Le responsabilità della sinistra italiana nell’affermarsi dei populismi/1 di Rino Genovese

 

Parte prima: la vittoria del berlusconismo

Nel dopoguerra la sinistra italiana, forte del paradigma antifascista, fondò la sua presenza nel paese e la lotta per lo sviluppo della democrazia sulla centralità del parlamento e sul ruolo dei partiti, all’interno di un programma di riforme che aveva il suo fulcro nella Costituzione repubblicana. Le critiche che a più riprese e da più parti sono state mosse a questa strategia d’insieme, nel periodo che va dalla togliattiana svolta di Salerno del 1944 alla pesante sconfitta elettorale del 1948, hanno certo qualche fondamento: tuttavia si può affermare che fino al movimento dei giovani con le magliette a strisce contro il governo Tambroni, nel 1960, la strategia imperniata sul paradigma antifascista – o come diretta espressione della politica dei fronti popolari o come sua eredità – abbia dato i suoi frutti. Ne derivò infatti un consolidamento e un allargamento delle basi della democrazia. Un risultato non indifferente se si considera la divisione del mondo in blocchi contrapposti e la posizione dell’Italia sulla scena internazionale.

Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, quando si cominciava a parlare di “neocapitalismo” e il mondo stava cambiando, la scelta del Partito socialista per una collaborazione con la Democrazia cristiana diede luogo all’unica intensa stagione di riforme che l’Italia abbia mai conosciuto: peraltro breve, visto che di lì a poco il centro-sinistra finì con l’avvitarsi in una crisi dalla quale non si sarebbe più ripreso, e che si trascinò a lungo senza che, al di là di quella formula ammuffita, riuscisse a venire fuori qualcosa di diverso. Data da quegli anni, del resto, anche il progressivo trasformarsi del Partito comunista in un partito sostanzialmente socialdemocratico sotto mentite spoglie[1]: con la conseguente strana impasse strategica protratta fino allo scioglimento e alla sua trasformazione in Partito democratico della sinistra a seguito dei mutamenti avvenuti nell’Est europeo, ma in realtà ben oltre, arrivando infatti fino ai nostri giorni se si pensa alle difficoltà poste dalla sua trasfigurazione in un partito semplicemente democratico. Al punto che se ne potrebbe concludere che la sinistra italiana, pur senza disconoscere certe sue peculiarità, un orizzonte strategico l’ha avuto tutto sommato solo fin quando è stata nell’insieme stalinista o alle prese con l’uscita dallo stalinismo. Non pare infatti che nei decenni settanta e ottanta – quelli della mortale involuzione affaristica del Psi e della gestione berlingueriana del Pci, che convogliò su di sé speranze rapidamente deluse, per non parlare poi degli anni successivi – la sinistra in Italia abbia più avuto molto da dire.

Per analizzare le ragioni di questo esaurimento di prospettive, in un certo senso stupefacente, bisogna partire dalla considerazione di carattere generale che le democrazie realmente esistenti sono impure: sicché alla democrazia si aggiunge spesso un aggettivo per chiarirne il senso: democrazia rappresentativa, democrazia partecipativa, ecc. Impura in modo particolare è la democrazia liberale, un ibrido nel quale si compongono come in un ossimoro principî e tradizioni politiche, quella democratica e quella liberale appunto, storicamente divergenti lungo l’intero arco dell’Ottocento e per buona parte del Novecento. E questa “impurità” della democrazia liberale può essere molto bene osservata nella storia d’Italia, paese dall’ampio ventre tout court antidemocratico. In qualsiasi paese detto democratico, allora, la democrazia va giudicata assegnandole un più o un meno in base alle sue stesse premesse, per quanto incerte possano essere. Quali e quante le possibilità di partecipazione alla vita pubblica offerte dalla comunicazione sociale mediante una – sia pure relativa – parità delle chance per i cittadini nel far sentire la propria voce? Rispondere a questa domanda significa già dare una valutazione del grado di democrazia di un paese. Che la democrazia sia sempre imperfetta implica dunque che sia anche perfettibile, essendo l’organizzazione della sfera politica aperta in linea di principio al contributo di tutti nell’assunzione delle decisioni collettivamente vincolanti.

Ora, può accadere che chi sulla carta si proponga d’incrementare e diffondere la democrazia ottenga invece l’effetto contrario – o per una prudenza sconfinante nell’indecisione e nella paralisi, o per non averne saputo difendere il quadro istituzionale dandosi a fughe in avanti. Questo secondo caso, ampiamente noto, è quello delle responsabilità della sinistra massimalista e comunista nell’avvento del fascismo in Italia e del sorgere del nazismo in Germania. Il primo caso, altrettanto noto, è invece quello del socialismo riformista di fronte al fascismo. Ed è il caso, mutatis mutandis, come cercherò di mostrare, dell’intera sinistra riguardo al fenomeno nuovo nella storia della democrazia occidentale, e perciò ancora poco studiato, che chiamiamo berlusconismo. Con l’avvertenza che questo fenomeno solo accidentalmente prende il nome del suo fondatore e protagonista; nella sostanza si tratta di qualcosa che va al di là della spregiudicatezza del singolo imprenditore divenuto nel 1994, in quattro e quattr’otto, leader di un partito fabbricato nella sua azienda. Si tratta di una deformazione della democrazia nata dalla occupazione del sistema politico da parte di un gruppo di potere economico-mediatico che in precedenza aveva potuto godere, già per un decennio, di una posizione dominante sul mercato televisivo.

La mia tesi è che la sinistra, in tutte le sue componenti (quindi anche nelle sue minoranze più radicali), abbia subìto o addirittura assecondato in vari modi il processo d’inaridimento e svuotamento della democrazia liberale italiana all’incirca a partire dalla seconda metà degli anni settanta fino alla sua stabile deformazione. Ciò sta in un rapporto piuttosto debole con la situazione del mondo che volgeva al neoliberismo, i cui echi naturalmente si sono fatti sentire ma non in maniera determinante nel sorgere di un fenomeno che appare tutto italiano, autoctono, e in cui l’Italia gioca, in un certo senso, il ruolo di un laboratorio d’avanguardia sul piano internazionale.

La democrazia deformata, in altre parole, è un’invenzione con profonde radici nella storia del paese, allo stesso modo in cui a suo tempo lo fu il fascismo. In termini generali, questo fu una soluzione autoritaria, e poi totalitaria, ai problemi della società di massa della prima metà del Novecento. La democrazia deformata, invece, è una soluzione conservatrice – a suo modo totalitaria, sia pure in modo solo virtuale – ai problemi posti dall’individualismo di massa contemporaneo.

Bisogna comprendere bene questa differenza. Pur derivando ambedue da una miscela di vecchio e nuovo, di passato e presente, il fascismo e la democrazia deformata sono cose molto diverse tra loro, anche se entrambe caratterizzate da una modernità che non riesce a essere moderna fino in fondo perché mescolata con elementi arcaico-tradizionali. Così un certo culto del capo, la regressione degli individui sul piano psicologico verso aspettative salvifiche e miracolistiche, sono tratti comuni sia alla personalità autoritaria del gregario fascista, sia a quella narcisistica e frammentata del cittadino “svuotato” della democrazia deformata. L’ipertrofia del momento propagandistico-comunicativo nella formazione, o meglio, nella preformazione del consenso, è un aspetto decisivo nell’uno come nell’altro caso. Laddove, però, nel sistema di potere tipicamente fascista il fulcro è dato dall’emittente della comunicazione, che con i suoi discorsi diventa il Grande Emittente, il duce del regime, ponendosi al vertice di una cerchia di fedeli in una sorta di cabina di regia ancora tutta politica della società, nella democrazia deformata, al contrario, decisiva è la posizione del ricevente inteso come una sconfinata platea soprattutto televisiva, un pubblico atomizzato e costantemente dedito alle più fantastiche attribuzioni verso una pletora di personaggi, comportamenti, stili di vita, che letteralmente polverizzano la “cosa pubblica” nella tendenziale soppressione della politica in quanto sfera differenziata. Risultato è l’immobilismo – magari nella forma di un immobilismo agitato, si potrebbe dire –, comunque il portato di una conservazione sociale che non ha più alcun bisogno di una “politica” per esprimersi, manifestandosi ormai con il semplice fatto di esserci.

Se il fascismo aveva una necessità disperata di farsi prima governo e poi regime totalitario, la democrazia deformata non prevede una rottura costituzionale profonda: piuttosto la Carta fondamentale è sottoposta a una lenta erosione accompagnata dalla ricorrente minaccia di un suo mutamento in senso plebiscitario. Il totalitarismo puramente virtuale è allora da intendersi, in modo diverso da quello “classico”, come una sostanziale indifferenza, per forze che occupano il sistema politico solo nel senso di sopprimerne l’autonomia, dello stare al governo o all’opposizione. Di qui il carattere di semplice finzione di un bipolarismo inteso come alternanza di governo tra un centrodestra e un centrosinistra. Da entrambe le posizioni, infatti, sia dal governo sia dall’opposizione, le forze della democrazia deformata sono in grado di minacciare e corrompere, di tenere a bada gli avversari, di ricacciarli indietro mettendoli sulla difensiva, e di proseguire la loro lotta contro quei poteri che in un sistema pluralista possono dare fastidio. A lungo andare, questa è l’inevitabilità della democrazia deformata. Il che dà consistenza al suo totalitarismo purtuttavia virtuale, grazie al carattere compiutamente postpolitico di un’influenza legata alle televisioni e all’estetizzazione diffusa della vita sociale più ancora che al controllo del governo.

Tutto ciò trova un’assonanza con la vecchia nozione di egemonia. Ma si tratta di una corrispondenza piuttosto superficiale. La pervasività degli stili di vita eterodiretti, infatti, è andata molto al di là di fenomeni come la letteratura popolare d’appendice, uno degli aspetti dell’egemonia borghese con cui Gramsci si confrontava; e anche al di là della critica al “mito” dell’intellettuale organico mossa da Cesare Cases già nel 1967[2], secondo il quale gli intellettuali venivano trasformandosi in funzionari al servizio di un apparato capitalistico-burocratico. L’industria culturale – evolvendo verso un’estetizzazione diffusa il cui centro, collocato ovunque e in nessun luogo, è dato dagli stessi processi comunicativi, pur con tutte le asimmetrie nella “potenza di voce” al loro interno – ha sbriciolato sia la forza sia il consenso, cioè i due cardini dell’egemonia secondo Gramsci. Nessuna “dittatura del proletariato” rivisitata avrebbe la forza d’imporsi sopra una potenza democratico-deformante, che non implica più la politica e lo Stato come punti di forza, ma contempla solo i vantaggi derivanti dalla loro presa in ostaggio, dal metterli in scacco, grazie alla supremazia di un gruppo di potere nel campo economico e dei mass media. Del resto neppure il consenso ha da essere più veramente coltivato o formato, perché è di continuo anticipato con la tecnica dei sondaggi. Ciò imprime agli eventi una velocità difficilmente contrastabile con la formazione di un’egemonia del genere di quella che il Pci ai suoi tempi presumeva di potere impiantare nel paese: perché questa consiste in un lavoro lento e metodico, mentre una potenza economico-mediatica, che occupa la comunicazione sociale lasciando decadere la politica, taglia corto in modo propagandistico-pubblicitario. Il precipitare del livello culturale, da taluni lamentato, ne è la conseguenza ovvia.

Poteva andare diversamente? L’Italia avrebbe potuto attendersi un’altra storia rispetto a quella realmente avuta a partire dai settanta? E potrà in futuro andare diversamente? C’è un’uscita dalla democrazia deformata? Le risposte a queste domande delimitano il campo di una critica che non si rassegna all’esistente, ponendosi il problema del “se” – di una storia fatta con i “se”, appunto – insieme con quello delle prospettive future.

Una risposta alla prima domanda implica l’esame delle responsabilità della sinistra, dei suoi “errori”, delle sue cecità. Chi, tra il 1975 e il 1976, fosse sbarcato in Italia da Marte avrebbe trovato con stupore la seguente situazione: un Partito comunista al suo massimo elettorale, vicino al 35%, che propone un’alleanza strategica con la Democrazia cristiana, cioè con il suo antagonista storico; un Partito socialista al suo minimo (con il 9,6% dei voti nel 1976) che a parole propone un’alternativa al suo alleato di lunga data, la Democrazia cristiana; un certo numero di rissosi gruppi della cosiddetta nuova sinistra che di nuovo non hanno granché e danno vita a instabili alleanze elettorali tra l’1 e il 2%, arrivando di lì a poco per la maggior parte a sciogliersi; un emergente movimento “autonomo” che nel 1977 darà vita a un ritorno di fiamma rivoluzionario, proponendo e praticando in alcune sue frange il corteo armato pre-insurrezionale; l’area del terrorismo e della lotta armata con alcuni piccoli gruppi clandestini, tra cui spiccano le Brigate Rosse. Insomma una situazione paradossale e anche schizofrenica. Anziché tentare di recepire nel sistema politico le nuove istanze di partecipazione – all’insegna di quello sviluppo della democrazia repubblicana il cui programma era stato consegnato alla Carta costituzionale, ma eventualmente anche attraverso la proposta di una sua modifica nel senso di un’apertura a organismi come i consigli di fabbrica e di zona –, la sinistra preferì o la mera prudenza o il vuoto verbalismo, quando non la deriva disperata, lasciando privo di sbocco il movimento di trasformazione del paese che aveva accompagnato tutti gli anni sessanta raggiungendo l’apice nel biennio ’68-’69.

In questo contesto merita una particolare attenzione la figura di Enrico Berlinguer, segretario del maggiore partito della sinistra. Nonostante la sua memoria goda oggi, nel ricordo di molti militanti e anche di quelli che lo ebbero come avversario, di un grande prestigio, e nonostante siano fuor di dubbio le sue doti d’impegno e il rigore morale, il bilancio della direzione berlingueriana appare pesantemente negativo. Si può addirittura sostenere che proprio con lui abbia inizio quel processo di decadimento che portò il Pci, alcuni anni dopo la sua morte, allo scioglimento per estenuazione. Questa decadenza ha anche un altro nome: immobilismo nella palude italiana. Berlinguer ci appare come il segretario di un’impasse quasi metafisica nella totale incapacità di trovare vie d’uscita. Si guardino le sue proposte politiche, dissimili nella forma ma identiche nel nulla di fatto cui condussero: prima il “compromesso storico”, poi l’“alternativa democratica”. L’evidenza che balza agli occhi è quella di una discrasia logica e cronologica. La proposta di un accordo strategico per il governo del paese con la Democrazia cristiana e i socialisti (con questi ultimi in una posizione di fatto subordinata) viene formulata quando la tendenza elettorale del Pci è in crescita e quando il Psi, con la guida di Francesco De Martino, propone “equilibri più avanzati”, cioè un accordo che ponga le basi di un’alternativa alla Dc. Tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta – dopo i governi democristiani sostenuti dal Pci nel tentativo di avvicinarsi all’area di governo, e dopo la morte di Moro –, con un trend elettorale ormai nettamente negativo, con un Partito socialista a gestione Craxi che va riallineandosi alla Dc in un rinnovato patto a base concorrenziale, Berlinguer propone un’alternativa democratica: qualcosa di più sfumato di un’alternativa di sinistra, ma a quel punto pur sempre impossibile numericamente e politicamente. E dire che nel 1976 la sinistra nel suo insieme era al 45,5% dei voti! I tempi delle due proposte avrebbero dovuto essere quanto meno invertiti.

Un altro difetto – in questo caso più grave – si può notare a proposito dello “strappo” nei confronti dell’Unione sovietica: una lacerazione che in verità non assunse mai l’aspetto di una vera e propria rottura formale. Infatti, sebbene fosse evidente che il Pci era ormai da tempo su posizioni molto lontane da quelle sovietiche, Berlinguer non arrivò mai a compiere il passo decisivo. Ciò che fece, piuttosto, fu dichiarare l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione d’ottobre, accentuando così il contenzioso con la piccola ala filosovietica del partito: ma anche questo soltanto tardivamente, all’indomani dell’acutizzarsi della crisi polacca[3] e dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa (dicembre 1979). In realtà le premesse per una rottura aperta con l’Unione sovietica erano già tutte nell’invasione di Praga del 1968. Berlinguer lascia trascorrere gli anni settanta senza rompere, e alla fine rompe in modo informale, senza sottolineare esplicitamente il carattere involutivo e brutalmente dispotico dell’intera esperienza sovietica, così da non poterne trarre alcun vantaggio di politica interna. La preoccupazione per una possibile scissione fu probabilmente predominante in lui. Ma in questo modo abbandonò il partito a un immobilismo ben peggiore di una scissione – un immobilismo che era tutt’uno con la stessa stagnazione politica italiana –, impedendosi di replicare a fondo all’anticomunismo strumentale di Craxi, che proprio allora lanciava la sua iniziativa per mettere a frutto a suo favore la “democrazia bloccata”, cioè l’impossibilità di un’alternanza di governo in Italia a causa del preteso carattere filosovietico del Partito comunista.

A ciò si deve aggiungere un’ulteriore osservazione critica. La famosa “terza via” auspicata e ricercata da Berlinguer non esisteva. O meglio: tra il socialismo democratico, che resta sostanzialmente all’interno del quadro capitalistico, e la rivoluzione proletaria – che implica un autogoverno dei “produttori”, come li chiamava Gramsci, attraverso la messa in questione del potere statale e l’instaurazione di una democrazia di tipo consiliare – una “terza via” era già imprevedibilmente saltata fuori dal cappello della storia: ed era proprio il capitalismo o socialismo burocratico di Stato di marca sovietica. Paradossale, forse, ma non per questo meno vero. La via che Berlinguer avrebbe dovuto intraprendere era semplicemente quella di riconoscere il carattere socialdemocratico, o meglio socialista europeo, del Pci, pur con la peculiarità derivante dalla sua storia. Se questo fosse accaduto per tempo, il Pci sarebbe forse riuscito a smuovere la stagnante democrazia italiana prima del suo inarrestabile declino. Invece, con il suo immobilismo, il Pci rimase una cosa che era un’altra cosa. Strano gioco delle parti con il Psi, anch’esso altro da quello che pretendeva di essere, visto che, da componente del socialismo europeo, si stava rapidamente trasformando in un partito degli affari e delle mazzette collocato al centro dello schieramento politico.

In conclusione la “diversità” di Berlinguer, la sua “austerità” (egli stesso del resto era una persona molto austera, influenzato da un certo cattolicesimo di sinistra), furono aspetti di una predicazione morale che non seppe tradursi in scelte politiche concrete. Pesavano, è vero, nella situazione italiana degli anni settanta, gli attentati, la “strategia della tensione” e un terrorismo di sinistra non si sa quanto inquinato dai poteri paralleli. Questo consigliava di attestarsi sui fondamentali di una democrazia e di un Pci presi com’erano, senza innovazioni che ne mettessero a rischio la tenuta (e il “compromesso storico” non fu in fondo che una ripresa della strategia togliattiana nell’immediato dopoguerra). Ma così un modello di sviluppo basato sui consumi privati, sul saccheggio dell’ambiente, sull’inflazione della moneta e (come sempre in Italia) sull’evasione fiscale, non trovò nel Pci un’opposizione efficace. E non avrebbe potuto trovarla, intrecciandosi il rigore berlingueriano con una pratica di amministrazione dell’esistente in periferia, soprattutto nelle “regioni rosse”, e in certi momenti consociativa con la Dc al centro. Lo spostamento dell’accento sui consumi collettivi, la costruzione di uno Stato sociale efficiente, la ridistribuzione del reddito attraverso la leva fiscale, e la ridistribuzione del potere attraverso una riforma della stessa democrazia – quelli che da sempre, anche senza parlare degli “elementi di socialismo” (altra espressione berlingueriana), sono i punti qualificanti e i viventi obiettivi di una socialdemocrazia degna del nome –, non trovarono, nel pantano non ancora definitivo degli anni settanta, se non la loro immobilizzazione per il successivo e definitivo pantano degli anni ottanta, che si aprirono con l’emblematica sconfitta del movimento operaio alla Fiat.

Da quel momento l’affarismo, il clientelismo, le mafie, il ventre molle di un’Italia molto antica, non fecero che prosperare. Il neopopulismo mediatico, insieme con quello più tradizionale ed etnico della Lega, trovarono davanti un’autostrada libera d’ingombri il cui casello ebbe nome Tangentopoli: una ben strana riforma della politica che non passava per la politica, ma in apparenza per la magistratura e in realtà per il qualunquismo. Quanto Berlinguer, che nel frattempo (nel 1984) era morto, avrebbe compreso di tutto questo e quanto, a quel punto, avrebbe potuto correggere non solo della strategia ma della sua stessa concezione del mondo? Ben poco, temo. Il Pci si sciolse per estenuazione, come ho detto, e nel momento sbagliato, quando si sgretolava il blocco sovietico, lasciando allora supporre che fosse davvero essenziale quel legame se il partito di Gramsci (già nato in un momento sbagliato, alla vigilia della dittatura fascista) si suicidava così, per la perdita della casa madre, per l’assenza di prospettive proprie.

Del resto, come ha mostrato Giuseppe Fiori[4], parlamentare del gruppo della Sinistra indipendente eletto nelle liste del Pci, i comunisti non seppero contrastare con efficacia la nascita e la crescita dell’impero berlusconiano: un po’ perché abituati a considerare più importanti altri temi anziché quelli del controllo dei mass media, un po’ perché soddisfatti di portare a casa il risultato di una televisione pubblica lottizzata anche a loro vantaggio (Raitre), e forse anche perché presi da un rapporto disturbato di double bind con il loro antagonista, Bettino Craxi, di cui Berlusconi all’epoca era al tempo stesso la longa manus e il committente. Certo, il successore di Berlinguer, Alessandro Natta, in un’intervista pubblicata poco prima della morte, rivelò che Berlusconi era andato anche da lui a cercare “protezione” in cambio di spazi televisivi e chissà che altro, e che lui lo aveva allontanato in modo sbrigativo. Ma resta il fatto che quanto accadde di lì a qualche anno – il congiungersi del momento pubblicitario e fantasmagorico delle merci, proprio della tv commerciale, con la propaganda politica di tradizione bonapartista e populistica –, questo cortocircuito era del tutto imprevisto, non contemplato in nessuno dei testi cui si abbeveravano i dirigenti comunisti avvezzi a misurarsi, semmai, con la questione della politica culturale e dell’egemonia, non con quell’ “intellettuale collettivo” che la televisione era nel frattempo diventata.

In linea di massima una forza socialdemocratica, consapevole di operare nell’ambito di una democrazia liberale dotata di un sistema politico basato sull’alternanza di governo, è anche consapevole della necessità di porre dei limiti, con una seria normativa anti-trust, all’arroganza della concentrazione capitalistica nel settore cruciale dei mass media, così da non lasciare nelle mani del potente di turno e dei suoi amici un controllo monopolistico sui mezzi di comunicazione, diventati ormai anche più importanti dei mezzi di produzione. Ma questa consapevolezza non faceva parte del bagaglio di una forza socialdemocratica sui generis come il Pci. Non riuscendo a immaginare una vera e propria alternanza al governo del paese, ma soltanto alleanze ampie, persino imprecisate come l’ipotetica “alternativa democratica”, il Pci non pensava di potersi porre per se stesso come un’alternativa, in quanto segnato dal marchio “comunista”, e di dovere perciò avere rapporti anche d’intesa e non solo di contrasto con gli altri partiti democratici, com’era avvenuto ai tempi in cui la politica dell’unità antifascista era stata efficace e storicamente attuale. E ciò ancora quando quei partiti non erano già più “democratici”, ma si andavano trasformando in semplici consorterie riunite, nel caso della Dc, o in un partito personale volto al taglieggiamento politico-affaristico nel caso del Psi di Craxi.

Così, quando con Achille Occhetto la parabola del Pci venne a compimento (insieme con quella molto più tragica dell’Unione sovietica), il nuovo partito, il Pds, smarrì la bussola e si accodò al cosiddetto movimento referendario, che all’inizio degli anni novanta intendeva cambiare non soltanto la legge elettorale a colpi di referendum, ma in un certo senso la stessa Costituzione, finendo con l’essere, quasi quanto Tangentopoli, all’origine del qualunquismo diffuso e della successiva deriva di destra. Persino la prudenza democratica e istituzionale caratteristica del Pci fu lasciata da parte con la sterzata “nuovista” di Occhetto: come se da un lungo immobilismo ci si potesse riprendere semplicemente muovendosi senza direzione; mentre, d’altra parte, la scissione di Rifondazione diventava l’asilo del massimalismo parolaio della vecchia tradizione socialista e gruppettara più ancora che comunista ortodossa.

Naturalmente a proposito di Rifondazione bisognerà distinguere, in una prospettiva storica, tra la breve fase della segreteria di Sergio Garavini – ancora in linea con la serietà del vecchio Pci – e la lunga gestione di Fausto Bertinotti che, tra giravolte e scissioni, condusse un partito dell’8% alla dissoluzione. Quale fosse, in Bertinotti, la consapevolezza del problema storico posto dal neopopulismo mediatico e dalla sua invasione della sfera politica, fu subito manifesto quando nel 1995, segretario da un anno o poco più, egli si dichiarò in disaccordo con un referendum che si proponeva d’impedire l’interruzione pubblicitaria dei film durante il loro passaggio televisivo – il che, oltre a essere un fatto di civiltà mediatica, avrebbe colpito a fondo le entrate pubblicitarie delle reti private – con l’argomento che, mettendo a repentaglio le televisioni berlusconiane, si sarebbero messe a repentaglio anche le ore di svago dei lavoratori. Ciò a dimostrazione di quanto poco fossero penetrate nella sinistra italiana le analisi critiche intorno al potere di condizionamento dei mass media. Proprio lo squallido destino personale di Bertinotti, ridottosi al narcisismo delle comparsate a getto continuo nei cosiddetti salotti televisivi – nei quali era benissimo accolto dopo il passaggio all’opposizione del governo di centrosinistra nel 1998, e in cui poteva pontificare intorno alla minaccia per l’umanità costituita dalla globalizzazione neoliberista –, è probabilmente il segno più tangibile di una sinistra che aveva ormai introiettato il berlusconismo in quanto stile leaderistico e personalizzato della comunicazione politica. Vera e propria anticipazione, per Bertinotti, di un fallimento che sarebbe arrivato solo dieci anni dopo, nel 2008.

Sull’altro versante, quello della sinistra moderata, le cose non sono andate meglio. Nel Pds-Ds-Pd a farla da padrone è stata l’oscillazione. Mi oppongo o cerco un compromesso con il berlusconismo? Ecco il dilemma insolubile. E ancora: mutuo il più possibile i suoi caratteri, dato che così va il mondo, o cerco d’inventarmi un’altra prospettiva? Se si vanno a rivedere le liti ricorrenti, i personalismi, i colpi sopra e sotto la cintura che hanno costellato la vita dei dirigenti della sinistra moderata, li si può leggere come momenti nel pendolo di questa oscillazione perenne.

Quella di Massimo D’Alema si presentò, dopo il caos occhettiano, come un’ipotesi all’inizio socialdemocratica in senso “classico”. Un partito ben strutturato intorno a un’identità, anche se eventualmente non privo di correnti interne, che, pur mantenendo un rapporto con un’ala più radicale alla sua sinistra, guardasse verso il centro mediante un’alleanza stabile, l’Ulivo, nell’ambito di uno schema bipolare entro cui il berlusconismo era una variante anomala ma tutto sommato transitoria. Di qui la proposta di una “costituzionalizzazione della destra”, che si sarebbe dovuta realizzare con una grande riforma delle istituzioni durante il governo di centrosinistra di Prodi – reso possibile dalla provvidenziale divisione delle destre alle elezioni del 1996 –, mediante lo strumento di una commissione parlamentare bicamerale. Ma proprio qui la linea di D’Alema mostrò la corda. Il berlusconismo non era affatto una variante riassorbibile nel normale gioco politico; era una forza duratura di deformazione della democrazia, con cui era contraddittorio e addirittura suicida pensare di potere fare accordi per riformare le istituzioni. Proprio l’uomo che in astratto avrebbe dovuto essere il più abile nello sfruttare le residue risorse dell’autonomia della politica – le uniche forse ancora in grado di contenere il berlusconismo sbarrandogli la strada del governo – sbagliò le scelte che la sua presunta sapienza tattica non avrebbe mai dovuto permettergli di sbagliare. Il “momento D’Alema” finì nell’impasse di una presidenza del Consiglio ottenuta grazie a un pugno di voti trasformisticamente racimolati in parlamento.

Dopo di ciò il berlusconismo dilaga. La presunta sinistra radicale di Bertinotti ha fatto cadere il governo Prodi, il tatticismo di D’Alema gli si è ritorto contro, il segretario dei Ds (Walter Veltroni, antagonista storico di D’Alema) si chiama fuori dalla mischia presentandosi come candidato a sindaco di Roma… Le elezioni del 2001 – che il centrosinistra perse colpevolmente, presentandosi diviso e rassegnato alla sconfitta – segnano la vittoria, a quel punto definitiva, della democrazia deformata. Da quel momento nessun recupero elettorale per una sinistra che voglia essere forza di alternanza in uno schema bipolare, seppure anomalo, è più possibile. E questo perché il berlusconismo a poco a poco divora la stessa politica. Il cambiamento della legge elettorale, alla fine della legislatura 2001-2006, con una vera e propria legge truffa, è il suggello della deformazione. Un centrosinistra allargato e privo di coesione guidato da Prodi vince ma in realtà perde, tanto risicata e precaria è la sua vittoria. Si arriva così alle elezioni anticipate del 2008. In campo questa volta è il Pd di Veltroni che si presenta come un clone della democrazia deformata, mutuando tutto ciò che dal berlusconismo si può mutuare in fatto di tendenza plebiscitaria, personalizzazione leaderistica e arroganza nello stabilire, o non stabilire, alleanze con le formazioni minori. È la disfatta del centrosinistra. E c’è anche la perdita simbolica di qualsiasi simulacro di una sinistra socialista o comunista in parlamento.

[1] Insistono invece sulla diversità del Pci rispetto al modello socialdemocratico sia L. Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, il Saggiatore, Milano 2009, sia G. Chiarante nella sua trilogia a sfondo autobiografico, Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, Carocci, Roma 2006; Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (1958-1975), Carocci, Roma 2007; La fine del Pci. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo congresso (1979-1991), Carocci, Roma 2009.

[2] Cfr. l’intervento di C. Cases in P. Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23- 27 aprile 1967, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1969-70, pp. 291-295.

[3] Su tutta la vicenda dell’eurocomunismo e i rapporti con il blocco sovietico, cfr. S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006; A. Rubbi, Il mondo di Berlinguer, l’Unità, Roma 1994.

[4] G. Fiori, Il venditore. Storia di Berlusconi e della Fininvest, Garzanti, Milano 1995.

(tratto da: Le parole e le cose, 08/02/2019)

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