“Fausto Vigevani e l’obiettivo della Piena Occupazione” di Paolo Leon

Nell’anniversario della scomparsa di Fausto Vigevani (5 marzo 2003) vi segnalo l’intervento di Paolo Leon tenuto al Senato il 20 ottobre 2014, in occasione della presentazione del libro: “Fausto Vigevani: Il Sindacato, la Politica”.

Cari saluti
Renzo Penna

Non vorrei continuare con citazioni del pensiero di Fausto, sia perché sono già presenti nel libro che presentiamo, sia perché Renzo Penna ne ha fatta una splendida analisi. Vorrei, se fosse possibile, immaginare che cosa potrebbe essere oggetto della nostra attenzione oggi, alla luce del pensiero di Fausto Vigevani. Non è una cosa semplice, perché sia durante la sua vita sia dopo, sono stati distrutti, e in maniera quasi irreparabile, alcuni degli elementi fondamentali che facevano parte del suo e del nostro pensiero.  Parlerò soprattutto del sindacato, che ha fatto una grande fatica, dopo gli anni gloriosi del ‘70, a riconoscere il proprio ruolo politico, unitario e autonomo, come pensava Fausto.

Il sindacato ha raramente apprezzato la propria natura di corpo intermedio nelle moderne economie, non nel senso dei sociologi, per molti dei quali un corpo intermedio è una lobby o un’associazione di benevolenti (quando le due motivazioni non si mescolano). Come e più di altri corpi intermedi, il sindacato è un’istituzione sociale, economica e politica, il cui fine ultimo è di difendere i lavoratori, non solo nelle circostanze del mercato della forza lavoro, ma anche quello di contribuire a costruire una forza per la quale la stessa difesa dei lavoratori deve diventare quasi automatica. Questa situazione si chiama “piena occupazione” o “diritto al lavoro” nel linguaggio costituzionale. E’ la pressione continua per la piena occupazione che contribuisce a sua volta a tenere elevata la domanda effettiva e la crescita del PIL. Per questo, l’obiettivo fondamentale del Sindacato – appunto, la piena occupazione – lo rende un soggetto macroeconomico. Del resto, la caratteristica di un corpo intermedio come quello del sindacato, è quella di non rispondere alle regole del mercato, che è strutturalmente ostile alla piena occupazione.

Spesso dimentichiamo che, nella nostra Costituzione, i poteri non sono del mercato; legislativo, esecutivo e giudiziario, non sono dominati dai valori di mercato. La divisione dei poteri – ciascun potere un corpo intermedio – non è solo necessaria per garantire la democrazia rispetto a maggioranze autoritarie, ma anche per evitare che i valori del mercato, che nulla hanno a che vedere con la democrazia, prevalgano.
La nostra, come tutte le Costituzioni, si fonda sulla divisione dei poteri, che negli anni del dopoguerra ha avuto uno sviluppo grandioso (più tardi definito come pluralismo) dove strutture analoghe e aggiuntive alla classica divisione dei poteri si sono riprodotte, espandendosi nella società, come non era mai accaduto in precedenza.
Per questo diciamo che il Sindacato è un potere autonomo. Per l’estensione di tale autonomia, la salute è un’attività autonoma, perché i medici devono curare indipendentemente dal reddito, dalla nazionalità e dalla cittadinanza delle persone. Così è per la scuola, perché l’istruzione deve essere offerta a chiunque, quale che sia il suo status di reddito o sociale; o la ricerca, che deve essere svolta in libertà rispetto alle indicazioni che possono provenire dal mercato o da qualche altra istituzione, magari autoritaria. Cito solo alcuni di quegli elementi, che hanno creato l’Italia moderna.
Ricordo questa caratteristica della democrazia, perché oggi assistiamo alla progressiva distruzione di ciascuna di queste autonomie, per di più condotta con una certa scientificità, indizio di consapevolezza da parte di chi vi si dedica. Un buon esempio è quello del Sindacato, che per tanti anni ha esercitato il suo potere sul mercato attraverso la concertazione con le imprese e lo Stato, ma che sono ormai tre lustri che non lo esercita più in quel modo: il potere esecutivo non ha più sentito il bisogno di rispettare l’autonomia del sindacato. Oggi, il sindacato non ha la capacità o la forza di proporre scelte efficaci alla concertazione, l’occupazione è molto bassa, e il suo potere autonomo, economico, sociale e politico si è ridotto.
E’ su queste debolezze che si avventa chi è contrario alla divisione dei poteri, in nome della governabilità. Si avventò Craxi sulla giustizia, ma la sua azione fu modesta rispetto a ciò che è successo con Berlusconi e che continua a succedere. La giustizia è un elemento fondante del pluralismo: è uno dei tre poteri fondamentali sui quali riposa la democrazia, e forse il più odiato – asininamente – dal sistema politico. La natura della sanità resta un forte potere autonomo, pur con tutte le restrizioni e le rotture rispetto al welfare universale e gratuito. Eppure, è stata gradualmente alterata a partire già dagli anni ’80, quando il concetto di salute da bene universale e gratuito è mutato in concessione, come bene necessario per l’equità. E l’equità non ha a che vedere con l’autonomia, perché implica una concessione e non un diritto. L’equità applicata alla sanità significa che è per i poveri, e non per tutti quelli che sono presenti nella società.

Non posso andare molto avanti su questo tema, ma se ci si riflette e si fa l’analisi dei singoli poteri autonomi o dei corpi intermedi, ci si accorgerà di una logica. Il potere autonomo, da corpo intermedio, sta soprattutto nello Stato stesso, perché lo Stato risponde alla legge, non a una regola di mercato, altrimenti sarebbe impedito il suo potere d’intervento (regolatorio, sostitutivo). Può certo contenere elementi di natura economica, come negli effetti della fiscalità e della spesa pubblica o nelle nazionalizzazioni, ma non risponde alla logica del mercato. Non si commerciano i diritti, non si vendono permessi, licenze, controlli, da parte dei singoli impiegati; non c’è uno stato patrimoniale nel bilancio dello Stato; non c’è mercato nell’organizzazione interna del settore pubblico, anche se qualche economista pensa che ci sia. Con la corruzione c’è sempre ma, appunto, è un reato.
Quando si arriva al punto in cui gli elementi autonomi del settore pubblico si sgretolano e sono sostituiti dal settore privato, oppure vengono semplicemente rimossi e non fanno più parte dello strumentario dello Stato, come avviene prima col blocco del turnover, poi con la riduzione del numero di impiegati, poi con la esternalizzazione delle funzioni pubbliche, e poi con i tagli lineari e quelli non lineari. Quando avvengono tutte queste cose, non viene meno semplicemente il senso dello Stato come lo potrebbe interpretare il feticista della nazione. Viene meno il fatto che non esiste più, o per lo meno che si indebolisce la capacità dello Stato di essere autonomo rispetto al mercato e perciò di intervenirvi.

La distruzione del pluralismo è in avanzato stato di realizzazione, e nessun governo vi si è sottratto, anche quelli del centro sinistra, compreso l’attuale. Anche perché pochi hanno capito che si stanno distruggendo gli elementi costitutivi della Costituzione. Si preferisce distruggerne direttamente alcuni elementi, come il Senato, e domani la rappresentatività, con leggi elettorali che produrranno l’unica Camera con una forma di dittatura della maggioranza. Un pericolo immanente, e assai più grave del fatto che i cittadini non sapranno, con sistemi meno autoritari, quale governo è stato eletto al loro risveglio, il giorno dopo le elezioni.
Ecco, quando ci si trova in una situazione di questo genere, tutto quello che abbiamo sentito, anche oggi, provenire dal pensiero di Fausto Vigevani, grida vendetta.
Guardiamo alla salute dei lavoratori, che è allo stesso tempo un aspetto dello Stato Sociale. La salute dei lavoratori, come la vede Fausto Vigevani, non è semplicemente la necessità di curare o, meglio, di evitare che i lavoratori subiscano infortuni o malattie professionali, ma è ciò che preserva la dignità del lavoratore. E la dignità del lavoratore non è altro che la ragion d’essere del sindacato come corpo intermedio, perché la dignità non è di mercato, ovviamente, e il sindacato questo dovrebbe rappresentare.
Lo rappresenta? Ho dubbi. Mi chiedo se la CGIL, nonostante abbia mantenuto un numero di adesioni ancora elevato rispetto a tanti altri sindacati, abbia inteso fino in fondo il suo ruolo di soggetto politico, autonomo e unitario. Certo, l’unità non c’è più, e CISL e UIL, per non parlare dei sindacati minori, non la ritengono necessaria, ma si può essere unitari in tanti modi. Non necessariamente quello di mettersi insieme attorno ai tavoli, ma di avere obiettivi che possono essere ricondotti al consenso di tutti i lavoratori e, poi, dei sindacalisti. Penso che il sindacato, per anni, ha messo in ombra questo modo di intendere l’unità, in parte perché doveva rispettare maggioranze che solo apparentemente corrispondevano ai propri obiettivi, in parte perché la cultura economica e giuridica dominante erano, in fondo, antisindacali anche a sinistra.

Possiamo fare qualche esempio? Forse preferirei di no, ma il grande precariato nasce, in politica, a sinistra, non a destra. E il sindacato si è opposto poco; ha creato anche proprie istituzioni contro il precariato, ma quando si è trattato in Parlamento di decidere sul part-time come forma generalizzata di contratto (conseguenza del famoso pacchetto Treu), non ha avuto la forza sufficiente per avvertire che, trattati i lavoratori in questo modo, il sindacato avrebbe compromesso il suo ruolo unitario e autonomo di soggetto politico.

La concertazione, del resto, aveva questo difetto interno; che quando è avvenuta, era con i governi amici, i cui progetti nascondevano forme moderate di anti sindacalismo. Con i governi amici bisognava andare d’accordo; con i governi non amici non c’era la concertazione o si diceva che c’era dialogo; e il dialogo consisteva in una qualsiasi telefonata o lettera che il sindacato e i governi si scambiavano; e come risultato il sindacato rimaneva, sì, autonomo ma per difetto di controparti. Naturalmente, il decennio berlusconiano è stato decisivo, e non si può dare una responsabilità al sindacato per tutte le distorsioni nate in politica.

In tutti questi anni in cui la democrazia veniva messa in grande difficoltà, c’è un aspetto pedagogico dimenticato: la sinistra, il centrosinistra, il sindacato di sinistra o di centrosinistra non hanno costruito una pedagogia democratica, né hanno posto sullo stesso piano la rivendicazione contrattuale e la difesa della democrazia. La CGIL ha certo difeso i diritti dei propri aderenti alla rappresentanza nelle imprese contro gli altri sindacati, ma non ha indicato che quella erosione dei diritti in azienda corrispondeva all’erosione della democrazia per tutti i cittadini. Non è certo responsabilità solo dei sindacati, ma quando avviene la disgregazione dell’unità sindacale e s’indebolisce la rappresentanza dei lavoratori, quando avviene che, contemporaneamente, anche altri corpi intermedi si disgregano e con questi il pluralismo e perfino la divisione dei poteri, allora è in pericolo la democrazia, e diventa impossibile, se non colpevole, non accorgersene.

Se facciamo il confronto tra il comportamento da sindacalista di Fausto Vigevani e il comportamento di tanti colleghi sindacalisti nel periodo in cui Fausto era già politico, ci accorgiamo di quanto si è perduto nel sindacato della sua stessa filosofia.
Dobbiamo riprendere i valori che Fausto descriveva da politico oltre che da sindacalista, poiché l’offesa a quei valori è forte e sommamente attiva, ma allora dovremmo darci molto più da fare.

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