Cosa ci insegna ancora Che Guevara di Antonio Moscato

 

[Uno “speciale” del Manifesto dedicato a Guevara (Venerdì 6 Ottobre 2017)

Lo segnalo con piacere, non perché c’è anche un mio pezzetto (le cui vicende mi hanno casomai rattristato un po’) ma perché almeno la metà degli articoli sono interessanti e utili, cosa rarissima se si esamina un qualsiasi numero del quotidiano preso a caso, o peggio ancora i supplementi “Alias”, che spesso sono stati un veicolo cosciente del senso comune della sinistra in sfacelo di questi anni. Le ragioni delle mia “tristezza” è che il limite invalicabile delle 6.000 battute, per rispettare il dogma redazionale della necessità di riempire sempre metà della pagina con una grande foto non necessariamente funzionale all’articolo (nel mio caso le foto sono state due) mi ha impedito di sviluppare un qualsiasi tema “nuovo”, come poteva essere la riflessione sull’uso strumentale di Guevara da parte degli orfani di quel “socialismo reale” da cui il Che aveva preso le distanze, e sulle ragioni dei lunghi anni di riduzione del Che ad icona, anche a Cuba, tra il 1972 e il 1987. Ma ci ritornerò eventualmente sul sito, su cui i limiti di spazio sono relativi. Intanto comprate questo numero del manifesto. Se non lo trovate, leggetevi intanto il mio pezzetto, che pubblico in una delle prime versioni, prima dei severissimi tagli che ho dovuto fare per non superare di una riga il limite imposto. (a.m.)

[PS: Il titolo non è lo stesso, ma l’accentuazione del riferimento a Praga sullo “speciale” è dovuto alla passione per quella città (e quella vicenda) del curatore dell’inserto, Tommaso Di Francesco, che mi è caro perché è l’unico redattore del manifesto che, approfittando delle ferie estive della lobby delle recensioni dei libri, riuscì a pubblicare una recensione agostana di un mio libro (La ferita di Praga), sfuggito alla censura silenziosa che ha impedito anche una piccola segnalazione di tanti altri miei libri più significativi.]

 

Rallentata l’ondata di pubblicazioni che riempivano un vuoto dopo anni di oblio, è possibile e necessario ricollocare Guevara fuori dal mito e dalla retorica del “guerrigliero eroico” ma sfortunato. Dissolta la nuvola di pubblicazioni di terza mano, rimangono alcune grandi biografie frutto di un lavoro reale tra cui spicca per completezza quella di Paco Ignacio Taibo II, che ha potuto far fruttare i molti rapporti con stretti collaboratori del Che stabiliti nei suoi lavori precedenti su Santa Clara e sul Congo.

  1. C’è poco da chiarire invece sulle circostanze della morte di Guevara: conta poco se l’ordine di ucciderlo a freddo è partito da Washington o da La Paz. Conveniva a molti impedire che in un processo pubblico potesse spiegare le ragioni della sua scelta. Invece rimangono da chiarire le ragioni della solitudine del Che negli ultimi sei mesi, senza medicine, senza radio, senza modesti walkie talkie per mantenere il contatto con la seconda colonna; senza che si tentasse, come fu fatto con altri nuclei di guerriglieri in quegli stessi anni, di far arrivare boliviani pratici della zona per aiutarlo ad uscire da quella regione ostile.
  2. Era rimasto in ombra un altro elemento decisivo: perché il Che aveva lasciato Cuba, che egli amava e dove era amatissimo. Eppure si chiarisce facilmente se si riflette sul testo di bilancio della spedizione nel Congo, finalmente pubblicato nel 1994 in tutto il mondo(tranne che a Cuba, che ha dovuto aspettare altri cinque anni). Appare chiaro che a quell’impresa – già avviata da altri – Guevara si era dovuto aggiungere, dopo la critica ai “paesi socialisti” complici dell’imperialismo, divenuta inevitabilmente pubblica perché pronunciata ad Algeri. Era abbastanza esplicita da suscitare l’ira di Mosca, come ammise anche Raúl Castro nell’atto di accusa contro la “microfrazione” di Aníbal Escalante. Anche l’impresa di Bolivia non era una iniziativa personale del Che: con lui erano partiti diversi membri del CC del partito comunista cubano. Casomai resta da chiarire come mai in entrambi i casi le informazioni raccolte dai servizi cubani erano risultate poco fondate: per il Congo in ritardo di almeno sei mesi, per la Bolivia del tutto sbagliate.
  3. Anche se Guevara non ha contribuito all’arricchimento del marxismo come Lenin, Rosa o Trotskij, è apparso giustamente un gigante rispetto alla maggior parte dei dirigenti comunisti o socialisti della sua epoca, perché ha “riscoperto” alcuni semplici pilastri del marxismo dimenticato o occultato: la necessità dell’indipendenza del partito comunista, il rifiuto della collaborazione interclassista, l’autorganizzazione del proletariato, l’internazionalismo. Era difficile farlo in un epoca in cui invece dei classici del marxismo in tutti i partiti comunisti si studiava sui “brevi corsi” tradotti dal russo, che assicuravano un indottrinamento fideistico. Per questo, senza troppe polemiche, il Che ha dovuto lasciare una Cuba che cominciava ad essere assimilata allo stile sovietico su molti terreni, compreso quello della “doppia verità”. Il gruppo dirigente cubano, per sopravvivere in un mondo ostile, e non solo per le pressioni sovietiche, stava imboccando una strada che in pochissimi anni l’avrebbe portata a tacere sugli errori e sui crimini di ogni governo “amico”, a partire da quello del Messico (il massacro di piazza Tlatelolco nel 1968, ignorato dalla stampa cubana, segue di appena un anno la morte del Che). Ma avrebbe taciuto anche sulle illusioni di Salvador Allende sulla evitabilità di un conflitto necessario per difendersi anche con le armi in caso di inasprimento del conflitto.
  4. Grande merito del Che è la comprensione tempestiva della crisi strisciante dell’URSS e dei paesi che ne avevano dovuto seguirne il modello, e in particolare la Cecoslovacchia. Grazie all’apporto di molti consiglieri cechi e anche sovietici, Guevara aveva saputo passare dal primo entusiasmo ingenuo dopo il primo viaggio in quei paesi (quando si autodefinì egli stesso “Alice nel continente delle meraviglie”) a una critica puntuale della crisi sociale ed economica che li minacciava e che sarebbe venuta alla luce in Cecoslovacchia pochissimi anni dopo la sua morte, trascinando con sé gran parte dei militanti comunisti educati al culto dell’URSS e al fideismo.
  5. Le Critiche al manuale di economia dell’Accademia delle scienze dell’URSS, ribattezzate da Borrego Quaderni di Praga perché completate in quella città, rimasero inedite per quaranta anni, nonostante il Che le avesse preparate minuziosamente per la pubblicazione. Da alcuni economisti cecoslovacchi come Valtr Komarek era stato aiutato a capire i punti deboli del “modello sovietico” imposto a tutti i paesi “socialisti”, ma in quella bellissima città non poté incontrare nessuno dei suoi amici e compagni locali, perché dovette vivere da clandestino, senza contatti. Secondo lo stesso Fidel la permanenza in quella città “aumentava i rischi” per i suoi progetti, e per questo lo convinse a tornare, di nuovo clandestinamente, a Cuba. Ma quelle riflessioni critiche sulle strozzature dell’economia sovietica sarebbero state preziose se pubblicate immediatamente, o almeno al momento del crollo dell’URSS; ora, rilette attentamente, servono quasi solo come testimonianza di un itinerario intellettuale. La fine dell’URSS è lontana, e chi aveva creduto nella sua eternità non vuole ammettere che era possibile prevederne il declino, come il Che fu capace di fare.
  6. Il ritardo nel pubblicare altri scritti già preparati dal Che, come i Pasajes de la guerra revolucionaria, Congo, ha avuto conseguenze gravi già per le successive imprese cubane in Africa, celebrate ancor oggi sorvolando sulle caratteristiche dei regimi che hanno puntellato (Angola, Mozambico ed Etiopia, soprattutto) e su quelle dei dirigenti dei movimenti di liberazione che si erano formati giocando sulla concorrenza tra URSS e Cina, come Laurent Désiré Kabila, su cui il Che aveva espresso un giudizio severissimo non ascoltato, e che diventerà poi trent’anni dopo presidente della Repubblica Democratica del Congo.
  7. La tardiva pubblicazione di gran parte degli inediti ha avuto una scarsa incidenza nel dibattito cubano di oggi. Pesa la inesorabile estinzione per ragioni anagrafiche di alcuni dei tenaci cultori del Che come Fernando Martinez Heredia, tollerati dopo gli anni di silenzio forzato ma a condizione di ricorrere a un linguaggio poco comprensibile ai non addetti ai lavori. Ma si deve anche al fatto che le ricette di Guevara, come quelle di Lenin nel cosiddetto “Testamento politico”, erano già in ritardo sulla trasformazione del paese, che era già in gran parte avvenuta. La sua sconfitta nel dibattito del 1963-64 non era casuale, era il riflesso del consolidamento di una burocrazia sempre più consapevole dei suoi interessi, ben diversi da quelli che pretendeva (e pretende) di rappresentare.
  8. Pesa molto il nuovo isolamento di Cuba nel continente. Sono già stati sconfitti i governi progressisti in Argentina e soprattutto in Brasile, uno dei paesi chiave per il progetto bolivariano grazie alle sue dimensioni e le sue risorse, e non è facile che altri ne prendano il posto in questa fase. Cuba sostiene il governo del Venezuela, ma le sue difficoltà non sono un’invenzione dei media ostili: Caracas ha dovuto ridimensionare drasticamente le forniture di petrolio. L’isola quindi è sola di fronte agli Stati Uniti, per giunta guidati non più da un Obama (di cui era peraltro lecito dubitare all’inizio delle trattative per riprendere i rapporti diplomatici) ma da un bruto imprevedibile come Trump. Tanto più perché utilizzano largamente l’argomento del comportamento non ineccepibile del governo Maduro, principale anche se ormai insufficiente puntello esterno di Cuba. Lo stesso rapporto privilegiato instaurato tra Cuba e Venezuela (sul piano economico, ma anche politico e ideologico, e con un forte legame personale tra i due fratelli Castro e Chávez) era stato utile e prezioso soprattutto per l’isola, ma a Caracas evocava il rischio di un’assimilazione a Cuba, che spaventava per la sua rigidità ideologica e il permanere delle pesanti difficoltà economiche della popolazione, e forniva argomenti alle opposizioni ostili a una maggiore integrazione nell’ALBA. E di fatto era stata dimenticata e comunque poco ascoltata un’altra delle indicazioni di Guevara, che pensava già cinquant’anni fa a coordinare i movimenti, più che gli Stati di un presunto “campo progressista”…
  9. Un’altra “riscoperta” di Guevara che allora sbalordì il mondo e fu alla base del suo fascino tra i giovani, è che la verità è rivoluzionaria, che bisogna dire quel che si pensa e fare quel che si dice. Era scontata in Lenin, Trotskij, Rosa, Gramsci, ma era stata dimenticata nei decenni in cui la maggior parte dei partiti comunisti abbellirono con frasi rivoluzionarie una collaborazione di classe non diversa da quella praticata dalle socialdemocrazie. Sembra poco ma è tantissimo, per la sinistra smarrita e afona in tutto il mondo. Basterebbe questo per rendercelo indispensabile.
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