Quando le donne scendono in piazza di Carla Pagliero

 

Considerazioni attorno al libro di Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser, Femminismo per il 99%. Un manifesto (Tempi nuovi, Editori Laterza, Bari, febbraio 2019)

Il primo sciopero nazionale convocato dalle donne è del 1975, quando le donne islandesi bloccarono tutte le attività di produzione e riproduzione sociale per denunciare il disconoscimento del loro ruolo nella società sottolineando l’evidente disparità di trattamento salariale. In Islanda, 200.000 abitanti all’epoca, le donne percepivano, per il loro lavoro, mediamente il 60% in meno rispetto agli uomini e molte donne non trovavano un impiego a causa del tempo utilizzato per le mansioni casalinghe di educazione dei figli e di cura della famiglia, a fronte di strutture sociali non adeguate.

Nel 1975 le Nazioni unite avevano proclamato che quello sarebbe stato l’Anno Internazionale delle donne e in Islanda le donne si organizzarono in comitati per pianificare gli eventi dell’anno. Lo sciopero fu molto partecipato e il 90% delle donne aderì all’iniziativa. A Reykjavik, capitale del paese, ci fu una manifestazione di 25.000 persone, che, come si intuisce, per la realtà dell’isola fu un fatto straordinario. Gli uomini, dovendo prendersi cura della famiglia, a loro volta, non andarono a lavorare o si portarono i figli sul posto di lavoro in quanto asili e scuole erano chiusi. Con lo sciopero del “giorno libero” le donne islandesi riuscirono a mettere in luce, nei fatti, il peso del lavoro “nascosto” femminile dimostrando alla società, e, forse, alle donne stesse, l’importanza del loro lavoro di riproduzione sociale, troppo spesso sottostimato e non riconosciuto, quel lavoro che, per alcuni economisti – Ha Joon Chang, dell’università di Cambridge- se calcolato, avrebbe un 30% di influenza sul PIL di un paese.

L’anno successivo, il Parlamento islandese approvò una legge per garantire l’uguaglianza di diritti fra donne e uomini che, pur non risolvendo sostanzialmente il divario esistente nel trattamento salariale, servì ad accendere nelle donne una consapevolezza nuova del loro valore e delle potenzialità insite in un movimento collettivo e solidale. Non fu quella la prima volta nella storia, ovviamente, che le donne si mobilitarono per un’ingiustizia palese.

La Campagna Internazionale per il Salario al Lavoro Domestico

Nel 2000, ad esempio la Campagna Internazionale per il Salario al Lavoro Domestico convocò il Primo Sciopero Mondiale delle donne rivendicando il giusto riconoscimento per un lavoro così particolare e non valorizzato, come il lavoro di riproduzione e di cura delle persone, lavoro svolto essenzialmente dalle donne. Sulle lotte per il “salario domestico”, che avrebbero dovuto portare ad un riconoscimento anche pecuniario del lavoro svolto in casa, ci sono sempre state posizioni controverse e, anche, critiche. Alcune donne vedono nel lavoro un forte contributo all’emancipazione sia economica che sociale e lottano per avere un riconoscimento di merito delle loro capacità. Questa visione del lavoro, va detto, riguarda soprattutto le lavoratrici delle classi sociali alte che hanno, in genere, lavori impegnativi ma non così devastanti dal punto di vista fisico e spesso delegano, in tutto o in parte, la cura della casa e della famiglia ad altre lavoratrici subalterne.

Questa posizione delle donne “in carriera”, come nota e sottolinea Nancy Fraser nei suoi scritti, ha ostacolato il riconoscimento e la valorizzazione del lavoro “di cura”. Inoltre, spesso, il capitalismo ha abilmente usato questo spazio per proporre un modello di famiglia dove “si guadagna il pane in due”, reclutando le donne nel lavoro salariato. Questa modalità, all’inizio, ha ricoperto una funzione emancipatoria: pensiamo alle donne occupate in settori maschili di produzione durante la guerra per sostituire gli uomini partiti per il fronte, su cui tanto si è scritto come concausa fortuita del processo di emancipazione delle donne nel Novecento. E, fenomeno recente e nuovissimo nel nostro sistema, le badanti che vivono sulla mercificazione dei lavori di cura nei paesi a capitalismo avanzato. Queste donne abbandonano i loro paesi e le loro famiglie, che vengono affidate alle loro madri o ad altre donne che percepiscono, a ricaduta, un compenso, generando un processo distorto ed insensato che, in ultima analisi, innesta scompensi nel sistema sociale e oltre. Scompensi, al momento, difficili da valutare nella loro complessità.

Un femminismo del 99%

Il capitalismo, nella forma odierna il neoliberismo, si legge nel Manifesto del Femminismo per il 99% “sopravvive sfruttando il lavoro salariato ma riesce anche a “scroccare” introiti dalla natura, dai beni pubblici”, dal volontariato e dal lavoro di riproduzione non retribuito, “sulla spinta di un’inesorabile e illimitata ricerca di profitto, il capitale si espande servendosi di tutte queste cose senza pagare per rigenerarle”. D’altra parte, né la natura, né il benessere ambientale e sociale, né, tanto meno, il lavoro riproduttivo femminile vengono riconosciuti e quantificati come valori nel sistema economico e non rientrano, quindi, nel computo produttivo.

Il libro/manifesto di Arruzza, Bhattacharya e Fraser cerca di sistematizzare i problemi che le donne si trovano ad affrontare per rivendicare un ruolo di valore nella società attuale, partendo da un’analisi sostanzialmente marxista che appartiene alla loro formazione. Il Manifesto, ovviamente in quanto manifesto, non si ferma ad un’analisi ma pone degli obiettivi chiari e indica strategie di lotta possibili. Il punto di forza del libro è quello di essere stato scritto in seguito all’esperienza straordinaria dell’International Women’s strike statunitense, di cui le autrici sono state promotrici, che raggiunge il suo punto più alto nella convocazione dello sciopero internazionale dell’8 marzo 2017. Come dire che non si cerca solo di analizzare il problema ma soprattutto si tenta di riscrivere la pratica dello sciopero, alla luce delle precedenti esperienze in cui le donne sono state protagoniste e di cui sopra sono state riportati alcuni esempi significativi.

Altri momenti di rivolta delle donne che vengono ricordati nel libro, e portati come esempio, sono quelli delle donne polacche, che nell’ottobre del 2016 sono scese in piazza per manifestare contro il divieto di abortire, quello delle donne argentine che sempre nell’ottobre del 2016 hanno scioperato per denunciare il brutale assassinio di Lucia Pérez al grido di “Ni una menos”, lo slogan che ha dato il via ad un movimento diffuso a livello internazionale, presente anche in Italia con il nome di Non Una Di Meno (NUDM).

Sono altresì ricordati i momenti di contestazione delle maestre in Brasile e negli Stati Uniti, scioperi che stanno cambiano in modo significativo la dinamica del movimento operaio, lo sciopero delle lavoratrici della sanità in India, lo sciopero contro la privatizzazione dell’acqua in Irlanda e contro i tagli alle spese per l’istruzione, per la salute, i trasporti, la protezione dell’ambiente e contro le politiche di austerità in Argentina, Spagna e Italia, dove la componente femminile ha svolto un ruolo fondamentale.

La tesi portante delle autrici, e anche il focus dell’International Women’s strike, è che oggi il femminismo potrebbe essere quel movimento sociale globale che raccogliendo l’attenzione su campagne legate alla riproduzione sociale, non solo quindi di stampo economico, potrebbe riscrivere la prassi movimentista spostando il traguardo delle rivendicazioni verso un benessere diffuso, che tocca sì l’aspetto economico, ma anche le tematiche legate alla rivendicazione di una società più giusta, egualitaria e meno violenta, sensibile alle problematiche ambientaliste, sociali e antirazziste. Infine, il nuovo femminismo auspicato nel manifesto dovrebbe essere un movimento che agisce dal basso e che individua nella dicotomia capitalismo/patriarcato la specificità dell’oppressione del capitalismo sulle donne. Il fatto che, sempre di più le giovani attiviste femministe siano interessate a comprendere la connessione tra oppressione di genere e capitalismo attraverso il discorso della riproduzione sociale, è sicuramente un dato interessante e positivo, così come i percorsi del nuovo femminismo che si intrecciano in maniera sempre più stretta con la crisi ambientalista e la denuncia dei danni inferti dal neocapitalismo alle risorse naturali e all’ambiente.

Elementi nuovi di conflitto

Rispetto all’analisi marxista, le donne del manifesto del “femminismo per il 99%” individuano elementi nuovi di conflitto che affiancano quelli tradizionali di “classe” e anticapitalisti, quali la sessualità, la violenza, la disabilità e l’ecologia, il reclutamento e lo sfruttamento della manodopera migrante che ha oggi aspetti inediti (ad esempio la forte presenza di donne migranti) che affiancano quelli tradizionali dello schiavismo, la libertà di scelta produttiva/riproduttiva. Nuove parole d’ordine che emergono prepotentemente negli slogan e nelle rivendicazioni degli scioperi promossi dalle donne in questi ultimi decenni. “Il capitalismo, si legge nel manifesto, non è solo un sistema economico […] Dietro le istituzioni ufficiali del capitalismo -lavoro salariato, produzione, scambio e finanza – si trovano quelle condizioni che come pilastri lo sostengono: le famiglie, le comunità, la natura”

La Fraser, che si è occupata a lungo della centralità di temi quali la giustizia, la ridistribuzione delle risorse economiche e la democrazia partecipativa, insiste molto sulla necessità di ritrovare la giusta attenzione ad una critica economica e a non isolarsi nell’identità di genere: il femminismo del 99% deve essere l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale che rischia di ridurre il conflitto all’eliminazione delle diseguaglianze di genere, limitandosi a rivendicazioni che riguardano le donne che appartengono ad una ristretta élite sociale, e che, in alcuni casi, rischia addirittura di fuorviare il senso delle lotte che andrebbero a portare acqua al mulino liberista. Come dire, scendere in piazza per difendere gli interessi di Hilary Clinton, Christine Lagarde o Angela Merkel, solo perché appartengono al genere femminile, non rientra, certo, nei nostri obiettivi prioritari.

Questo è uno dei punti che viene chiarito con maggior vigore nel manifesto e ribadito come punto centrale del nuovo femminismo: se si lotta bisogna lottare per l’interesse di tutte/tutti, per la maggior parte degli abitanti del pianeta. La realizzazione delle donne che passa per i centri del potere, il cosiddetto “femminismo liberale”, che aspira a “rompere il soffitto di cristallo” per sostituire o affiancare le attuali classi dominanti non è l’obiettivo del femminismo per il 99%. Oggi, che si possono leggere chiaramente i punti deboli di questo sistema e che nuovi soggetti sociali si organizzano dal basso per rivendicare un nuovo mondo possibile, si può e si deve creare un nuovo modello di femminismo: anticapitalista, antirazzista ed ecosocialista.

Certo nel tentativo di tenere tutto, e soprattutto tutti, assieme, il Manifesto non entra nel merito, e non offre, definizioni chiare dei soggetti sociali che dovrebbero partecipare a questo grande movimento di massa, soprattutto rimane nel vago quando parla dell’universo queer, come osserva giustamente Daniela Danna nella sua cattivissima recensione apparsa su “Sinistra in rete”; così come non si capisce bene che ruolo svolgono o svolgeranno gli uomini – i compagni- abituati ormai da decenni a sentirsi emarginare in occasione dei dibattiti dalle femministe e che iniziano adesso a vedersi durante le riunioni di NUDM, quanto meno in qualità di osservatori, più o meno, esterni. Certo tanto lavoro va fatto in questo senso per colmare quell’universo di non detti che ci portiamo dietro nel confronto fra generi diversi.

Poco chiaro anche chi e come dovrebbero gestire le politiche sociali e, in questo campo, l’esperienza dei social forum, potrebbe dare dei modelli di riferimento utili e percorribili. L’obiettivo ineludibile, al momento, è quello di mettere in discussione le varie forme di oppressione, sfruttamento e alienazione che si intrecciano all’interno della società capitalista, e di unire ciò che il capitalismo frammenta; ritrovare concetti quali la sorellanza universale che aveva caratterizzato i movimenti femministi degli anni Sessanta, concetto entrato in crisi con le critiche svolte dal femminismo nero e lesbico; recuperare il concetto di democrazia partecipativa per rafforzare i poteri pubblici necessari per controllare il capitale con finalità di giustizia; promuovere forme di vita alternative che pongano al centro dell’attenzione le vite delle persone e non i profitti; riscoprire quelle pratiche di solidarietà che questa società rapace e malata cerca in tutti i modi di distruggere. “Da questa crisi, scrive Paola Rudan sul Manifesto, può risultare una ristrutturazione orientata al profitto, oppure una trasformazione radicale della società. Il femminismo per il 99% ha invece il compito di mostrare che la crisi è nel «DNA» della società capitalistica, e che quindi essa può essere «risolta» soltanto attraverso una trasformazione radicale di questa società”.

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