Banda partigiana e assemblea studentesca come microcosmo di democrazia di Diego Giachetti

 

Guido Quazza, storico, Preside della Facoltà di Magistero di Torino, animatore del Comitato Unitario Antifascista Torinese nella prima metà degli anni Settanta, sviluppò un interessante parallelismo fra le bande partigiane, di cui aveva fatto parte come giovane combattente antifascista, e le assemblee studentesche del ’68. Ai suoi occhi, il ’68 e la Resistenza nella sua forma di adesione spontanea alla lotta partigiana si richiamavano tra loro. Vedeva nei giovani contestatori del ‘68, ribelli alle leggi e all’autorità costituita, se stesso, giovane partigiano che fece la sua scelta, senza avere grandi bagagli ideologici e politici, che vennero dopo, come disse in un’intervista al quotidiano «Gazzetta del Popolo» del 29 dicembre 1974: «l’8 settembre 1943, tanti giovani come me nella più grave crisi nazionale fanno la scelta, non per vecchia militanza, ma da ventenni, da diciottenni, dell’antifascismo, della montagna, delle armi, della Resistenza, non avendo nessuno, né Chiesa, né Stato, né partiti a incanalarli». Una scelta dettata da impulsi etici e morali, dal pratico bisogno di reagire a una situazione di crisi, di smarrimento e di oppressione, poco ideologica, come ricordava anche il partigiano azionista Giorgio Agosti raccontando di aver affrontato la lotta antifascista, «con una infarinatura crociana, la fiducia in qualche amico, il desiderio di far fuori i fascisti non importa come: ecco tutto il mio scarso bagaglio ideologico»[1].

L’assemblea studentesca e la banda partigiana

Nei due eventi, apparentemente lontani e diversi, Guido Quazza trovava il primo filo narrativo comune nel mescolarsi della partecipazione politica con la vita quotidiana, cementata dalle relazioni interpersonali, che si erano costituite all’interno della comunità studentesca durante le occupazioni universitarie e ricordavano quelle della banda partigiana. Condivisa era anche l’iniziativa dal basso, la responsabilità collettiva derivante dal partecipare a esperienze comuni, vissute con la stessa intensità dagli studenti contestatori e da tanti giovani che nel biennio ’43-’45 aderirono alla banda partigiana, forma di organizzazione spontanea fondata sulla scelta individuale, senza alcuna legittimazione di autorità morali, politiche, statuali. Nell’ assemblea studentesca, come nella banda partigiana, si costituiva un rapporto che esigeva una partecipazione diretta e non delegata, l’assunzione collettiva delle decisioni, la costituzione di una volontà generale mediante il confronto serrato con tutti i componenti il gruppo.

Il movimento studentesco aveva introdotto una rottura salutare nella vita universitaria e politica, operata da una comunità che si era data come forma di governo l’assemblea, uno strumento che si poneva come base non solo di una università libera, ma anche di una società libera. Nel corso delle occupazioni universitarie si era consolidato un reticolo di relazioni interpersonali, una solidarietà di gruppo resa forte dalla durata dell’esperienza, vissuta collettivamente e con intensità. La democrazia diretta, decidere tutti assieme nelle assemblee, l’essere disposti a pagare di persona per le proprie scelte, la fitta connessione fra l’agire politico e la quotidianità della vita, favorirono quel circuito virtuoso per cui il quotidiano si mescolò, senza più distinguersi, con l’agire politico. Nella protesta studentesca, osservava Guido Quazza, «apparivano chiari elementi di metodo che richiamavano la Resistenza: l’iniziativa dal basso, la partecipazione, il rifiuto dell’autorità e della delega. Nella “guerriglia” dei contestatori, nell’occupazione, nell’assemblea si ritrovava, in modi diversi e certo con meno rischio, il pagar di persona partigiano»[2].

Nel ’68 maturava una nuova figura di militante, la cui azione contestatrice prendeva in considerazione non solo la scuola ma l’intera società. In quel moto di partecipazione collettiva il personale si immergeva totalmente nel politico, il pubblico e il privato si fondevano in una carica di tensione morale che ricordava il giovane combattente della Resistenza. Al centro di quell’esperienza partigiana vi fu la banda, definita dallo storico torinese «un microcosmo di vita democratica: il comandante era eletto sul campo e destituito sul campo. Tutte le azioni implicavano sempre decisioni personali. La banda era vera libertà. Ci sentivamo per la prima volta liberi, padroni di noi stessi, in grado di fare e decidere da soli»[3]. La banda intesa come momento di autogoverno fondato sulla democrazia diretta consentiva la conciliazione tra la scelta individuale, dettata dalla propria coscienza, non necessariamente politica, spesso solo morale, e il formarsi di una volontà collettiva. La banda partigiana, microcosmo di democrazia diretta, fu riconsiderata, alla luce delle lotte studentesche e operaie, come antesignana dei consigli di fabbrica, dei comitati di base nelle scuole, nei quartieri, nell’esercito, nella polizia.

Movimenti, istituzioni, democrazia

Il ’68, riportando alla luce la forma dell’agire come movimento, la democrazia assembleare e diretta, offriva allo studioso della Resistenza nuove ipotesi di ricerca e di interpretazione storiografica perché richiamava una dimensione della guerra partigiana, la spontaneità della scelta, la vita quotidiana della banda partigiana, che era stata fino allora trascurata da un’attenzione tutta rivolta al momento politico, all’organizzazione, al partito. Si poteva ricominciare a ragionare sui concetti di organizzazione e spontaneità, sul rapporto tra partiti, sindacati e movimento. Il protagonismo degli studenti e degli operai rappresentava una delle poche esperienze di esercizio della democrazia diretta nella storia del nostro Paese. Una democrazia vissuta e non solo proclamata e celebrata nelle ricorrenze, in grado di far emergere e valorizzare l’azione dell’individuo nel quadro della decisione collettiva concordata, capace di esercitare autorità e controllo sul potere politico.

Il sistema rappresentativo democratico liberale rivelava l’incapacità a garantire l’effettiva partecipazione del cittadino alle scelte generali, lasciando a ristrette oligarchie il potere di manipolare o reprimere la volontà delle masse. Egualmente i sistemi a “socialismo reale” si caratterizzavano per la rigidezza dell’oligarchia burocratica che rappresentava un grave ostacolo alla libera circolazione delle idee e delle forze negli organi di gestione politica e amministrativa della società. Le istituzioni rappresentative da sole non davano potere reale al cittadino. Occorreva affiancarle e stimolarle con “dosi” di partecipazione autentica e popolare alla vita pubblica, con una democrazia sostanziale, diffusa e compenetrata nel reticolo della vita sociale, basata su forme di autogoverno simili a quelle della banda partigiana negli anni della lotta di liberazione.

La democrazia diretta e partecipatoria non era in contrasto con quella rappresentativa, istituzionale, dei partiti. Poteva, anzi doveva premere per trasformare in meglio tali istituzioni. Non era sufficiente premere per cambiare le persone nei ruoli istituzionali: non serve mettere un comunista al posto di un democristiano diceva Guido Quazza, non cambierebbe nulla, quello che fa la differenza è se i politici, come uomini responsabili del governo e dell’amministrazione, si trovano sottoposti a un controllo di massa che pretende da loro certe cose. Affinché le istituzioni funzionino, partiti compresi, e rappresentino realmente la volontà popolare, è necessario -concludeva- che gli istituti della democrazia dal basso, l’autonomia della base, trovino modi e forme di incidere sulle istituzioni stesse, partecipando attivamente alla vita politica. Solo così si poteva intraprendere la lunga marcia «verso una democrazia autentica, verso la democrazia proletaria»[4].

[1] G. Agosti, Dopo il tempo del furore. Diario 1946-1988, Torino, Einaudi, 2005, p. 478.

[2] G. Quazza, in Fascismo e antifascismo nell’Italia repubblicana, Torino, Stampatori, 1976, p. 176.

[3] G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 272.

[4] G. Quazza, in AA. VV., I comunisti a Torino 1919-1972, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 326.

(La foto: Guido Guazza al tavolo di lavoro)

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