Venezuela, dialettica della transizione di Geraldina Colotti

 

Abbiamo pubblicato sul sito di ‘dalla parte del torto’ l’articolo di Juan Carlos Monedero ‘11 tesis sobre Venezuela y una conclusión escarmentada’, pubblicata sul sito del giornale online spagnolo publico.es/comiendo tierra del 11 agosto 2017, e l’articolo di Lucia Capuzzi, ‘Bolivarismo venezuelano’, pubblicato sulla rivista ‘gli asini’ n. 42-43, agosto-settembre 2017, come base per aprire un dibattito.

Seguono una serie di articoli con posizioni, anche contrastanti (di Edgardo Lander, Giorgio Cremaschi, Antonio Moscato, Luís Frazenda, Geraldina Colotti). Ci sembra utile discutere in modo aperto e critico, senza pregiudizi ideologici: quello che sta succedendo in Venezuela determinerà le ‘sorti’ dell’America Latina. Il dibattito è aperto! (f.l.)

 

Venezuela, dialettica della transizione     di Geraldina Collotti

Dall’Italia alla Francia, dalla Spagna all’America latina si moltiplicano le analisi dei “critici-critici” sulla situazione in Venezuela. Si avverte, soprattutto in Italia, l’affannosa ricerca dell’aurea mediocritas da parte di una certa sinistra piccolo-borghese: l’assunzione di quell’aurea via di mezzo che consente, da una posizione intermedia, di cogliere la pagliuzza negli occhi degli altri per non vedere la trave nei propri. Contro il socialismo bolivariano, ognuno agita i propri fantasmi rimettendo in circolo, spesso senza nominarli, dubbi e nodi irrisolti delle grandi rivoluzioni. Ma intanto, anche se “Maduro non è Chavez”, come ripetono come un mantra i cantori dell’”aureo mezzo”, i nemici che deve affrontare sono gli stessi che ha dovuto combattere Chavez. Maduro, se è per questo, non è neanche Allende ma – come ha fatto notare l’analista argentino Carlos Aznarez – le forze che vogliono abbatterlo sono le stesse, mutatis mutandis, che hanno stroncato la “primavera allendista” nel Cile del 1973.
Anche al “socialismo del XXI secolo”, dunque, che si definisce umanista, cristiano, libertario e gramsciano, tocca misurarsi con gli scogli di quello novecentesco, disseminati su una rotta che appare per molti versi simile.
Di tentativo in tentativo, infatti, sembra che il “laboratorio” boliviariano venga ricacciato nei dilemmi del secolo scorso. I chavisti come i bolscevichi al tempo di Lenin e Trotsky? La “profezia” sull’involuzione del socialismo sovietico, espressa da Rosa Luxemburg nel famoso saggio La Rivoluzione Russa, si applicherebbe a Maduro e alla “forzatura” dell’Assemblea Costituente? Con le sue ultime decisioni il socialismo bolivariano avrebbe chiuso la porta alla “democrazia illimitata” e alla migliore eredità delle libertà borghesi? E, se questo è vero, quale cammino ha imboccato un percorso di transizione che, sino ad ora, non aveva mai scansato l’appello diretto e universale al responso delle masse?
Fin dal 1998, in Venezuela, ciò che accade è chiaro. Un progetto di nazionalismo democratico vince le elezioni e progressivamente si muta in un tentativo di trasformazione socialista che tuttavia rispetta il quadro delle libertà borghesi e di quella “democrazia illimitata” di cui parla Rosa Luxemburg nel suo famoso saggio. Per azzardi e sperimentazioni, anche forzando l’impalcatura dello Stato borghese onde depotenziarne i meccanismi dall’interno in nome della “democrazia partecipativa e protagonista”, Chavez ha sempre fatto ricorso alle urne per legittimare le sue scelte, affidandole al voto con suffragio universale diretto e segreto: all’esercizio illimitato della democrazia, appunto. E adesso?
Dopo quasi 18 anni di governo e un record di elezioni effettuate – finora 21, due delle quali perse – il chavismo viene spinto ad andare oltre la cornice luxemburghiana dal concreto storico della lotta di classe. Dichiara di voler superare lo Stato borghese instaurando uno stato delle comunas che, senza dubbio, presenta qualche analogia con quello dei Soviet.
Nel contesto di crisi economica, e nel moltiplicarsi delle aggressioni a livello interno e internazionale, il momento diventa quello del Golpe de Timon: la sterzata annunciata da Chavez nel programma strategico stilato poco prima di morire, il 5 marzo del 2013. Maduro la interpreta come un contrattacco. La legittimazione dell’attuale presidenza della repubblica, e quella del socialismo bolivariano, vengono affidate all’Assemblea Nazionale Costituente, intesa come espressione del “potere originario”, quello popolare: ovvero nelle mani del “demos”, la parte politicamente attiva del popolo, eletta e rappresentata nell’Anc.
E’ senz’altro un salto di qualità. Una cesura, o, se volete, un approfondimento della dialettica della transizione. Ma non una rottura con il cammino del chavismo. Infatti, l’Anc rimetterà le sue deliberazioni al responso popolare attraverso un referendum, nel quale ognuno voterà per suffragio elettorale diretto, universale e segreto.
Questo è il quadro. Ma i feticisti delle procedure parlano di una “rottura costituzionale”. Perché Chavez ha sottoposto a referendum la Costituzione del 1999 e Maduro non ha ricorso alle urne prima di indire l’Anc? Il chavismo risponde che il voto non era necessario: a differenza del ’99, una Costituzione c’è già, e al suo interno esistono gli articoli per indire un’Anc, il cui intento non è comunque quello di azzerare la precedente Carta Magna, ma di spingerla verso lo Stato comunale. Questa posizione parrebbe confermata dagli esiti della giornata del 30 luglio, quando oltre 8 milioni di voti hanno dato fiducia al “potere popolare costituente”.
In ogni caso un conflitto istituzionale c’è. Aperto dalla destituita Procuratrice generale Luisa Ortega, accusata di corruzione e oggi latitante insieme al marito German Ferrer. Si fa riferimento a regole e codici, ma è evidente che si tratta di ben altro: di interessi di classe, di schieramenti sociali, e di posizionamenti sul campo della politica internazionale.
Proviamo a ricapitolare. Il punto di partenza dello scontro si è determinato a dicembre del 2015, quando le destre sono risultate maggioritarie nell’Assemblea nazionale, il parlamento monocamerale venezuelano. La repubblica bolivariana è una democrazia partecipativa a carattere presidenziale, si basa su cinque poteri, tenuti in equilibrio dal Tribunal Supremo de Justicia (Tsj). Le destre, che non hanno mai riconosciuto le istituzioni bolivariane, hanno immediatamente pensato di poter usare il parlamento come grimaldello per tornare alla democrazia rappresentativa vigente negli anni della IV Repubblica e alle ricette neoliberiste.
Da lì la costante insubordinazione alle decisioni del Tsj e i tentativi di golpe istituzionale: a cominciare dalla ratifica di tre deputati eletti in modo fraudolento, ma che avrebbero consentito alle destre di avere una maggioranza assoluta. E fino alla richiesta di sanzioni e di intervento esterno per risolvere manu militari una presunta crisi umanitaria e la “rottura dell’ordine costituzionale”. Quattro anni di violenze e attacchi per cacciare Maduro, contro il quale si è tentato di organizzare anche un referendum revocatorio come quello indetto contro Chavez nel 2004, e perso. Un piano che ha stravolto il calendario elettorale, rendendo necessario procrastinare le elezioni regionali, previste per l’anno scorso.
Fino a questo punto, dunque, le battaglie fra i due schieramenti sono rimaste nell’ambito della democrazia formale, ma sul filo teso della lotta di classe e dei suoi insegnamenti. E quello che è emerso, alla fine, è un vecchio problema: se il consenso, la conquista della maggioranza, imponga l’obbligo di verifiche elettorali continue e preventive, o se piuttosto una tattica rivoluzionaria mobile e non vincolata per principio ai formalismi borghesi, sia l’atteggiamento più produttivo per la creazione, la conquista (o la riconquista) dell’appoggio delle masse.
Luxemburg, cento anni fa, metteva in guardia dal burocratismo, dall’arbitrio e dal terrore. Ma sottolineava anche che solo un partito capace di “procurarsi seguaci nella tempesta” avrebbe saputo e potuto legare a sé le masse, traendo dalla loro vita e dalla loro cultura tutta l’energia e la creatività necessarie per marciare oltre i confini della società capitalistica.
Per quanto ci riguarda, in Venezuela, siamo ancora molto distanti da questi estremi drammatici. La tattica del Psuv sembra contare sulla “democrazia partecipativa”. E l’asse fondamentale di questa impostazione risiede in una sorta di decostruzione-superamento dell’impalcatura dello Stato borghese, condotta all’interno di regole certe ma non immobili. Navigando a vista, se si vuole. Ma cercando una rotta che dia una chance, o “un secondo tempo” alla partita epocale e più che mai necessaria del comunismo.
“La guardia è stanca, spegnete le luci”, disse il marinaio anarchico per ordine di Lenin nella Russia rivoluzionaria il 18 dicembre 1917. E così si chiuse la seduta della prima Costituente russa eletta a suffragio universale e in cui i bolscevichi non avevano la maggioranza. Checché ne dicano i media occidentali, l’Anc in Venezuela fa valere l’autorità del “potere originario”, ma senza annullare le funzioni degli altri organi costituzionali. E il parlamento non è stato sciolto. I deputati della Mesa de la Unidad Democratica (Mud) continuano a riunirsi nelle aule del palazzo legislativo, lo stesso in cui si svolgono le sedute dell’Anc.
La presidente dell’Assemblea Costituente, Delcy Rodriguez lo ha precisato rinnovando l’invito al parlamento – pur dichiarato a suo tempo “in ribellione” dal Tsj – a partecipare ai lavori dell’Anc e a rispettarne le decisioni. Le destre hanno disertato l’invito, scosse da nuove diatribe interne fra chi vuole continuare a puntare sulla via violenta e chi intende manovrare a più livelli, il primo dei quali rimane però quello elettorale. La maggioranza dei partiti di opposizione, pur avendo a più riprese dichiarato la sfiducia nell’autorità elettorale, il Cne, ha iscritto i propri candidati per le elezioni dei governatori, anticipate ad ottobre.
Ma intendiamoci: l’obliquo profilo dei deputati di opposizione non è neanche lontanamente paragonabile a quello dei menscevichi o dei socialisti rivoluzionari russi, che avevano gloriosamente combattuto lo zarismo, e che vennero mandati a casa dal marinaio Zelezniakov nella Russia rivoluzionaria. La lotta di classe, tuttavia, ripropone sempre le stesse porte strette, in cui i rivoluzionari conseguenti devono obbligatoriamente passare. Torniamo a Rosa Luxemburg. Dopo aver criticato le scelte di Lenin e di Trotsky nella “Rivoluzione russa” – un testo dell’ottobre del 1918 che, comunque, all’epoca accettò di non pubblicare – nel dicembre dello stesso anno, davanti al precipitare degli eventi nel teatro tedesco, Luxemburg sceglierà il Governo dei Consigli in diretta e totale contrapposizione alla democrazia “perfetta” dell’Assemblea Nazionale eletta a suffragio universale.
E allora? E allora l’uso interessato dei vecchi dilemmi e delle vecchie nobilissime discussioni sul rapporto tra democrazia e socialismo, mette solo in evidenza che, dal chiuso delle accademie, o dai desk dei giornali, quello che sempre si omette è proprio l’indicazione dell’inconcludenza delle socialdemocrazie e della loro sudditanza intrinseca all’universo culturale e politico della società borghese.
Rosa Luxemburg criticava i bolscevichi, si asteneva dal pubblicare le proprie riflessioni per “amor di causa”, e finiva poi per assumere le stesse posizioni dei rivoluzionari russi davanti alla tempesta finalmente scoppiata in casa propria. Ma, soprattutto, batteva sul punto della solidarietà internazionale, insisteva sulla necessità dell’appoggio alla rivoluzione sovietica, senza il quale “gli estremi sacrifici del proletariato in un singolo paese finiscono inevitabilmente per perdersi in un mare di contraddizioni e di sbagli”.
E infatti. Quale punto d’appoggio ha offerto la “critica-critica” di stampo europeo per spostare i rapporti di forza a favore dei settori popolari? A 100 anni dalla rivoluzione d’Ottobre, si organizzano convegni capaci di espungerne il principale dato storico: quello dell’azzardo e della presa del potere del partito guidato da Lenin e dai bolscevichi. E ben poche lezioni utili si sono volute trarre dalla parabola di Tsipras in Grecia. “La rivoluzione russa – scrive Luxemburg – non ha fatto su questo punto che confermare l’insegnamento fondamentale di ogni grande rivoluzione, la cui legge vitale è: o avanzare con molta celerità e decisione, abbattendo con mano ferrea tutti gli ostacoli e ponendosi sempre ulteriori mete, o essere ributtati assai presto dietro le alquanto indebolite posizioni di partenza, ed essere schiacciati dalla controrivoluzione. Fermarsi, segnare il passo, rassegnarsi con la prima meta raggiunta, sono fenomeni sconosciuti nelle rivoluzioni”.
Non servono attestati di fede. Epperò sarebbe assurdo pretendere “la perfezione” da un esperimento come quello bolivariano, che si è messo in moto dopo il crollo del socialismo e il dispiegarsi del neoliberismo a livello mondiale.
Nella ricerca dell’”aureo mezzo” sorgono invece pretesi guardiani del chavismo, disposti ad allearsi con l’oligarchia pur di ergersi a custodi del precetto di una democrazia procedurale, che proprio quelle oligarchie oggi loro amiche hanno calpestato e continuano a calpestare. Chavismo critico, chavismo morbido, chavismo in tutte le salse tanto mediatiche quanto prive di agganci reali. In realtà, in una società politicizzata e dunque polarizzata come quella venezuelana, tertium non datur. Se fosse dato, si vedrebbe, nelle piazze o nei progetti.
Invece, si vedono solo alcuni cambi di bandiera, apparentemente inspiegabili perché provenienti da deputati come German Ferrer, ex guerrigliero “fochista” poco avvezzo in passato alle sottigliezze della mediazione politica e oggi cantore della democrazia formale borghese. Secondo la magistratura, sarebbe a capo di una vasta rete di corruzione che ha covato nelle stanze del Ministerio Publico diretto dalla Fiscal General Luisa Ortega, chavista della prima ora con cui è sposato. Ferrer nega la veridicità delle accuse e denuncia “il neofascismo” dell’Assemblea Nazionale Costituente. Il giacobinismo di Maduro avrebbe consegnato alle ortiche la prima fase della vera democrazia chavista. La rivoluzione metterebbe pertanto in scena la vecchia tragedia, divorando i suoi figli anche quando si definisce umanista, cristiana e libertaria?
Sono parole grosse. Almeno per il momento, e, per così dire, a questo stadio delle contraddizioni. Ma è giusto non fare finta di niente. Poiché abbiamo “usato” Rosa Luxemburg contro i suoi estimatori iper-democratici, continuiamo questo nostro saccheggio, guardano in faccia i problemi insieme alla grande rivoluzionaria polacco-tedesca. Pur notoriamente critica del “giacobinismo” bolscevico, Luxemburg era una grande studiosa delle rivoluzioni borghesi, e rifletteva in questo modo sulla Rivoluzione francese. Per Kautsky – ricorda – vi sarebbero stati due periodi: “la rivoluzione ‘buona’ della prima fase girondina, e la ‘cattiva’ a partire dal sopravvento dei Giacobini. Occorre naturalmente la superficialità della concezione liberale della storia per non rendersi conto che senza la presa del potere degli ‘smodati’ Giacobini anche le prime timide mezze conquiste della fase girondina sarebbero andate presto sepolte fra le macerie della rivoluzione, e che la reale alternativa alla dittatura giacobina, come la poneva nell’anno 1793 il ferreo corso dello sviluppo storico, non era una democrazia ‘moderata’, ma… la restaurazione dei Borboni!”
In realtà – prosegue -, l’”aureo mezzo” non è una soluzione che possa reggere in periodo rivoluzionario, la cui legge di natura esige una rapida decisione: o la locomotiva viene spinta a tutto vapore verso l’erta storica sino alla vetta, oppure per forza di gravità rotolerà di nuovo in basso e senza scampo trascinerà seco nell’abisso coloro, che con le loro deboli forze volevano mantenerla a metà strada”. Si spiega così “come in ogni rivoluzione sappiano impadronirsi della direzione e del potere solo quei partiti che hanno il coraggio di dare la parola d’ordine avanzata e di trarne tutte le conseguenze. Così si spiega il deplorevole ruolo dei menscevichi russi, dei Dan, dei Cereteli, ecc che, dopo aver inizialmente goduto di enorme prestigio fra le masse, dopo aver a lungo oscillato fra una posizione e l’altra, e aver lottato con le unghie e coi denti per rifiutare la presa del potere e l’assunzione di responsabilità, furono ingloriosamente spazzati dalla scena”.
La citazione è stata lunga. Ma ne valeva la pena. Come i Dan, i Cereteli, i cosiddetti chavisti critici risultano spazzati via dalla scena reale, ma amplificati da quella virtuale, che nell’epoca della “post-verità” accorre a magnificarne l’impotenza ad uso e consumo dei “né-né” di casa nostra. Senza il metro storico, senza il coraggio di guardare in faccia la dura e complessa realtà della lotta di classe all’indomani del crollo del campo socialista, siamo nel mondo capovolto descritto da Galeano. I guarimberos che bruciano chavisti e afro-venezuelani sul modello del Ku Klux Klan vengono presentati come “combattenti per la libertà”. E a propinare lezioni sui diritti umani sono Trump e i suoi alleati, mentre personaggi screditati, appoggiati dai grandi conglomerati mediatici, parlano di un “altro” Venezuela, ecologista, pacifista, democratico, e, soprattutto, inesistente.
L’ecologismo, il desiderio di pace, l’esercizio completo e garantito di tutti i diritti individuali sono senza dubbio elementi importanti e irrinunciabili di ogni strategia di autentica liberazione che si voglia proporre, nel XXI secolo, come alternativa al mondo orrendo del capitalismo. Ma non saranno i critici-critici a imporli nell’arena delle contrapposizioni dure e inaggirabili.
L’Assemblea Nazionale Costituente insediata a Caracas ha messo al proprio ordine del giorno un nuovo modello di sviluppo basato sull’eco-socialismo e sulla partecipazione più ampia alla vita politica delle masse storicamente conculcate dall’imperialismo e dalle oligarchie. Ma ci vuol poco per capire che una autentica riconversione dello scenario produttivo venezuelano implica in realtà altre espropriazioni, altre rotture con i dettami (ancora molto rispettati nella prima fase del chavismo) della proprietà privata e delle sue ricadute legali e istituzionali.
Dunque? Dunque, “o inventamos o erramos”, diceva con ottima brevità Chavez. O s’inventa o si soccombe. E “se il Venezuela crolla, l’umanità crolla”, hanno sintetizzato di recente Noam Chomsky e John Pilger.
Sono parole esagerate?

(pubblicato su FB, 19 agosto 2017)

Foto: manifestazione antigovernativa a Caracas

image_pdf

Lascia un commento