanze sociali e politiche. “La rivoluzione deve avvenire tramite azioni politiche. Ma la musica, se è sufficientemente bella può aiutare a cambiare le coscienze e prepararle a muoversi su altre strade in modo politico”.

Dato il tema, la vicenda narrata si svolge prevalentemente negli Stati Uniti, anche se Bergoglio è abile nel cogliere l’intersecazione fra beat inglese dei primi anni Sessanta, rock americano della costa atlantica e sound californiano che accompagna il movimento hippie. Così pure mette in relazione il precedente del jazz, il suo legame con la lotta per i diritti civili dei neri, e il rock. Sul finire degli anni Sessanta il jazz attraversa una crisi d’identità, ma ha aperto nuove strade verso le culture indiane. Non a caso diversi artisti del rock volgono il capo verso filosofie e religioni indiane. Esemplare in proposito il fatto che nel 1965 George Harrison inizia a studiare il sitar. Tre anni dopo, il viaggio dei Beatles in India rappresenta il momento mediatico più alto del rapporto tra cultura indiana e occidente. Nel 1968 una valanga di musica ispirata all’India invade il mercato.

Negli Stati Uniti la contestazione al sistema si muove lungo tre direttrici: la lotta dei neri per i diritti civili, la rivolta studentesca e la rivoluzione non violenta hippie, derivata dal seme della beat generation negli anni Cinquanta. La rivolta politica del decennio Sessanta è preparata da quella impolitica degli anni precedenti che avviene nel costume e nello stile di vita alternativo. La fusione tra musica pop e cultura giovanile risale agli anni Cinquanta. È il tempo di Elvis Presley, James Dean e Marlon Brando, dei teddy boys e della gioventù bruciata. Nasce la figura del teenager che si muove ancora in un limbo pre-politico, dove la frustrazione cresce fino a esplodere in scoppi di rabbia collettiva, nella forma della banda giovanile.

Musica rock significa stare assieme, condividere, irridere il perbenismo, contestare l’ordine imposto, il decoro, le buone e ipocrite maniere, la rispettabilità di una società che promuove la guerra in Vietnam. È un disagio diffuso, che riprende la critica alla società di massa svolta precedentemente dal sociologo Wright Mills, morto alla vigilia dell’alba del movimento, nel 1962. Mills aveva rivoltato la società americana messo in luce le sue contraddizioni, svelato il grigio conformismo dell’uomo medio impersonato dai nuovi ceti medi, il dominio di ristrette élite di potere sulla massa, denunciato l’inconsistenza della patina liberal-democratica di cui si faceva vanto il sistema. Le canzoni e la musica aiutano a definire le critiche e le prospettive, costituiscono l’autoritratto di una generazione. Il ’68 inteso come evento, poggia su basi sicure di massa costruite su quella cultura giovanile.

Sinergie tra lotta, musica e canzoni

Tra i tanti esempi che si possono fare tra ascesa del movimento di protesta e partecipazione attiva dei cantanti e dei gruppi rock, due sono emblematici. Nel 1962 a Port Huron, una cittadina del Michigan, i giovani del Students for a Democratic Society (SDS), scrivono un testo destinato a diventare la base del movimento che sta per sorgere nelle università. Quello stesso anno Dylan incide il suo primo lavoro e nel 1964 riprende i temi del manifesto di Port Huron in un testo. Parallelamente, nel 1963 aveva partecipato alla marcia su Washington organizzata dal movimento di Martin Luther King e cantato due brani con Joan Baez. Quando nel 1964 nasce a Berkeley il Free Speec Movement, esso riceve l’appoggio di Joan Baez. Baez rappresenta l’icona del folksinger di protesta: partecipa attivamente alle manifestazioni studentesche, dona soldi alla causa pacifista, si esibisce gratuitamente per Martin Luther King e non manca di aiutare ogni attivismo, dal femminismo all’aiuto ai renitenti alla leva, alle azioni contro le spese militari.

Il rock dei primi anni Sessanta accompagna le prime lotte del movimento studentesco che seguono quelle per i diritti civili dei neri. Esso, a cominciare da Dylan, prende la poesia della beat generation e la rende di massa, scrive Bergoglio, diffondendo i temi di un di un movimento letterario d’avanguardia tra

milioni di persone nel mondo. La controcultura della beat-generation, che aveva messo radici a San Francisco, viene ripresa dai giovani degli anni Sessanta. Quello che era stato il “viaggio” di pochi beat, diventa quello collettivo del trip degli hippie. Se la rivolta della beat-generation era soprattutto individuale, quella dei figli dei fiori si caratterizza per la dimensione comunitaria. Questo connubio culturale beat-hippie segna il il rock negli anni successivi fornendo stimoli alla fioritura di innumerevoli esperimenti musicali. In due appendici l’autore elenca e descrive i capolavori dei gruppi (Beatles, Rolling Stones, Hendrix, Byrds, Zappa, Doors, Cream, MC5 ecc.) e i microsolchi del ’68: dischi che senza essere capolavori catturano lo spirito del tempo.

L’ascesa dei movimenti di contestazione riscopre il marxismo, fa propria la teoria critica della società, elegge a mito Che Guevara, legge e ama Marcuse e si entusiasma per Cuba e i barbudos, e un po’ anche per le guardie rosse. Si riscopre la politica ma, si legge nel libro, è una politica investita da “una sbornia di libertà” nella sessualità, nell’uso delle droghe, nel vivere assieme in comunità, nelle pratiche di democrazia assembleare. E la musica è uno dei veicoli di comunicazione tra giovani di stati diversi: il rock diventa una koinè universale

Da Monterey a Woodstock

Lungo questo percorso narrativo, il festival pop-rock di Monterey del giugno 1967, tre giorni di musica, amore e fiori, diventa la sintesi di tutta la controcultura. Funge da modello per i successivi raduni che prolifereranno in America, poi in Europa e nel mondo. A Monterey l’industria discografica fiuta l’affare e inizia a mettere sotto contratto qualunque personaggio vagamente hippie che sappia tenere in mano uno strumento. Secondo diversi autori iniziava il riassorbimento del rock nel mercato discografico, processo che a lungo andare lo spoglia del suo essere un agente di cambiamento, trasformandolo in affare per le case discografiche; tuttavia ciò consente la diffusione a livelli di massa del rock negli Stati Uniti e sul mercato mondiale.

Secondo alcuni il ’68 musicale inizia e termina con due festival: Monterey e Woodstock. A Woodstock nel festival del 1969, molte sono le canzoni contro la guerra, ma la politica conta poco, esce di scena per lasciare spazio al solo rock, alla dimensione comunitaria della festa, della libertà dei corpi e dei desideri. Negli Stati Uniti i movimenti di protesta degli anni Sessanta si sono nutriti di grandi temi: il Vietnam, i diritti civili, la rivoluzione. Il decennio seguente vede l’impegno spostarsi nelle campagne di sensibilizzazione individuali, su questioni specifiche. La frammentazione dell’impegno in battaglie sui diritti civili, sessuali, ambientali o sociali si riflette nei testi dei musicisti e delle star su singoli temi. Infine, come annota amaramente e con sarcasmo Peter Jenner: “dopo aver allargato la coscienza con gli acidi, si decideva di allargare la casa e il conto in banca”.

Simboli

Jimi Hendrix rappresenta la figura ideal-tipica dello spirito del ’68 musicale, perché nel suo protagonismo unisce il sound nero a Bob Dylan in un erotico ibrido voodoo, annulla le barriere razziali, apre il sipario della musica rivoluzionaria a Monterey e lo chiude (in tutti sensi) a Woodstock. Inoltre, con Hendrix si ha l’affermazione definitiva della chitarra elettrica nel rock. Se il pianoforte ha rappresentato il mobile borghese per eccellenza, specchio di floridezza economica e di posizione sociale, e il sassofono è stato lo strumento preso a simbolo del jazz, con la sua mobilità e quindi socialità esterna alle mura domestiche, la chitarra elettrica diventa il simbolo del rock, forse il primo linguaggio universale della storia, quello più elementare nell’approccio tra gli esseri umani.

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